Nei giorni scorsi è uscito – e ha stimolato un certo dibattito – un contributo su Left (rivista che, se il principio nomen omen ha un senso, dovrebbe essere di sinistra), dal titolo evocativo: “Le politiche di spesa in deficit non sono rivoluzionarie. Sono di destra”.
Lo scopo immediato di questo articolo traspare già dal titolo ed è un
paradossale attacco, da destra, al terribile governo pentaleghista,
camuffato in modo pericoloso nella sua etichettatura formale di critica
da sinistra.
Proviamo a sintetizzare il ragionamento e
seguire i diversi salti logici di cui è intessuto. L’autore riconosce,
francamente, che l’architettura istituzionale europea, nella sua attuale
configurazione – la quale, è bene ricordarlo, è l’unica configurazione
esistente, reale – ha di fatto sottratto ai paesi membri la possibilità
di fare politica fiscale, paesi membri che, quindi, sono stati
scientemente privati dello strumento principe per contrastare recessioni
e disoccupazione. A questa presa di consapevolezza segue un periodo
apodittico, secondo il quale “Non c’è nulla di sinistra e di
rivoluzionario nel fare politiche di spesa in deficit: oggi, in Europa,
la creazione di debito a livello nazionale è, per forza di cose,
una politica sovranista, una politica antieuropea”. L’argomentazione è
confusa ma, secondo l’autore, non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.
Il dato politico è, però, chiaro. Contro ogni evidenza, si riconosce al Governo la volontà di effettuare politiche espansive, di contrasto all’austerità. Nonostante questo sia patentemente falso,
Left ci spiega che qui risiede il problema. Ribellarsi all’austerità –
cosa che il Governo, è bene ribadire, non fa neanche minimamente – è
sbagliato. Da qui l’attribuzione dell’etichetta di sovranista la quale,
pare di intendere, si applicherebbe anche ad un eventuale governo di
sinistra seriamente intenzionato a riappropriarsi della propria
sovranità economica.
A scanso di equivoci, è bene ricordare
che l’attuale manovra del governo pentaleghista, al di là delle
chiacchiere, non rompe con l’Europa sul fronte dell’austerità. È,
infatti, completamente incentrata sulla sottrazione di risorse dall’economia mediante avanzo primario.
Nel pezzo, tuttavia, si compie un capolavoro: da un lato non si
menziona che anche questa manovra governativa è perfettamente nel solco
di quelle che la hanno preceduta, l’ennesima esclusivamente nel segno
dell’austerità. Dall’altro si ricorre ad una critica basata sulla forza
redentrice dello spread, una posizione pericolosa tanto quanto quella dell’appoggio incondizionato a questo governo.
Con un ulteriore salto, l’articolo passa a
discutere di quale sia il livello istituzionale al quale è giusto e
necessario combattere le battaglie politiche in questione. L’unico
livello di lotta politica oggi sensato, ci dice l’autore, è quello
sovranazionale/europeo. A questo si fa subito seguire un classico non sequitur,
piuttosto abusato nel dibattito a sinistra ma mai detto espressamente:
dato che la battaglia è comune a tutti i lavoratori europei, allora
questa battaglia va condotta dentro le istituzioni europee e dentro le
regole stabilite dalle istituzioni europee stesse. Non sembra importare
che queste regole abbiano, per costruzione, lo scopo di erigere una
gabbia che impedisca ai Governi dei paesi membri ogni possibile
tentativo di effettuare politiche espansive. Apparentemente, è più
facile vagheggiare della necessità di una politica fiscale comune a
tutti i paesi. Politica fiscale che, per qualche ragione, dovrebbe
invertire la rotta che l’Unione Europea ha seguito dalla sua
costituzione, fatta di austerità e tagli a spesa pubblica e stato
sociale. Non sembra neanche importare, all’autore e a chi si fa
portatore di queste istanze, l’implicazione più immediata. Seguendo
questa linea di ragionamento, fino a che non si riuscirà a coordinare a
livello europeo una fantasiosa politica comune fatta di copiosi
investimenti pubblici, c’è una sola opzione sul tavolo: l’immobilità
totale, nonostante disoccupazione galoppante e crollo del potere
d’acquisto delle classi popolari. L’autore, e chi come lui, si dimentica
anche di esplorare uno scenario tremendamente plausibile: nel caso non
così remoto in cui i rapporti di forza a livello europeo non conducano a
nessun cambiamento sostanziale negli orientamenti di politica economica,
che compiti ha la sinistra di classe? A questo punto sarebbe legittimo
interrogarsi su un’alternativa di rottura o si sarebbe ancora a rischio
di scomunica sovranista?
La gabbia sovranazionale che attanaglia gli Stati membri dell’Eurozona è proprio quella che impone la matrice di totale austerità che, a parole, tanto preoccupa l’autore dell’articolo, e che permette
a governi come il nostro di passare per (finti) rivoluzionari, a fronte
di politiche che sono di destra in quanto basate su austerità e misure socialmente pericolose.
Combattere per rompere questa gabbia, un’attività che non interessa
neanche minimamente la compagine governativa, è univocamente di
sinistra, invece. Da un lato, permette di sgomberare il campo da un
equivoco di fondo: i gialloverdi, ed i loro amici europei
dell’internazionale fascio-sovranista, sono perfettamente a loro agio
dentro il perimetro della compatibilità europea. Dall’altro, permette la
riappropriazione di uno spazio politico contendibile per il mondo del
lavoro (italiano, spagnolo, greco, tedesco... europeo) ed in generale
delle classi subalterne, nel quale lottare per l’attuazione di politiche
economiche emancipative senza la scure preventiva dei vincoli europei.
Negare questo vuol dire condannarsi al non fare nulla e ad accettare,
nei fatti, lo stato delle cose attuale. È bene tenerlo in mente, quando
ci raccontano favole come quella uscita su Left.
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