“Gli intellettuali se non hanno tradito, tradiranno” . Nelle file della sinistra popolare e di classe siamo cresciuti con questa stimmate nel cervello. In questo c’è molto la diffidenza storica di chi è di estrazione popolare verso i professoroni e in qualche modo “i ricchi”.
In modo più sofisticato, il filosofo francese Julien Benda scrisse sul “tradimento dei chierici”, un libro usato in modo ambivalente da detrattori e sostenitori. Eppure Benda scriveva negli anni Venti che: “I chierici qui in causa assicurano spesso che loro ce l’hanno solo con la democrazia “bacata”, com’essa si è dimostrata più volte nel corso di quest’ultimo cinquantennio, ma che sono tutti per una democrazia “pulita e onesta”. Non è vero niente, dato che la democrazia più pura costituisce, per il principio di uguaglianza civica insito in essa, la formale negazione di quella società gerarchizzata che essi vogliono”.
Questa diffidenza verso gli intellettuali, nell’epoca del “pensiero social”, è diventata ostilità vera e propria. Anzi è stata ridotta a macchietta diffondendo l’idea che su ogni argomento, anche quelli più complessi, una opinione valga l’altra, indifferentemente dai dati empirici che ne dimostrano l’aderenza o meno alla realtà. I social e l’habitat grillino hanno seminato questa mala pianta a piene mani.
Ma il tradimento degli intellettuali si ripresenta puntuale, soprattutto “di quelli che non ti aspetti” proprio perché, come diceva Julien Benna, sono schierati per la democrazia ma alla fine ne hanno una visione aderente ad una società comunque gerarchizzata, in cui loro, pur criticamente, non hanno l’incombenza di mescolarsi e convivere con il popolaccio: essi in fondo sono sempre e solo èlite.
Se poi il popolaccio entra in campo, e spesso lo fa in modo spurio, senza andare troppo per il sottile, concedendo qualcosa di troppo alle strumentalizzazioni dei più spregiudicati, gli intellettuali non esitano a schierarsi con chi assicura che lo statu quo non ne verrà stravolto, anche a costo di rimettere in discussione il suffragio universale. Non occorre arrivare all’economista Gambisa Moyo per sentirlo ripetere sempre più spesso anche in Italia.
La verifica sul tradimento o meno degli intellettuali avviene sempre ed infatti quando il gioco si fa duro, quando la posta in gioco attiene interessi materiali e non solo battaglia delle opinioni.
Questa contraddizione non è sfuggita ad uno storico come Angelo D’Orsi (una vita all’università di Torino ma con poche concessioni all’establishment). D’Orsi sottolinea infatti lo schieramento di una larga parte dell’intellettualità “progressista” con la manifestazione dei Si Tav di alcuni giorni fa a Torino. “Ha fatto specie davvero leggere, nel commento (sulla Stampa) di un osservatore serio come Vladimiro Zagrebelsky, l’elogio di quella piazza, che sarebbe stata formata da “cittadini con il senso del dovere” scrive D’Orsi nel suo commento.
Insomma, Gustavo Zagrebelski, illustre giurista, padre nobile delle cause “progressiste”, promotore del NO al referendum contro-costituzionale di Renzi nel 2016, editorialista di tutti i giornali del Gruppo Gedi (quello di La Repubblica e La Stampa), si è schierato oggi come fecero “come un sol uomo” esattamente gli stessi ambienti nell’ottobre del 1980: allora a fianco dei capetti della Fiat e della borghesia torinese cresciuta intorno alla Fiat e contro gli operai che avevano occupato la fabbrica. Oggi si schierano invece con il composito fronte di interessi a favore della Tav e contro il movimento No Tav.
Già questo sarebbe un motivo in più per riempire le strade e le piazza di Torino il prossimo 8 dicembre insieme al popolo No Tav e umiliare nei numeri e nei contenuti la manifestazione Si Tav dello scorso 10 novembre. Quella manifestazione di “cittadini con il senso del dovere”, come li definisce Zagrebelski, vedeva insieme padroni e sindacati ufficiali, fascisti, leghisti, Pd, Forza Italia, la n’drangheta calabrese infilatasi negli appalti e gli imprenditori preoccupati delle conseguenze del blocco di una grande opera che si è già rivelata più costosa, dannosa e inutile di quanto si potesse immaginare.
Anche in questo caso contano i dati empirici che il Movimento No Tav ha reso pubblici da anni, mai smentiti, se non in nome del completamento di un disastro annunciato e cominciato nonostante l’eroica resistenza popolare della Val di Susa.
Ma perché oggi Zagrebelski come l’intellettualità liberale e progressista nell’ottobre del 1980 sulla Fiat, si schierano con i padroni, con interessi speculativi e privati dichiarati, con la devastazione del territorio in nome di una imprecisa e imprecisabile “modernizzazione”? Anche nel 1980 la Fiat di Agnelli impugnò la clava della modernizzazione del sistema industriale e delle relazioni sindacali, per licenziare migliaia di operai e riscrivere completamente una fase della storia del movimento operaio in Italia.
Qualche giorno fa in una riunione un giovane attivista, niente affatto sprovveduto, ha sottolineato come sulla Tav a Torino, la borghesia fosse costretta a ricorrere ancora una volta alla mobilitazione popolare per sostenere i propri interessi. Uno sforzo che la borghesia milanese o bolognese non ha mai avuto bisogno di fare perché ha in mano tutte le carte del gioco: dal potere economico al consenso.
Il problema è forse che la borghesia torinese sente che, a differenza di quella milanese, sta declinando. L’essere cresciuta sistematicamente nella ciccia e negli interstizi della Fiat, una volta che la Fiat diventata Fca se ne sta andando dall’Italia (vedi la vendita di Magneti Marelli e ora di Comau), lascia dietro di sé poca roba decente e tante macerie. Non solo. Milano ha cercato anche di scippare a Torino il Salone del libro inventandosi la Fiera dell’Editoria. Ed infine i flussi del capitale umano qualificato se cercano un lavoro guardano a Milano e non certo a Torino. Quindi niente linfa vitale, neanche con l’immigrazione interna, come avvenne invece negli anni Cinquanta e Sessanta con l’emigrazione meridionale verso la città-fabbrica per eccellenza.
Anche su questo prendiamo a prestito il prof. D’Orsi quando scrive che per la borghesia torinese “l’illusione che il TAV possa interrompere quel declino è a dir poco patetica”.
L’8 dicembre a Torino dunque non si gioca solo una partita sui numeri della manifestazione No Tav come risposta a quella dei Si Tav. Per un verso si farà quello che andava fatto a Torino nell’Ottobre del 1980 per rispondere ed umiliare “la marcia dei quarantamila” reggicoda della Fiat: una manifestazione di centomila operai che avrebbe mandato un segnale chiaro e forte di interessi materiali in conflitto. Ma sia le direzioni sindacali che quelle politiche (lo stesso Berlinguer fu messo in minoranza nel Pci), per non parlare poi dei “chierici progressisti”, imposero la capitolazione degli operai Fiat per mandare un segnale doloroso a tutti i lavoratori.
Sostenere oggi il Movimento No Tav non significa solo materializzare una resistenza popolare contro una grande affare dannoso, costoso e inutile, significa materializzare un altro e diverso modello di sviluppo per questo paese. Fermando le grandi opere inutili, avviando quelle utili alla collettività e non ai prenditori privati, riportando sotto controllo pubblico le leve strategiche dello sviluppo economico.
Una bella sfida tra interessi materiali in conflitto.
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