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15/11/2018

Sette idee di sinistra per governare i vincoli economici

di Nicolò Bellanca

Oggi l’economia di un Paese è sottoposta ai diktat di organismi internazionali o sovranazionali, e alle pressioni dei mercati finanziari, al punto che si può dubitare che esistano ancora i margini discrezionali per disegnare e attuare una politica economica. In questo quadro, per fortuna, alcune buone idee possono rispondere alle esigenze della sinistra. Qui ne presento brevemente sette, senza entrare in particolari tecnici, né in valutazioni dettagliate della loro efficacia. Ritengo che si tratti di proposte valide, in parte tra loro alternative, e che esse siano praticabili nelle condizioni date. Esse contribuiscono quindi a dare respiro ampio a un programma di sinistra, spesso accusato di utopismo e velleitarismo.

La prima proposta si chiama “moneta fiscale”: uno strumento monetario a circolazione interna, complementare all’euro, che apre alla possibilità di combattere disoccupazione e stagnazione, malgrado i vincoli appena menzionati[1]. La moneta fiscale è un titolo statale di credito, elargito gratuitamente, con cui il possessore (persona o impresa) potrebbe pagare una quota delle tasse dopo un certo lasso di tempo: si tratta quindi di uno sconto fiscale dilazionato, garantito dallo Stato, non rimborsabile in euro e che non dovrebbe costituire una voce del debito pubblico[2].

Rappresentando un diritto certo a un beneficio fiscale futuro, questo titolo sarebbe venduto da chi cerca liquidità, e acquistato da chi cerca sconti fiscali: lo si potrebbe dunque convertire in euro al suo valore attualizzato. Sarebbe distribuito in proporzione inversa al reddito delle persone, così da elevare i loro consumi; e proporzionalmente al numero dei dipendenti delle imprese, per ridurne in maniera significativa il costo del lavoro e innalzarne la competitività. In condizioni di sottoimpiego dei fattori di produzione, l’economia sarebbe stimolata, grazie al moltiplicatore keynesiano, dal nuovo potere d’acquisto così creato: ciò compenserebbe, alla scadenza di questi titoli, la contrazione del gettito, causata dallo sconto fiscale, con il maggior prelievo lordo, generato dall’espansione, ed eviterebbe l’aumento del debito pubblico.

La seconda proposta prende le mosse da un dato che smentisce la vulgata neoliberista, secondo cui lo Stato invade esageratamente l’economia. Sommando ogni livello di governo e ogni tipo di attività, gli occupati nel settore pubblico italiano sono 3.350.000, molto meno numerosi di quanto siano in Paesi comparabili al nostro per dimensioni e livello di sviluppo: in Francia sono circa 6.200.000 e nel Regno Unito circa 5.800.000. Persino negli Stati Uniti il numero di dipendenti pubblici civili pro-capite è più alto che in Italia di circa il 25%. Nondimeno, un’amministrazione pubblica di adeguate dimensioni, e con personale qualificato, costituisce un aspetto decisivo del benessere sociale, fornendo servizi riguardanti la giustizia, la salute, la formazione o la tutela del territorio e dei beni culturali. Occorre pertanto assumere un milione di giovani, con un livello d’istruzione medio o alto. Il costo totale dell’intervento straordinario oscilla tra i 15 e i 20 miliardi l’anno, considerando che il costo pro-capite medio degli assunti è di circa 20.000 euro annuali, con una retribuzione netta di circa 1.200 Euro mensili per 13 mesi, includendo gli oneri sociali ma non quelli fiscali. Esso va finanziato mediante un’imposta patrimoniale sulla ricchezza finanziaria (non sugli immobili). Questa imposta, temporanea e legata a una chiara finalità, prevede un’esenzione fino a 143.000 euro per nucleo familiare e, per i redditi superiori, aliquote marginali progressive tra lo 0,23 e il 7,78 per mille, ossia comunque inferiori all’1 per cento. Assunzioni realistiche sull’effetto moltiplicativo dell’immissione dei redditi dei neoassunti sull’economia, suggeriscono che dopo 3-5 anni il nuovo gettito ordinario dovrebbe consentire il ritiro della nuova imposta. Il controllo del progetto e delle assunzioni va assegnato a un’apposita Agenzia di riconosciuta reputazione e professionalità. Stiamo insomma prospettando una politica occupazionale che, accrescendo l’efficienza dell’economia, non ha carattere assistenziale; migliorando il benessere dei cittadini, può riscuotere ampio consenso; è coperta mediante imposte che non riducono la domanda interna e non aumentano il costo del lavoro[3].

Un altro grande vincolo economico dell’economia italiana è il debito pubblico, che oggi veleggia intorno al 133% del Pil. È un debito che, creato soprattutto negli anni '80, schiaccia ogni spazio di manovra della politica fiscale. Tuttavia, da oltre un ventennio il nostro Paese genera avanzi primari (gli eccessi del prelievo fiscale sulla spesa pubblica, interessi sul debito esclusi); ne segue che il debito continua a pesare e a crescere non per deficit eccessivi (quando le uscite annuali superano le entrate), bensì per interessi eccessivi. Una strategia percorribile consisterebbe nel “nazionalizzare” una parte del debito. Le banche italiane, sia commerciali che pubbliche, chiederebbero finanziamenti alla Banca Centrale Europea, che è in grado di fornirli ad un costo vicino allo zero[4].

Lo Stato accenderebbe prestiti di lunga durata non più sul mercato finanziario, che è speculativo per sua natura, bensì con le banche nazionali, che li potrebbero proporre a tassi d’interesse minori. Inoltre, «secondo le regole di Basilea i prestiti allo Stato sono classificati come sicuri, non richiedono di essere coperti da un incremento di capitale della banca prestatrice, e possono anche essere utilizzati come collaterali presso la Banca Centrale Europea. Così le banche avrebbero un miglior rapporto capitale/rischio e potrebbero anche offrire più credito all’economia reale»[5].

La quarta proposta consiste nell’affrontare l’enorme evasione fiscale – due o tre volte maggiore di quella dei Paesi confrontabili con il nostro – che connota il fisco italiano. Occorre un sistema che renda obbligatoria e generalizzata la trasmissione telematica all’Agenzia delle entrate dei dati contenuti nelle fatture IVA emesse dai contribuenti contestualmente al loro invio ai clienti; e un sistema di ritenute alla fonte, generalizzato per i redditi di lavoro autonomo e d’impresa, che sia compiuto dall’acquirente in occasione di ogni transazione, e che venga compensato con le ritenute da lui subite sulle vendite effettuate, e con qualsiasi altro versamento d’imposte e contributi dovuti, evitando così ogni problema di liquidità. Queste misure potrebbero in pochi anni recuperare tra i 50 e i 100 miliardi di euro, ma soprattutto mostrerebbero che uno degli attori – l’autorità pubblica – non accetta più la logica del gioco al ribasso[6].

La successiva proposta, nel quadro politico-istituzionale oggi esistente in Italia, è il reddito d’inclusione sociale (Reis), avanzata dall’Alleanza contro la povertà[7]. Si tratta del progetto di un reddito minimo universale: un sostegno monetario destinato a tutte le famiglie in grave povertà[8], non soltanto ai disoccupati e ai working poor; collocato in un piano quadriennale nel quale il legislatore e il governo assumono impegni stringenti circa le tappe dell’estensione graduale degli ammissibili[9]; retto da “obblighi reciproci”, poiché l’osservanza degli impegni individuali di inserimento è condizione per continuare a fruirne[10].

La sesta iniziativa è finalizzata a recuperare in parte, nel quadro europeo attuale, la sovranità democratica sulla politica monetaria. È ben noto che la Banca d’Italia ha poteri limitati, a favore della Banca Centrale Europea. Tuttavia il suo potere ispettivo sul nostro sistema finanziario rimane cruciale, così come è importante il suo voto nel board europeo dei banchieri nazionali. Occorre che la Banca torni di proprietà pubblica, mentre oggi le quote proprietarie maggiori appartengono a banche private; che il suo Governatore sia nominato dal nostro Parlamento con maggioranza qualificata e che renda conto del suo operato al Parlamento stesso. Sarebbe un provvedimento capace di contrastare parzialmente la tendenza, solo in apparenza irrefrenabile, al distacco dei luoghi della finanza dall’influenza popolare[11].

Infine, la settima misura di politica economica che allenterebbe vincoli economici che appaiono scontati, dovrebbe detassare fortemente il lavoro e tassare il resto. In Italia, l’imposta dedicata a redistribuire il carico fiscale è l’IRPEF, l’85% del cui prelievo incide soltanto sul reddito da lavoro dipendente. Non basta rimodularne aliquote e scaglioni; ne occorre una riforma che riduca le aliquote e, insieme, la giungla delle agevolazioni fiscali che abbassano la base imponibile. Al riguardo, sono state formulate proposte precise e convincenti[12]. Una, particolarmente semplice e persuasiva, prevede un IRPEF 10-72, come nel 1973, ai tempi in cui governava la Democrazia Cristiana: chi guadagna 1.200 euro al mese, paga il 10% (oggi versa il 23%), mentre chi incassa oltre 310.000 euro mensili paga il 72% (oggi versa il 43%). L’IVA ordinaria starebbe al 19%, mentre quella sui beni di lusso salirebbe al 38%. Come accade in Francia, le rendite finanziarie verrebbero tassate dal 26 al 34,5%. Infine, avremmo una tassa progressiva di successione su patrimoni superiori a 300.000 euro[13].

NOTE

[1] AA.VV., Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall’austerità senza spaccare l’euro, 2015

[2] La moneta fiscale non andrebbe contabilizzata come deficit pubblico perché il governo emittente non s’impegna a rimborsarla in euro, bensì soltanto a concedere futuri sconti sulle tasse. Secondo la normativa Eurostat, i crediti fiscali differiti vanno iscritti nel bilancio solo a partire dal momento in cui matura il diritto in essi incorporato. Nel caso della moneta fiscale, questo momento risulta differito di due o tre anni rispetto alla data di emissione del titolo, proprio al fine di dare tempo all’economia di crescere per via dell’effetto espansivo che il titolo innesca, generando le risorse fiscali aggiuntive necessarie a sostenerne il costo. Vedi Biagio Bossone e Massimo Costa, “La moneta è capitale o debito di chi la emette?”, 22/01/2018, all’indirizzo http://www.economiaepolitica.it/banche-e-finanza/moneta-banca-finanza/la-moneta-e-capitale-o-debito-di-chi-la-emette/ Rispetto alle recenti critiche di Roberto Perotti, vedi anche http://bastaconleurocrisi.blogspot.com/2018/04/che-cosa-sfugge-perotti.html

[3] Maria Luisa Bianco et al., “Crisi economica e disoccupazione giovanile: valutazione del consenso verso politiche di intervento pubblico”, 2016, all’indirizzo http://polis.unipmn.it/pubbl/RePEc/uca/ucapdv/polis0233.pdf; vedi anche http://www.propostaneokeynesiana.it/presentazione.php

[4] Che le banche pubbliche possano chiedere finanziamenti alla BCE è consentito dall’art. 123 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Vedi Giovanni Zibordi e Claudio Bertoni “Il debito pubblico è un problema di interessi, non di deficit eccessivi e si può risolvere”, febbraio 2014.

[5] Enrico Grazzini, “Tre proposte per ridurre il rapporto debito pubblico/PIL”, 14/03/2018, http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/tre-proposte-per-ridurre-il-rapporto-debito-pubblicopil/ Per un approfondimento, vedi Richard A. Werner, “Enhanced debt management: solving the eurozone crisis by linking debt management with fiscal and monetary policy”, Journal of international money and finance, 49, 2014, pp.443-469.

[6] Dossier Nens, Ritenute alla fonte per tutti. Una soluzione per l’evasione delle imposte sui redditi, 14 dicembre 2017, all’indirizzo http://www.ilcampodelleidee.it/sites/default/files/1218%20Proposta%20ritenute%20alla%20fonte-14-12-2017.pdf

[7] AA.VV., Il reddito d’inclusione sociale (Reis). La proposta dell’Alleanza contro la povertà in Italia, Il Mulino, Bologna, 2016; vedi anche http://www.redditoinclusione.it/ L’Alleanza contro la povertà è un soggetto di advocacy, composto da 37 tra associazioni, enti del terzo settore, sindacati e rappresentanze di Comuni e Regioni.

[8] Ricordo che si ha “povertà relativa” quando una famiglia di due componenti spende meno della singola persona media, mentre si ha “povertà assoluta” al di sotto di una soglia che varia tra 400 e 1900 euro, a seconda della composizione familiare e del luogo di residenza. Il Reis affronta la povertà assoluta che, secondo le stime dell’Istat, riguarda 4.75 milioni di persone.

[9] Secondo i calcoli dell’Alleanza nel primo anno servirebbero 1,7 miliardi di euro; nel secondo anno 3,5; nel terzo 5,3; nel quarto 7,1. Si realizzerebbe un processo progressivo di ricostruzione del potere d’acquisto e della domanda interna che potrebbe arginare e invertire la fine del welfare. Non una soluzione unicamente assistenziale, ma una politica attiva.

[10] Qui non confronto il Reis con il Rei, il Reddito d’inclusione che è stato introdotto dal decreto legislativo 15/09/2017 n.147. Rimando a Massimo Baldini & Cristiano Gori, “Reddito d’inclusione: non deve essere una riforma incompiuta”, 08.09.17, su http://www.lavoce.info/ Sulle differenze tra il Reis e il Reddito di base, vedi Nicolò Bellanca, “Regalare soldi a tutti per sempre? Il reddito di base come trionfo dell’impolitico”, 11-12-2017, all’indirizzo http://temi.repubblica.it/micromega-online/regalare-soldi-a-tutti-per-sempre-il-reddito-di-base-come-trionfo-dell-impolitico/

[11] Lorenzo Marsili e Yanis Varoufakis, Il terzo spazio, Roma-Bari, Laterza, 2017, pp.85-86.

[12] Vedi due importanti elaborazioni: Fernando Di Nicola e Ruggero Paladini, “Disboscare la giungla dell’IRPEF”, 19 maggio 2017, all’indirizzo http://www.lavoce.info/archives/46895/riforma-dellirpef-separare-limposta-dalle-detrazioni/; Lucrezia Fanti, “Un fisco forte con i deboli e debole con i forti”, 20-02-2018, all’indirizzo http://sbilanciamoci.info/un-fisco-forte-deboli-debole-forti/

[13] Vedi p.22 di https://www.senso-comune.it/programma/

Fonte

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