di Michele Giorgio – Il Manifesto
La partita siriana non è
ancora finita. Se nel primo tempo il presidente siriano Bashar Assad e i
suoi alleati – Russia, Iran e Hezbollah – sono riusciti a riconquistare gran parte del paese grazie alla battaglia decisiva vinta due anni fa ad
Aleppo, nel secondo tempo gli avversari occidentali e arabi faranno di
tutto per ribaltare il risultato.
L’obiettivo è, come nei passati sette anni, la rimozione dal potere
di Assad e la fine dell’alleanza tra Siria e Iran e dell’allineamento di
Damasco alla cosiddetta “Mezzaluna sciita”. Un risultato che
non sono riusciti ad ottenere con le armi e l’impiego di migliaia di
jihadisti e islamisti “ribelli” e che adesso ritengono raggiungibile
imponendo il blocco più o meno totale della ricostruzione del Paese
devastato dalla guerra.
Di ricostruzione in Siria si parla già da un paio d’anni e di tanto
in tanto si legge di progetti che imprese russe, iraniane e di altri
paesi fuori dal “fronte anti-Assad” sarebbero pronte ad avviare per
rimettere in piedi il Paese. Le Nazioni unite calcolano in 400
miliardi il costo della ricostruzione. Una cifra immensa che possono
permettersi di sborsare solo gli Usa, l’Europa e le ricche
petromonarchie del Golfo e pertanto destinata a rimanere solo inchiostro
su carta sino a quando Assad, o meglio l’intero establishment politico e militare siriano, non si farà da parte.
La linea è stata dettata al Palazzo di Vetro, su
pressione di Washington e dei suoi alleati. Un documento dell’ottobre
2017, disponibile sul sito dell’Onu, definisce criteri e principi
dell’aiuto umanitario alla Siria. Un punto evidenziato in grassetto
sancisce che «Soltanto quando ci sarà una transizione politica genuina e
inclusiva negoziata dalle parti, le Nazioni Unite saranno pronte a
facilitare la ricostruzione».
Il mese scorso Washington ha annunciato che rifiuterà qualsiasi
assistenza alla ricostruzione post-bellica se forze iraniane saranno
presenti in Siria. Il Segretario di Stato Mike Pompeo, parlando a un
gruppo pro-Israele, ha descritto la Siria come un «campo di battaglia
decisivo» e negato la volontà degli Usa di disimpegnarsi dal Paese
arabo. «L’onere di espellere l’Iran dal paese ricade sul governo siriano
– ha affermato Pompeo – se la Siria non garantisce il ritiro totale
delle truppe sostenute dall’Iran, non riceverà un dollaro dagli Stati
Uniti per la ricostruzione».
La sconfitta dell’Isis in Siria, ha aggiunto il responsabile della
politica estera statunitense, «era il nostro obiettivo principale e
continua ad essere una priorità ma ad esso si sono aggiunti altri due
obiettivi: la risoluzione politica del conflitto e la rimozione di tutte
le forze iraniane». Secondo la Nbc gli Stati Uniti
impediranno in ogni modo possibile agli aiuti alla ricostruzione di
entrare in Siria. Questa strategia non prevede che Assad sia rovesciato
con la forza bensì con la pressione economica e sanzioni dure. Il
governo siriano se vorrà ottenere i finanziamenti internazionali per la
ricostruzione dovrà tagliare i legami che ha con l’Iran mentre
Assad dovrà accettare di uscire di scena, annunciando come prima cosa
che non si candiderà per un nuovo mandato presidenziale.
Le agenzie dell’Onu si sono adeguate al diktat di Usa e alleati
occidentali e arabi. «Ad Aleppo, ad esempio, le Nazioni unite hanno una
politica ben precisa» ci spiega una fonte siriana che collabora con una
importante organizzazione umanitaria e che ha chiesto l’anonimato «se
un edificio è stato danneggiato dalla guerra le agenzie dell’Onu
potrebbero intervenire per ripararlo. Invece si astengono
categoricamente da qualsiasi lavoro di costruzione ex novo perché la
linea è che in Siria la guerra va avanti e Assad non ha vinto».
Non pochi dirigenti delle Nazioni unite contestano questa linea che
penalizza milioni di civili siriani, aggiunge la fonte, «ma non possono
muovere un passo senza il via libera dall’alto quando si tratta di
lavori di ricostruzione, anche di piccola entità, di infrastrutture
civili, anche quando potrebbero migliorare la vita di comunità prive di
servizi essenziali, come l’elettricità e la rete idrica».
Il no alla ricostruzione non è seguito solo dall’Onu. Per la Banca Mondiale la situazione nel paese sarebbe ancora incerta.
A inizio novembre il vice presidente per il Medio oriente e il Nord
Africa della Banca Mondiale, Ferid Belhaj, ha detto al giornale online
Sputnik che «Per ora l’ambiente (in Siria) non è favorevole» e ha
aggiunto che un cambiamento di linea sarebbe comunque legato al consenso
della comunità internazionale. La partita si gioca persino sulla pelle
dei profughi.
Se è giusto che coloro che sono scappati dalla guerra (verso Libano,
Turchia, Giordania e altri paesi) tornino in patria in condizioni di
sicurezza e che alcuni di loro non siano costretti a subire eventuali
punizioni da parte delle autorità, allo stesso tempo il rientro
dei profughi viene comunque permesso con il contagocce perché non si
vuole riconoscere la fine del conflitto e la stabilità della presidenza
Assad.
Intanto le petromonarchie sunnite che tanto hanno fatto per abbattere
Assad, armando e finanziando jihadisti e qaedisti in Siria, ora mandano
segnali concilianti e fanno capire di essere pronte a riallacciare i
rapporti con Damasco. Già qualche mese fa Anwar Gargash, l’influente
ministro degli esteri degli Emirati, aveva parlato di «grave errore» in
riferimento all’espulsione della Siria dalla Lega Araba (voluta
dall’alleata Riyadh).
L’obiettivo di questa svolta è combattere l’Iran e spezzare, forse
promettendo generosi aiuti economici, l’alleanza tra Tehran e Damasco. E
anche limitare l’influenza della Turchia. «La situazione – scrive Kamal
Alam sul portale Middle East Eye – non è diversa dal
precedente riavvicinamento tra il defunto re Abdullah dell’Arabia
Saudita e Assad dopo l’assassinio di Rafiq Hariri in Libano nel 2005. In
precedenza, come ora, i sauditi misero fine alla loro ostilità nei
confronti di Damasco per combattere l’influenza iraniana e turca nel
Levante».
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