Per le banche italiane la crisi del 2007 si inserisce in un processo di concentrazione del capitale iniziato con le riforme bancarie a partire dal 1990 (si pensi alla legge Amato). Le direttive europee sono funzionali all’emersione di un capitale finanziario sovranazionale e dunque l’adeguamento legislativo deve consentire il superamento dell’istituto di diritto pubblico, lo sganciamento dalla norma costituzionale che prevede la tutela del risparmio, l’aumento di capitale (tramite ricorso ai mercati finanziari) necessario per trasformare le banche italiane in soggetti che competano a livello europeo e dunque la pressione sulle fondazioni (che garantiscono il rapporto della banca con il territorio su cui essa si proietta) affinché perdano la maggioranza dei pacchetti azionari. Nello stesso tempo si eliminano quelle norme legislative che impediscono il formarsi di banche che siano di deposito (rastrellando il risparmio delle famiglie) e d’investimento. Quest’ultimo processo sarà un fattore d’instabilità dal momento che implicitamente trasformerà i risparmiatori in investitori che di fatto sono sottoposti al rischio di perdere i loro risparmi.
Non a caso già in questi anni le banche italiane cominciano a piazzare alla loro clientela certificati di deposito e obbligazioni proprie invece che titoli del debito pubblico. Questo drenaggio farà sì che la percentuale di titoli del debito pubblico distribuita tra i cittadini tenderà a diminuire mentre aumenterà quella in possesso delle stesse banche (soggetti che contrariamente ai piccoli risparmiatori considerano questi titoli merce di scambio come tutte le altre rendendo così il debito pubblico più precario).
Tuttavia nel 2007, se il processo di concentrazione porta i cinque maggiori gruppi bancari italiani ad avere più del 50% del mercato italiano, l’integrazione delle banche italiane nel sistema finanziario internazionale è ben lungi dall’aver raggiunto livelli considerati soddisfacenti dagli opinion makers che si sprecano nel criticare un sistema che si ostina a vivere ancora di intermediazione bancaria. Sarà questo relativo arretramento (e le conseguente minore esposizione delle banche italiane) ad evitare un eccessivo coinvolgimento del sistema bancario nella crisi dei subprime. Piuttosto a rendere difficile la vita alle banche italiane saranno le ripercussioni sull’economia reale che, indebolendo la solvibilità di imprese e famiglie, aumenteranno la quantità di crediti deteriorati nella pancia degli istituti italiani e renderà questi ultimi più selettivi nel venire incontro alla richiesta di prestiti e mutui. Questo genera un circolo vizioso che assieme alle politiche economiche austeritarie aggraverà la portata stessa della crisi.
La concentrazione del capitale bancario in Italia forse è andata più avanti di quella del capitale industriale per cui sarebbero le grandi banche a dover fare credito alle piccole e medie imprese, ma la raccolta delle informazioni relative a queste ultime è troppo complessa e costosa per cui il razionamento del credito diventa eccessivo. A questo punto saranno le restanti banche popolari o di credito cooperativo a venire incontro alle esigenze delle piccole e medie imprese soprattutto nel Nord-Est. Questa rafforzata alleanza avrà piena rappresentazione politica nel rilancio della Lega di Salvini che fa propria l’istanza delle comunità locali della parte più ricca del paese a difendersi in un Europa che mette spesso a repentaglio il loro stesso benessere. Il razionamento del credito trova giustificazione anche in una minore presunta tutela giuridica del creditore (rispetto ad altri paesi) che disincentiva le banche a prestare soldi.
Negli altri paesi infatti il maggiore controllo del creditore sul debitore consente al tempo stesso una maggiore disponibilità del creditore a fare un prestito (se il miserabile non scappa da sotto il tavolo il ricco epulone gli può concedere le briciole).
Il peso dei crediti deteriorati diminuirà la redditività delle banche e consentirà a queste una patrimonializzazione comunque inferiore alle altre banche europee. Il tentativo di recupero consisterà o nell’acquisto e incorporazione di altre banche o nella capitalizzazione attraverso il ricorso ai mercati finanziari e alla pletora dei clienti. Questi tentativi porteranno però anche ad esiti indesiderati: per il Gruppo Monte Paschi l’acquisto di Antonveneta in un quadro di crisi e di flessione degli asset sarà il classico passo più lungo della gamba e nel suo caso sarà lo Stato ad intervenire direttamente. Quella che però è più significativa è la vicenda delle quattro banche interessate da parentele interne allo stesso governo Renzi.
Qui assistiamo alla capitalizzazione degli istituti di credito tramite obbligazioni acquistate dalla clientela al dettaglio, obbligazioni subordinate che sono sequestrabili nel caso di fallimento della banca. Così il bail in europeo (modalità di risoluzione di una crisi bancaria che esclude il ricorso all’intervento dello Stato), in nome della libera concorrenza, trasforma (come abbiamo detto) i risparmiatori in investitori che si assumono un rischio nel momento stesso in cui versano i propri risparmi o acquistano azioni e obbligazioni bancarie. Il suicidio del pensionato correntista di Banca Etruria è l’effetto collaterale che denuncia la natura classista di queste politiche.
Ancora più grave è il processo d’incorporazione del debito pubblico da parte delle banche italiane. Avviato come si è visto negli anni Novanta, esso si è accelerato in quest’ultimo decennio. Nel 2009 il controvalore era di ben 220 mld di euro. Nel 2015 però era raddoppiato (445 mld di euro) giungendo a più del 20% dell’ammontare dell’intero debito pubblico. Un abbraccio mortale tra Stato e sistema bancario in cui apparentemente non si capisce chi sia il carnefice e chi la vittima. Si potrebbe dire anche che la politica economica di un governo potrebbe mettere in crisi il bilancio delle banche (ad es. in presenza di un aumento dello spread). Tuttavia si capisce che il sistema bancario se in prima istanza ha comprato questi titoli perché considerati sicuri sta in realtà esercitando il suo diritto di creditore e con questo diritto condiziona la politica economica italiana.
La presenza nel governo Monti del già amministratore delegato di Intesa San Paolo Corrado Passera è il modo con cui il creditore mette i piedi nel piatto e detta allo Stato italiano (assieme allo stesso Monti, delegato del capitale sovranazionale) cosa fare e cosa non fare.
Questo intreccio vischioso viene criticato in Germania per ragioni di competizione tra sistemi bancari e sistemi paese. La sua persistenza costituisce una relazione pericolosa che ci suggerisce che il tunnel del divertimento per l’Italia non è ancora finito.
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