La politica culturale serve a formare
cittadini sovrani, non sudditi e clienti passivi, serve per cercare di
creare le condizioni perché le arti e le scienze si possano sviluppare
liberamente così da contribuire alla crescita intellettuale del paese.
In questo senso non c’è una separazione netta tra cultura umanistica e
scientifica, o meglio il compito accennato prima accomuna le “due
culture” e in questo senso le unifica. Come diceva Norberto Bobbio, «il
primo compito degli intellettuali dovrebbe essere quello di impedire che
il monopolio della forza diventi anche il monopolio della verità»,
fornendo appunto gli strumenti culturali e intellettuali per
interpretare quello che accade nella realtà che ci circonda, e prevedere
in anticipo i disastri futuri è uno degli aspetti di questo lavoro.
Invece di immaginare come sarà la cultura nel 2030, cercherò di
focalizzare l’attenzione sulle tendenze che mi sembra di vedere oggi, o
meglio negli ultimi dieci anni, e che dunque permetteranno di
identificare i pericoli che corrono oggi la cultura e la ricerca.
Nel nostro paese, sono in atto da almeno tre lustri tre diversi tipi desertificazioni.
La prima è quella
finanziaria. La scuola e l’università hanno subito tagli di bilancio,
innestati dalla morsa delle due leggi Tremonti (133/2008) e Gelmini
(240/2010). Entrambe le leggi sono state approvate dal governo
Berlusconi, ma, di fatto, applicate e peggiorate dai governi successivi,
sia per il taglio delle risorse sia per l’asfissiante e insensato
cappio burocratico di stampo sovietico, che è stato imposto
all’insegnamento e alla ricerca di ogni ordine. I numeri sono quelli di
un paese che esce da una guerra, e, infatti, sono stati i tagli maggiori
al sistema dell’istruzione dal dopoguerra a oggi. Mentre l’Italia ha
scientemente tagliato le risorse nell’istruzione, altri paesi europei
hanno fatto il contrario: la Germania dal 2000 al 2013 ha aumentato del
70% la spesa in ricerca e sviluppo che ora ha raggiunto il fatidico 3%
del PIL auspicato dalla strategia di Lisbona. Un’Europa a diverse
velocità dunque, dove gli obiettivi europei in positivo sono solo degli
auspici mentre quelli in negativo sono delle imposizioni molto spesso
insensate.
Attenzione però: in Italia il taglio di
spesa non è stato uniforme sul territorio nazionale ma ha riguardato il
centro sud piuttosto che il nord. Anzi la sola area lombardo-veneta che
sta facendo il pieno di finanziamenti (basti pensare a Human Technopole,
il centro di ricerca varato dal governo Renzi che dovrà sorgere
nell’area milanese dell’Expo e finanziato per l’astronomica cifra di un
miliardo di Euro) o l’iniziativa della Regione Veneto sull’ “autonomia
differenziata”, una bozza di disegno di legge delega che prevede la
sostanziale regionalizzazione della scuola e dell’università.
Lo squilibrio che si sta verificando a livello regionale, che comporta il secondo tipo desertificazione,
quella sociale, di intere zone del paese cui non è già più garantito un
sistema di istruzione di qualità, e sempre meno lo sarà in futuro, non è
altro che il riflesso della stesso processo che si sta verificando in
Europa, dove le risorse stanno seguendo la direttrice sud-nord. Ad
esempio il nostro paese riceve meno, per quanto riguarda la ricerca, di
quello che mette nel calderone europeo. La base ideologica che
giustifica questo processo si chiama “meritocrazia”, termine coniato dal
sociologo Michael Young che l’ha concepito per criticare una società
governata dall’élite di talento. Il punto è molto semplice: la
meritocrazia, senza garantire le pari opportunità, porta al privilegio.
Le università tedesche attraggono più fondi di ricerca delle nostre
perché sono più ricche, si possono permettere politiche della ricerca
con fondi per noi astronomici. La competizione è una chimera usata per
ammaliare il pubblico, proprio come le classifiche degli atenei.
Leggiamo spesso che le nostre università hanno piazzamenti in queste
classifiche non paragonabili a Harvard o Yale, che diventano
“ovviamente” il modello cui ispirarsi. Peccato che Harvard e Yale
insieme spendano più del 70% dell’intero fondo di finanziamento statale
di tutte le sessantasei università italiane, che hanno un milione e
seicentomila studenti contro gli appena trentatremila dei due top atenei
americani.
La meritocrazia diventa la
giustificazione delle enormi disuguaglianze che stanno crescendo non
solo a livello continentale e nazionale ma anche a livello di una
singola università o di un dipartimento, e in definitiva sono legate
agli squilibri di partenza tra i diversi attori in competizione per le risorse. È questo il motore della desertificazione sociale. Se,
secondo l’articolo 3 della Costituzione, il compito dello Stato sarebbe dovuto essere quello di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese”, grazie alla mistificante competizione
meritocratica si stanno escludendo interi settori della società e intere
zone del paese dalla possibilità di accedere agli studi e di ottenere
finanziamenti adeguati, non tanto e non solo per poter competere ad armi
pari a livello internazionale, ma almeno a sopravvivere
scientificamente.
Il terzo tipo di desertificazione
ha anche una matrice ideologica che è accomunata alla meritocrazia: la
desertificazione culturale. Lo stesso meccanismo in atto per cui le
risorse sono dirottate da sud a nord è attivo a livello di una singola
disciplina. Grazie alle politiche in atto sulla valutazione
dell’attività dei ricercatori, è diventata pratica comune, tra i giovani
ricercatori di investire il proprio tempo di ricerca in maniera
conservativa, puntando su quelle idee di “mainstream” (dominanti in una
certa disciplina) che sono già state ampiamente esplorate in
letteratura. Questa tendenza è dovuta alla pressante competizione con i
propri colleghi e alle prospettive del mercato del lavoro. Le ricerche
originali e non di mainstream non solo non sono incoraggiate ma sono
forzosamente scoraggiate. Eppure è sufficiente leggere un buon libro di
storia della scienza per sapere che le idee innovative a volte si
affermano per caso, a volte nascono per la testardaggine di qualche
scienziato che segue un sentiero inesplorato. Alcuni esempi sono la
scoperta del grafene, della superconduttività ad alta temperatura, del
microscopio a effetto tunnel, della magnetoresistenza gigante (effetto
alla base della miniaturizzazione degli hard disk) o anche le invenzioni
nel campo della fisica dei laser premiate proprio il mese scorso con il
Nobel per la fisica. La ricerca è come addentrarsi in una giungla fitta
e oscura non come guidare su un’autostrada aiutati magari dalla guida
assistita di burocrati che chiedono di indicare, in un progetto di
ricerca, quali sono le “milestones” che saranno raggiunte tra sei mesi,
quelle tra un anno e così via. La storia insegna ma non ha scolari.
Le tre desertificazioni,
finanziaria, sociale e culturale non sono solo fenomeni italiani, ma
certamente nel nostro paese hanno avuto un impulso enorme negli ultimi
venti anni. Il cambiamento ventilato dal nuovo governo, per quello che
riguarda la cultura, deve partire proprio dall’inversione di questa
rotta, cercando di dare alimento al paese finanziariamente, socialmente e
culturalmente. Al ministero dell’istruzione non si tratta di cambiare solo
le persone, ma anche la mentalità: il problema è che al momento non
sono cambiate neppure le persone.
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