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06/02/2020

Farsi largo a gomitate

Per quanto ridotta a poca cosa, la “politica” italiana ha visto chiudersi un’altra fase. È anche abbastanza facile capire che cosa non c’è più, mentre è come sempre indispensabile capire bene cosa c’è ora e cosa non c’è, ma servirebbe come l’aria.

Il segno peggiore del presente – lo abbiamo scritto nei giorni della tenzone emiliana – è una frase ripetuta spesso dai passanti ai banchetti di Potere al Popolo: “la firma ve la do, ma il voto no; ho paura che vinca Salvini”. Le conseguenze pratiche si sono viste alle urne: ritorno del bi-polarismo (anche in senso psichiatrico di massa) e cancellazione delle alternative. Tutte, di qualunque tipo.

Facile dunque riconoscere il dominio della paura nel discorso pubblico, in doppia versione: da un lato Salvini e la destra che diffondono come untori la paura del diverso (i migranti, gli spacciatori, i cinesi infetti e ogni giorno un’altra fobia), dall’altro il Pd – supportato da un “movimento sardinista” creato appositamente – che gioca sulla paura di Salvini.

Entrambe le “parti” utilizzano il terrore – più o meno inventato o gonfiato – per nascondere l’elemento che le rende assolutamente identiche: le politiche neoliberiste che impoveriscono parti sempre più estese della popolazione.

Dopo un decennio, insomma, si è chiusa la stagione del “vaffa” di massa, inventato da Beppe Grillo e cavalcato malamente dal movimento Cinque Stelle. In cui il malessere sociale originato da un sistema sociale profondamente diseguale e in aperta crisi veniva trasformato in rifiuto della “kasta”, salvando così “il sistema” ed eliminandone soltanto la parte più in vista: “i politici”.

Qualunque giudizio si voglia dare dei “grillini” – e il nostro non è mai stato tenero – hanno rappresentato per un decennio “l’alternativa” sul piano politico ed elettorale, riuscendo per un momento a rompere lo schema blindato del bipolarismo obbligato. Non possedevano una visione alternativa di società, non proponevano “riforme strutturali del sistema economico”, non prendevano posizione sulle ingiustizie sociali più clamorose. Ma quel poco che sbandieravano appariva quasi “rivoluzionario”: legalità, reddito di cittadinanza, abolizione di alcuni privilegi (soltanto per il ceto politico).

Un insieme di parole d’ordine astrattamente convincenti, ma praticamente ambigue. Una cosa è perseguire finalmente i grandi evasori fiscali (cosa impegnativa e infatti non riuscita), tutt’altra è perseguitare le occupazioni abitative e per attività sociali (facilissimo e con il consenso unanime della destra parafascista e dei “democratici” legge-e-ordine).

È stato il decennio del voto per vendetta, del defenestramento dei partiti purchessia. Mentre l’establishment li sostituiva rapidamente con leader imposti a forza di campagne mediatiche centralizzate (Matteo Renzi prima, ma già con l’“altro Matteo” che veniva accompagnato ai primi posti del palcoscenico, pronto a sostituirlo).

Anche l’apparizione di Potere al Popolo è giunta al culmine di questa fase e ha raccolto alcune delle “caratteristiche” che sembravano aver reso vincenti e convincenti i Cinque Stelle: “uno vale uno”, l’uso della piattaforma informatica, un linguaggio meno legato agli stilemi della “vecchia sinistra”, il potere delle assemblee, l’assenza ed il rifiuto dei “professionisti della politica”, di una “direzione centrale”, ecc.

Ma in poco più di due anni quella fase della politica nazionale è giunta alla fine. È semplicemente necessario prenderne atto e identificare le caratteristiche essenziali di quella che si è aperta.

Siamo al tredicesimo anno della crisi economica più lunga della storia. E in paesi come il nostro gli effetti sociali sono più profondi e devastanti che altrove. Un’intera generazione è diventata adulta senza aver conosciuto nessun periodo di “crescita”. Dunque senza quella fiduciosa attesa di un periodo più florido, con maggiore benessere per tutti, sebbene in misura fortemente diseguale, che aveva segnato la cultura – il “senso comune” – dei propri padri e nonni.

Fossimo nell’America dei film, potremmo dire che c’è ora una generazione che non vede futuro migliore. Che o emigra o si devasta. E questa condizione è fonte di preoccupazione forte per le generazioni precedenti, che stanno subendo – dai rapporti di lavoro ai salari, dai servizi pubblici ai trattamenti pensionistici – un peggioramento costante, di cui non si intravede fine.

Da qui nasce la paura e l’insicurezza di massa. Qui c’è il sentiment oggettivo su cui lavorano gli strateghi del terrore elettorale, coadiuvati e coccolati da una sistema mediatico mai così servile come oggi (e del resto la concentrazione della proprietà delle testate non è mai stata così ristretta).

A questa paura – alla condizione reale di vita di decine milioni di persone – va data una risposta alta, di sistema. Se un modo di produrre e di vivere non funziona più, se non garantisce più “benessere per tutti” (per quanto diseguale...), occorre individuare ed indicare un altro modo che sia concretamente realizzabile in questo mondo, non in quello dei sogni o di un imprecisabile ma lontano futuro.

Non serve (solo) una formula “acchiappesca”, di natura ideologica o di marketing. Occorre una via d’uscita da una realtà da incubo, su cui organizzare la marcia del nostro “blocco sociale”, che si può consolidare come insieme solo camminando insieme.

Questo è lo spazio politico immenso che è possibile, necessario e faticoso coprire. È lo spazio di una alternativa radicale e complessiva al sistema di produzione e vita attuale. Qui, in questo Paese e in questa parte del pianeta. Questa è infatti l’esigenza che arriva dall’insicurezza sul futuro e a cui non si può dare risposta con mezze misure, mezzi programmi, qualche promessa.

Questo spazio politico e sociale va costruito, riempito di idee, pratiche, corpi, organizzazione, indipendenza culturale dal mainstream reazionario. Non esiste se non lo si fa esistere con l’intervento politico e sociale, facendosi largo a gomitate.

Ma è uno spazio che non si traduce immediatamente in uno spazio elettorale. Anzi, mai come in questo momento lo spazio elettorale è stato così ristretto, blindato, inchiavardato dalle serrature del “bipolarismo obbligato” fondato su due paure speculari. Attendersi “risultati vincenti” sarebbe da illusi. Misurare l’utilità di una partecipazione elettorale con il metro dell’“eleggere” consiglieri e deputati è, in fondo, il tumore intellettuale che ha distrutto “la sinistra”. E che non la farà “rinascere”, se non si abbandona questa distorsione che i fatti si sono già incaricati di demolire.

Siamo insomma a un punto di crisi che richiede una capacità di cambiare logica e modo di fare. E quando si arriva a questo punto, in genere, due sono le reazioni istintive più comuni: rifugiarsi nel locale, nell’attività sociale a chilometro zero, rinviando ad altri tempi l’ambizione di “cambiare il sistema”; oppure diluirsi nelle “alleanze elettorali più inclusive”, affidando alla (sempre meno probabile) eventualità di “eleggere” qualcuno il ruolo di “punto fermo” su cui ricostruire una rappresentanza politica “altra”.

In entrambi i casi, ce lo dice la Storia del movimento operaio, non c’è futuro politico.

Facciamo degli esempi concreti. Tanti compagni fanno intervento sociale, ben radicati in (alcuni) quartieri popolari. Alcuni magari gestiscono storiche occupazioni abitative; hanno creato asili nido, sportelli sociali; organizzano le proteste – e l’interlocuzione istituzionale – quando i servizi pubblici vanno in tilt, ecc.

Se si votasse per un consiglio territoriale molto ristretto, avrebbero certamente la maggioranza assoluta. Ma già nel voto per il Comune, quegli stessi “elettori” molto probabilmente voteranno (votano) qualcun altro. Per la paura del Salvini di turno o per motivi biecamente clientelari (una promessa di lavoro per un figlio, ecc). Se poi si va al voto per le regionali o le politiche nazionali, il “partito” di quei compagni sarebbe votato soltanto dai “fedelissimi”.

Cosa significa? Che o hai una risposta per la paura del futuro, e dunque una credibile risposta di sistema, oppure sei soltanto un simpatico ragazzo, magari anche attempato, che viene chiamato quando c’è un problema spicciolo. Ma a cui non affideresti il Paese.

Il problema, dunque, è come acquisire credibilità. Per farlo occorre certamente avere una visione sociale “dal basso”, ed è la parte più facile; ma senza una visione anche “dall’alto” è impossibile tracciare la strada del cambiamento radicale.

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