di Nicolò Bellanca
Oggi l’economia di un Paese è sottoposta ai diktat di organismi
internazionali o sovranazionali, e alle pressioni dei mercati
finanziari, al punto che si può dubitare che esistano ancora i margini
discrezionali per disegnare e attuare una politica economica. In questo
quadro, per fortuna, alcune buone idee possono rispondere alle esigenze
della sinistra. Qui ne presento brevemente sette, senza entrare in
particolari tecnici, né in valutazioni dettagliate della loro efficacia.
Ritengo che si tratti di proposte valide, in parte tra loro
alternative, e che esse siano praticabili nelle condizioni date. Esse
contribuiscono quindi a dare respiro ampio a un programma di sinistra,
spesso accusato di utopismo e velleitarismo.
La
prima proposta si chiama “moneta fiscale”: uno strumento monetario a
circolazione interna, complementare all’euro, che apre alla possibilità
di combattere disoccupazione e stagnazione, malgrado i vincoli appena
menzionati[1].
La moneta fiscale è un titolo statale di credito, elargito
gratuitamente, con cui il possessore (persona o impresa) potrebbe pagare
una quota delle tasse dopo un certo lasso di tempo: si tratta quindi di
uno sconto fiscale dilazionato, garantito dallo Stato, non rimborsabile
in euro e che non dovrebbe costituire una voce del debito pubblico[2].
Rappresentando un diritto certo a un beneficio fiscale futuro, questo
titolo sarebbe venduto da chi cerca liquidità, e acquistato da chi cerca
sconti fiscali: lo si potrebbe dunque convertire in euro al suo valore
attualizzato. Sarebbe distribuito in proporzione inversa al reddito
delle persone, così da elevare i loro consumi; e proporzionalmente al
numero dei dipendenti delle imprese, per ridurne in maniera
significativa il costo del lavoro e innalzarne la competitività. In
condizioni di sottoimpiego dei fattori di produzione, l’economia sarebbe
stimolata, grazie al moltiplicatore keynesiano, dal nuovo potere
d’acquisto così creato: ciò compenserebbe, alla scadenza di questi
titoli, la contrazione del gettito, causata dallo sconto fiscale, con il
maggior prelievo lordo, generato dall’espansione, ed eviterebbe l’aumento del debito pubblico.
La seconda proposta prende le mosse da un dato che smentisce la vulgata
neoliberista, secondo cui lo Stato invade esageratamente l’economia.
Sommando ogni livello di governo e ogni tipo di attività, gli occupati
nel settore pubblico italiano sono 3.350.000, molto meno numerosi di
quanto siano in Paesi comparabili al nostro per dimensioni e livello di
sviluppo: in Francia sono circa 6.200.000 e nel Regno Unito circa
5.800.000. Persino negli Stati Uniti il numero di dipendenti pubblici
civili pro-capite è più alto che in Italia di circa il 25%.
Nondimeno, un’amministrazione pubblica di adeguate dimensioni, e con
personale qualificato, costituisce un aspetto decisivo del benessere
sociale, fornendo servizi riguardanti la giustizia, la salute, la
formazione o la tutela del territorio e dei beni culturali. Occorre
pertanto assumere un milione di giovani, con un livello d’istruzione
medio o alto. Il costo totale dell’intervento straordinario oscilla tra i
15 e i 20 miliardi l’anno, considerando che il costo pro-capite medio
degli assunti è di circa 20.000 euro annuali, con una retribuzione netta
di circa 1.200 Euro mensili per 13 mesi, includendo gli oneri sociali
ma non quelli fiscali. Esso va finanziato mediante un’imposta
patrimoniale sulla ricchezza finanziaria (non sugli immobili).
Questa imposta, temporanea e legata a una chiara finalità, prevede
un’esenzione fino a 143.000 euro per nucleo familiare e, per i redditi
superiori, aliquote marginali progressive tra lo 0,23 e il 7,78 per mille, ossia comunque
inferiori all’1 per cento. Assunzioni realistiche sull’effetto
moltiplicativo dell’immissione dei redditi dei neoassunti sull’economia,
suggeriscono che dopo 3-5 anni il nuovo gettito ordinario dovrebbe
consentire il ritiro della nuova imposta. Il controllo del progetto e
delle assunzioni va assegnato a un’apposita Agenzia di riconosciuta
reputazione e professionalità. Stiamo insomma prospettando una politica occupazionale che, accrescendo
l’efficienza dell’economia, non ha carattere assistenziale; migliorando
il benessere dei cittadini, può riscuotere ampio consenso; è coperta
mediante imposte che non riducono la domanda interna e non aumentano il
costo del lavoro[3].
Un altro grande vincolo economico dell’economia italiana è il debito
pubblico, che oggi veleggia intorno al 133% del Pil. È un debito che,
creato soprattutto negli anni '80, schiaccia ogni spazio di manovra
della politica fiscale. Tuttavia, da oltre un ventennio il nostro Paese
genera avanzi primari (gli eccessi del prelievo fiscale sulla spesa
pubblica, interessi sul debito esclusi); ne segue che il debito continua
a pesare e a crescere non per deficit eccessivi (quando le uscite
annuali superano le entrate), bensì per interessi eccessivi. Una
strategia percorribile consisterebbe nel “nazionalizzare” una parte del
debito. Le banche italiane, sia commerciali che pubbliche, chiederebbero
finanziamenti alla Banca Centrale Europea, che è in grado di fornirli
ad un costo vicino allo zero[4].
Lo Stato accenderebbe prestiti di lunga durata non più sul mercato
finanziario, che è speculativo per sua natura, bensì con le banche
nazionali, che li potrebbero proporre a tassi d’interesse minori.
Inoltre, «secondo le regole di Basilea i prestiti allo Stato sono
classificati come sicuri, non richiedono di essere coperti da un
incremento di capitale della banca prestatrice, e possono anche essere
utilizzati come collaterali presso la Banca Centrale Europea. Così le
banche avrebbero un miglior rapporto capitale/rischio e potrebbero anche
offrire più credito all’economia reale»[5].
La quarta proposta consiste nell’affrontare l’enorme evasione fiscale –
due o tre volte maggiore di quella dei Paesi confrontabili con il
nostro – che connota il fisco italiano. Occorre un sistema che renda
obbligatoria e generalizzata la trasmissione telematica all’Agenzia
delle entrate dei dati contenuti nelle fatture IVA emesse dai
contribuenti contestualmente al loro invio ai clienti; e un sistema di
ritenute alla fonte, generalizzato per i redditi di lavoro autonomo e
d’impresa, che sia compiuto dall’acquirente in occasione di ogni
transazione, e che venga compensato con le ritenute da lui subite sulle
vendite effettuate, e con qualsiasi altro versamento d’imposte e
contributi dovuti, evitando così ogni problema di liquidità. Queste
misure potrebbero in pochi anni recuperare tra i 50 e i 100 miliardi di
euro, ma soprattutto mostrerebbero che uno degli attori – l’autorità
pubblica – non accetta più la logica del gioco al ribasso[6].
La successiva proposta, nel quadro politico-istituzionale oggi esistente in Italia, è il reddito d’inclusione sociale (Reis), avanzata dall’Alleanza contro la povertà[7]. Si tratta del progetto di un reddito minimo universale: un sostegno monetario destinato a tutte le famiglie in grave povertà[8], non soltanto ai disoccupati e ai working poor;
collocato in un piano quadriennale nel quale il legislatore e il
governo assumono impegni stringenti circa le tappe dell’estensione
graduale degli ammissibili[9];
retto da “obblighi reciproci”, poiché l’osservanza degli impegni
individuali di inserimento è condizione per continuare a fruirne[10].
La sesta iniziativa è finalizzata a recuperare in parte, nel quadro
europeo attuale, la sovranità democratica sulla politica monetaria. È
ben noto che la Banca d’Italia ha poteri limitati, a favore della Banca
Centrale Europea. Tuttavia il suo potere ispettivo sul nostro sistema
finanziario rimane cruciale, così come è importante il suo voto nel board
europeo dei banchieri nazionali. Occorre che la Banca torni di
proprietà pubblica, mentre oggi le quote proprietarie maggiori
appartengono a banche private; che il suo Governatore sia nominato dal
nostro Parlamento con maggioranza qualificata e che renda conto del suo
operato al Parlamento stesso. Sarebbe un provvedimento capace di
contrastare parzialmente la tendenza, solo in apparenza irrefrenabile,
al distacco dei luoghi della finanza dall’influenza popolare[11].
Infine, la settima misura di politica economica che allenterebbe
vincoli economici che appaiono scontati, dovrebbe detassare fortemente
il lavoro e tassare il resto. In Italia, l’imposta dedicata a
redistribuire il carico fiscale è l’IRPEF, l’85% del cui prelievo incide
soltanto sul reddito da lavoro dipendente. Non basta rimodularne
aliquote e scaglioni; ne occorre una riforma che riduca le aliquote e,
insieme, la giungla delle agevolazioni fiscali che abbassano la base
imponibile. Al riguardo, sono state formulate proposte precise e
convincenti[12]. Una, particolarmente semplice e persuasiva, prevede un IRPEF 10-72,
come nel 1973, ai tempi in cui governava la Democrazia Cristiana: chi
guadagna 1.200 euro al mese, paga il 10% (oggi versa il 23%), mentre chi
incassa oltre 310.000 euro mensili paga il 72% (oggi versa il 43%).
L’IVA ordinaria starebbe al 19%, mentre quella sui beni di lusso
salirebbe al 38%. Come accade in Francia, le rendite finanziarie
verrebbero tassate dal 26 al 34,5%. Infine, avremmo una tassa
progressiva di successione su patrimoni superiori a 300.000 euro[13].
NOTE
[1] AA.VV., Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall’austerità senza spaccare l’euro, 2015
[2]
La moneta fiscale non andrebbe contabilizzata come deficit pubblico
perché il governo emittente non s’impegna a rimborsarla in euro, bensì
soltanto a concedere futuri sconti sulle tasse. Secondo la normativa
Eurostat, i crediti fiscali differiti vanno iscritti nel bilancio solo a
partire dal momento in cui matura il diritto in essi incorporato. Nel
caso della moneta fiscale, questo momento risulta differito di due o tre
anni rispetto alla data di emissione del titolo, proprio al fine di
dare tempo all’economia di crescere per via dell’effetto espansivo che
il titolo innesca, generando le risorse fiscali aggiuntive necessarie a
sostenerne il costo. Vedi Biagio Bossone e Massimo Costa, “La moneta è
capitale o debito di chi la emette?”, 22/01/2018, all’indirizzo
http://www.economiaepolitica.it/banche-e-finanza/moneta-banca-finanza/la-moneta-e-capitale-o-debito-di-chi-la-emette/
Rispetto alle recenti critiche di Roberto Perotti, vedi anche
http://bastaconleurocrisi.blogspot.com/2018/04/che-cosa-sfugge-perotti.html
[3] Maria Luisa Bianco et al.,
“Crisi economica e disoccupazione giovanile: valutazione del consenso
verso politiche di intervento pubblico”, 2016, all’indirizzo
http://polis.unipmn.it/pubbl/RePEc/uca/ucapdv/polis0233.pdf; vedi anche
http://www.propostaneokeynesiana.it/presentazione.php
[4]
Che le banche pubbliche possano chiedere finanziamenti alla BCE è
consentito dall’art. 123 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione
Europea. Vedi Giovanni Zibordi e Claudio Bertoni “Il debito pubblico è
un problema di interessi, non di deficit eccessivi e si può risolvere”,
febbraio 2014.
[5]
Enrico Grazzini, “Tre proposte per ridurre il rapporto debito
pubblico/PIL”, 14/03/2018,
http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/tre-proposte-per-ridurre-il-rapporto-debito-pubblicopil/
Per un approfondimento, vedi Richard A. Werner, “Enhanced debt
management: solving the eurozone crisis by linking debt management with
fiscal and monetary policy”, Journal of international money and finance, 49, 2014, pp.443-469.
[6] Dossier Nens, Ritenute alla fonte per tutti. Una soluzione per l’evasione delle imposte sui redditi,
14 dicembre 2017, all’indirizzo
http://www.ilcampodelleidee.it/sites/default/files/1218%20Proposta%20ritenute%20alla%20fonte-14-12-2017.pdf
[7] AA.VV., Il reddito d’inclusione sociale (Reis). La proposta dell’Alleanza contro la povertà in Italia, Il Mulino, Bologna, 2016; vedi anche http://www.redditoinclusione.it/ L’Alleanza contro la povertà è un soggetto di advocacy, composto da 37 tra associazioni, enti del terzo settore, sindacati e rappresentanze di Comuni e Regioni.
[8]
Ricordo che si ha “povertà relativa” quando una famiglia di due
componenti spende meno della singola persona media, mentre si ha
“povertà assoluta” al di sotto di una soglia che varia tra 400 e 1900
euro, a seconda della composizione familiare e del luogo di residenza.
Il Reis affronta la povertà assoluta che, secondo le stime dell’Istat,
riguarda 4.75 milioni di persone.
[9]
Secondo i calcoli dell’Alleanza nel primo anno servirebbero 1,7
miliardi di euro; nel secondo anno 3,5; nel terzo 5,3; nel quarto 7,1.
Si realizzerebbe un processo progressivo di ricostruzione del potere
d’acquisto e della domanda interna che potrebbe arginare e invertire la
fine del welfare. Non una soluzione unicamente assistenziale, ma una
politica attiva.
[10]
Qui non confronto il Reis con il Rei, il Reddito d’inclusione che è
stato introdotto dal decreto legislativo 15/09/2017 n.147. Rimando a
Massimo Baldini & Cristiano Gori, “Reddito d’inclusione: non deve
essere una riforma incompiuta”, 08.09.17, su http://www.lavoce.info/
Sulle differenze tra il Reis e il Reddito di base, vedi Nicolò Bellanca,
“Regalare soldi a tutti per sempre? Il reddito di base come trionfo
dell’impolitico”, 11-12-2017, all’indirizzo
http://temi.repubblica.it/micromega-online/regalare-soldi-a-tutti-per-sempre-il-reddito-di-base-come-trionfo-dell-impolitico/
[11] Lorenzo Marsili e Yanis Varoufakis, Il terzo spazio, Roma-Bari, Laterza, 2017, pp.85-86.
[12]
Vedi due importanti elaborazioni: Fernando Di Nicola e Ruggero
Paladini, “Disboscare la giungla dell’IRPEF”, 19 maggio 2017,
all’indirizzo
http://www.lavoce.info/archives/46895/riforma-dellirpef-separare-limposta-dalle-detrazioni/;
Lucrezia Fanti, “Un fisco forte con i deboli e debole con i forti”,
20-02-2018, all’indirizzo
http://sbilanciamoci.info/un-fisco-forte-deboli-debole-forti/
[13] Vedi p.22 di https://www.senso-comune.it/programma/
Fonte
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