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13/06/2020

L’impiegato. “Cronache da un campo di battaglia”

La provincia è un ente territoriale di rilevanza costituzionale. Insieme alle regioni, ai comuni, alle città metropolitane compone lo Stato.

Lo Stato non è la somma di tutti gli enti territoriali. Un insieme di province non è sufficiente per formare uno Stato.

Che cos’è allora lo Stato? Da cosa è composto?

È forse composto dagli impiegati che ne fanno funzionare la macchina?

Come funziona uno Stato?

Uno Stato può funzionare senza una apparato tecnico? E senza carta e penna può ancora produrre un qualche effetto?

E dove inizia e dove finisce questo apparato tecnico?

Di questi limiti ci parla il libro di Filippo Violi «Cronache da un campo di Battaglia». E per farlo ci racconta le vicende accadute ad alcuni impiegati di uno di questi enti, la Provincia di Crotone.

La macchina dello Stato, la crudele macchina burocratica, serrata nella sua cieca brutalità, soddisfa i suoi ottusi meccanismi a scapito della generale utilità – dice Violi. Tende a riprodurre continuamente i suoi metodi, anche quando sono inutili o nocivi. Si muove divorando denaro pubblico. Anche se a guardarla da vicino sembra ferma. Ed è ferma.

La macchina amministrativa, dice Violi, è un mostro gigantesco dai tratti pachidermici, che dorme su salvadanai stracolmi.

Un mostro-macchina, dice, che consuma tonnellate e tonnellate di carta e di toner all’anno, col fine di lasciare il mondo nello stato in cui si trova, nella sua traballante mediocrità.

La macchina della Provincia, dice, ruota su se stessa, con una meccanicità che ignora persino i suoi scopi. Gira per le stanze, i corridoi, le strettoie lunghe e diritte che sembrano piste da bowling. E sputa delibere, regolamenti, protocolli, e resoconti di riunioni prontamente riversati nei computer, da un esercito regolare di impiegati.

Gli impiegati, dice Violi, si muovono tutti dentro la pancia dell’abnorme mostro che si nutre di carta e cartucce da copisteria. Sono sempre in fila. Compatti dietro un orologio. Abili a strisciare. Aspettano il suono delle 14:00, come il suono della campanella quando andavano a scuola. Percorrono i corridoi, entrano ed escono dalle stanze. Fugaci topi delle fogne amministrative. Ammaestrati e servili. Sembrano scimmie plastificate. Mummie pietrificate. Uomini e donne senza distinzione. Abituati a tacere per mangiare una misera pagnotta offerta dal superiore. Sembrano conigli che sgranocchiano carote in minuscole gabbie metalliche.

I confini dell’Ente (della Provincia) si spostano continuamente. I corridoi e le stanze si aprono su altre stanze, più o meno virtuali, permettendo ad altri soggetti di accedere al processo amministrativo. Dire dove inizi e dove finisca l’Ente diventa quasi impossibile.

Persino la distinzione tra pubblico e privato perde ogni rilevanza. E con essa perdono di importanza tutte le lotte di quei partiti, di quei sindacati, di quei cittadini, di quei consumatori, di quegli utenti e di quei professori (per non parlare di medici e infermieri) che si sono attivati e hanno lottato affinché certi servizi non fossero toccati, infestati, contaminati, parassitati dall’azione di altre entità di diritto privato.

Il pachiderma della Provincia, dice Violi, è ospite di consulenti da 150 mila euro. Sono sul suo groppone, pidocchi da rapina. Con le loro ventiquattro ore e i loro notebook. Parassiti di lungo corso, provenienti dall’Università della Calabria. Non sanno, dice, che cos’è lo stile e la spontaneità, abituati a muoversi in un mondo di balordi e infami. Vivono, dice, nel timore dell’inganno – perché solo questo conoscono.

E poi ci sono le lucciole di contorno – dice. Donne in divisa, arruolate per laute ricompense. Donne dal grande e dal piccolo portamento, eleganti e pittate. Donne con tacco 12. Liftate, abbronzate, idratate, rassodate, depilate e truccate.

Mentre fanno a gara a svuotare i salvadanai della Provincia e della Regione, tu sei costretto a registrare nel sistema le loro fatture, le bollette, gli scontrini che giustificano il salasso.

Annoti i soldi dilapidati e gli incentivi a fondo perduto. Per costruire cosa? Niente! Porti e aeroporti utili ai consigli di amministrazione per spalmare i costi di gestione a botte di gettoni di presenza. E poi le voragini, i buchi, i conti di bilancio che ingoiano fallimenti e socializzano le perdite.

Barcollo ma non mollo – dice. Saltello e respiro. Mentre vedo sfilare taglieggiatori, saltimbanchi analfabeti e ballerine. Pronti, come iene, a spolparsi i resti di mamma Regione. Sono cani da rapina che puzzano sempre più di carne morta, a caccia di corsi, consulenze di nuova programmazione. E io barcollo ma non mollo.

Il confine è mobile. Ma ciò non vuol dire che non bisogna mobilitarsi contro tutto ciò che mina una certa idea di Stato e di pubblica amministrazione. A maggior ragione quando gli attacchi vengono da lontano, comandati a distanza, e viaggiano sulle fibre ottiche, si appoggiano ai server delle borse e delle banche centrali, delle banche di investimento, dei fondi di investimenti, del private equity, dei fondi pensione, degli hedge fund, eccetera.

Bisogna mobilitarsi, oggi più di ieri, visto che l’attacco arriva anche come promessa. Promessa di credito, di spesa, di finanziamento che diventa debito sovrano telecontrollato; che diventa sovranità sempre più foglia di fico di una giurisdizione dislocata da ciò che appare come l’impolitico stesso.

Bevi un caffè, e vieni risucchiato dal pachiderma.

Mentre i superbi dipendenti pubblici, dice Violi, compilano il test d’ingresso al corso di giornata, legandosi come anelli di una catena burocratica di montaggio, noi combattiamo su tre fronti. L’oggetto del contendere è sempre lo stesso: il lancio in orbita della piattaforma informatica.

Anche questo, come ogni lancio, richiede una mole sterminata di registrazioni, di pezze di appoggio, di ricevute di pagamento del parcheggio, del pedaggio autostradale, del trasporto in taxi e in treno, dei voli aerei e dei pernottamenti, di cene e pranzi, di cancelleria, eccetera, tutti pagamenti riversati a mano nel sistema Siurp, il sistema di contabilità regionale informatico centralizzato, messo a disposizione dalla regione Calabria.

Il lavoro dell’esercito degli impiegati non è certo facile. È una vincita al lotto solo riuscire ad entrare nel Siurp – dice Violi. I consulenti, pagati a peso d’oro, che dovrebbero fare il controllo di primo livello e dare avvio all’avanzamento di spesa, cambiano in continuazione, si mascherano, si sdoppiano, scompaiono, si moltiplicano. Non si sa mai chi è il tuo referente o il tuo interlocutore, e poi, quando finalmente lo capisci, cambia faccia e nome.

Gli impiegati e i dirigenti provinciali, dice, sono stati ammaestrati per bene. Tutti parlano lo stesso linguaggio. Tutti seguono le stesse indicazioni. Tutti hanno letto il manuale utente. Ognuno sfoggia orgogliosamente al collo il tesserino, quello stesso tesserino che li promuove all’esistenza di funzionari pubblici. E in una provincia dove non si capisce in cosa si arrabatti il tuo vicino per mettere insieme il pranzo con la cena, avere un collare, con tanto di foto, non è roba da poco.

Io mi difendo – dice. Resistiamo. E quando posso vomito. Il paese sta crollando, siamo nella fase dell’estrema unzione, e veniamo trascinati quotidianamente in lavori dequalificanti. Mentalmente usuranti.

Mentre si riversa la vita nel Siurp, o nel Suap, e si verificano le compatibilità del POR, eccetera, la burocrazia dirigenziale chiede di scaricare gli scontrini del gratta e vinci e della lap dance.

C’è forse un vuoto d’élite?

Peggio!

Siamo in Calabria – dice Violi. E siamo in presenza di un potere borghese depravato, che, nella sua regressiva esistenza, descrive il modello di una regione sempre più marginale.

Se non siete mai entrati nella pancia del pachiderma non potete immaginare quali battaglie si combattono ogni giorno. Se la macchina si muove e produce il processo amministrativo è perché c’è vita, c’è guerra. Una guerra a bassa intensità combattuta con armi non convenzionali.

Tutti si muovono freneticamente per lasciare che le cose rimangano come sono.

Quando vedi i funzionari scendere in piazza nel plotone sindacale, li guardi e pensi, "Ecco, è per oggi, è oggi il giorno giusto". E invece niente. Non succede niente. Nella pubblica amministrazione non succede mai niente.

Il niente è una dimensione ontologica che leggi negli occhi dell’impiegato allo sportello quando il processo amministrativo si inceppa. Quando chiedi spiegazioni e ti viene detto che non è colpa loro. Che loro sono semplici impiegati. Che bisogna prendersela con quelli che comandano. Che loro non contano niente. Che loro non decidono niente.

Loro non decidono niente, non decidono mai. La follia della decisione non li sfiora mai. Loro sono bravi a far girare le rotative che producono la continuità del quotidiano. E se li vedi impegnati nella lotta, si tratta, dice Violi, solo di piccole battaglie tra pari livello per misere rivendicazioni. Femmine e maschi – dipendenti pubblici – spesso silenziosi, ma che, quando si tratta di competere per un avanzamento di carriera, sono spietati.

Le mansioni, dice Violi, sono elementari e non lasciano spazio alla creatività e all’iniziativa individuale. Eppure si riesce a fingere, con sotterfugi tipici da dispetti condominiali, una «sudata» meritocrazia, che nemmeno la dirigenza più ossequiosa ha mai preteso.

Gli impiegati vivono aggrappati a un niente, praticano la lotta tra poveri. S’azzannano se un collega partecipa a un piano di lavoro o a un progetto obiettivo autorizzato dalla Direzione. O se la busta paga risulta inferiore rispetto al collega di pari livello.

Cercano sempre di dimostrare ai superiori di essere i migliori, non si accontentano di bruciare o mandare al macero tonnellate di carta, di testine e di toner. La loro salubre non-coscienza gli permette di tenere a bada la bipolarità, anche a costo di adoperarsi in un angosciante livellamento verso il basso.

L’impiegato di basso livello è un minuscolo tapino, serrato nel suo misero regno neutrale. La sua stanza è una piccola Svizzera. Quando gli chiedi spiegazioni sfodera la sua collaudata teoria leninista. Bisogna decapitare il pachiderma, bisogna tagliare la testa a chi comanda, a chi detiene il potere.

Ma il potere non transita dall’alto verso il basso. Il potere è orizzontale, è democratico. Non ci sono soggetti neutrali, dice Violi, siamo sempre e necessariamente presi nelle maglie del potere. Il potere siamo noi impiegati. S’infiltra nei corpi, nelle anime, nelle vite, attraversa le molecole dell’intero corpo. Un fronte di battaglia attraversa tutta la società, transita dal nostro corpo, è il nostro corpo.

Il livellamento verso il basso: è questa la verità della pubblica amministrazione. È dire No a qualsiasi cosa. È dire No alla vita. È rassegnarsi – dice Violi. È piegare la testa e andare avanti come topi di fogna, come scimmie, ippopotami imbalsamati, lucciole, cani da rapina che puzzano sempre più di carne morta, bradipi che mangino cinghiale, vermi e parassiti, maiali e pipistrelli, animali da zoo, un barbuto pachiderma che sembra barrire, piccole mosche che depositano le uova di giornata e poi volano via verso un lavoro improduttivo e parassitario, grilli e cavallette, avvoltoi e serpi, tentacoli di un animale marino, formiche a caccia di briciole di pane, abili caimani, un orso in ribasso, serpi, insetti e scarafaggi, coccodrilli, un mamba nero, pigs, il mostro di lochness, un condor concentrato a spolpare la carcassa della Grecia ormai prossima alla decomposizione, i piranha, una iena che scruta piccole ferite, luridi squali che divorano i resti dei piccoli pesci dopo averli catturati, bacilli da debellare ad ogni costo, vermicelli speranzosi, gufi e corvi neri, le formiche sotto terra.

Quando lavori senza sosta, dice Violi, e per il solito misero salario passi le giornate occupato quasi ininterrottamente, e lo fai perché sei animato dal senso di appartenenza al tuo territorio, un territorio che chiede una mano per uscire dal pantano in cui si è infilato; anche quando ti impegni dalla sera alla mattina nella scrittura del Piano strategico, tutto ciò che ti circonda, il branco di cani, di caimani, di serpenti, di polipi, di coccodrilli, ti afferra e ti trascina verso il basso, ti costringe alla reazione, ti afferra, ti abbraccia, più spesso ti seduce, sino a farti cambiare verso, fino a farti diventare come loro.

La storia della pubblica amministrazione in questi quattordici anni, dice Violi, per tutto ciò che mi riguarda, è stata un lungo percorso attraversato da seduzione, sfruttamento e infine abbandono. Resta solo il vuoto che sento quando varco il portone d’ingresso.

Mi guardo in torno, c’è tanta sofferenza. Ognuno ostenta un finto benessere, giusto per non darla vinta agli altri, gli altri che si suppone se la passino alla grande, mentre invece fingono. Mi guardo in torno e noto che c’è tanta sofferenza. Esco dalla stanza, saltello, e finalmente respiro.

Bisognerebbe interrogare a lungo questo libro. Interrogare tutti gli animali che vi compaiono e capire se hanno a che fare con gli animali di cui parla Adorno, oppure con quelli di cui parlano Hobbes e Schmitt.

Gli animali abitano l’Ente. Non sono figure dell’impiegato o del burocrate. Sono il burocrate stesso, che non conosce la lingua, e allora grugnisce, abbaia, squittisce, azzanna, si acquatta e obbedisce.

L’impiegato non pensa, non decide, reagisce agli stimoli. Vive in uno stato di non-coscienza. Ha sete, ma non di potere. Il potere lo attraversa come mero flusso vitale.

L’animale – scrive Adorno – non ha concetto. Non ha parola per fissare l’identico nel flusso di ciò che appare. Gli fa eco Flix che nel diario annota quanto segue: difficile da trattenere con conversazioni intelligenti e interessanti con gli impiegati. Persino il più sveglio non si eleva al di sopra della scimmia.

Bisognerebbe aprire qui un lungo capitolo sulla bestialità di una para-burocrazia meridionale e calabrese, improvvisatasi intermediaria della bestialità muta di una popolazione resa prigioniera di una prima lingua squalificata, il calabrese, resa minorenne, e incapace di dire il vero, una lingua senza letteratura, senza evidenze scritte, se si escludono poche raccolte di aneddoti, di proverbi e motti di spirito raccolti allo scopo di nobilitare non la lingua ma i patronimici di medici, dentisti, avvocati e maestri delle scuole elementari. Una lingua minore, una lingua domestica, locale, fragile, senza grammatiche, senza libri e senza carta, con l’eccezione di un dizionario compilato da un tedesco.

Bisognerebbe scrivere un libro intero, forse anche un’enciclopedia, o un bestiario, per catalogare le figure bizzarre, certamente mostruose (nel senso di Hobbes) che popolano il meridione e la Calabria, e che si aggirano come vampiri, come caimani, come coccodrilli, e che talvolta sembrano delle vere e proprie scimmie ammaestrate, e che con le loro borsette, le cravatte e le scarpe da ginnastica ci rendono edotti sulle misure, e le contromisure, da adottare per interloquire con questo e quest’altro ufficio della pubblica amministrazione, e che ci spillano gli spiccioli per scrivere la ricetta per risolvere questo o quel problema, problema vero o inventato, inventato da loro stessi, allo scopo di perpetuare uno strapotere, un controllo, un dominio sulle anime, sui corpi, sulle menti. Un dominio che non ha alcuna ragione di continuare ad esistere.

Non è solo questione di lingua. Non è che questi intermediari para-burocratici siano gli interpreti della lingua ufficiale. Lo strapotere non passa solo attraverso la lingua. Ha altri canali. Si forma anche attraverso una espropriazione originaria. Ma nella lingua trova un campo di battaglia facile.

La ragione migliore è quella del più forte. E il più forte impone la sua lingua. Impone una lingua ufficiale, infarcita di acronimi, di rimandi, di citazioni, di tecnicismi ed esotismi.

È facile mettere in crisi un funzionario di basso livello. È facile baloccarsi di un dirigente di alto livello con un po’ d’inglese d’aeroporto, con un po’ di informatichese, speso nella lingua burocratica per eccellenza, l’inglese, una lingua che oggi cerca di annichilire ogni altro idioma con i cannoni e le mitraglie della scienza, della tecnica, e persino, anzi soprattutto, del diritto e della letteratura, per non parlare della musica, del cinema e della logica.

È troppo facile per un avvocato, un medico, un insegnante, un assistente sociale o uno psicologo, un commercialista, un ingegnere, e persino un direttore di un ufficio postale o di una banca, raggirare un bifolco, un bracciante, un operaio, un misero custode del cimitero.

È risaputo che in molti paesi, compresa l’Italia, la fondazione degli Stati è stata sempre accompagnata dall’imposizione di una lingua a minoranze etniche raggruppate sotto una giurisdizione statale.

Il bifolco, l’illetterato, la bestia, il mostro sono confinati ad una fissità dell’innato, del cablaggio o del programma innato, si muovono, si agitano, reagiscono agli stimoli, provano anche dei sentimenti, ma non rispondono, non decidono, non si decidono mai a cambiare il proprio destino.

E anche quando agiscono, i loro atti consistono semplicemente nell’applicare una regola, nello svolgere un programma o nell’effettuare un calcolo, e questo calcolo, o questo adeguarsi alla regola o alla norma, lo si dirà forse legale, conforme al diritto, conforme alla logica, ma non sarà mai giusto, frutto di una scelta, di una decisione.

Davvero siamo in presenza qui del gesto classico e tradizionale che vede costituirsi l’idea di uomo come distinzione dall’animale?

Accostando gli impiegati agli animali, davvero Flix vuole iscriversi in una lunga e gloriosa tradizione, una tradizione, dice Adorno (Dialettica…), predicata con costanza e unanimità da tutti gli antenati del pensiero borghese, tanto da apparire ormai, come poche altre idee, al fondo inalienabile dell’antropologia occidentale?

Davvero Flix definisce il proprio dell’uomo per differenza con l’animale?

Davvero l’animale, privato di libertà e autonomia, non potrebbe diventare soggetto di diritti e di doveri, secondo una tradizione antica che si ripete in Cartesio e in Kant?

Davvero l’animale appartiene all’ordine dell’esperienza puramente sensibile, ed è privato, come pensa e scrive Kant, della soggettività e dunque della dignità?

Davvero anche qui si ripete il gesto – come scrive Adorno a proposito di Kant – di padronanza sulla natura, che vorrebbe dominare la natura con la scienza e la tecnica con una guerra, un odio, un’animosità senza pari nella storia del mondo?

I segni di un tale indirizzo illuminista ci sono. E sono, anche con una certa sistematicità, opposti a ciò che, dall’altra parte, rappresenta la non-coscienza, la posizione prona, la bestialità sessuale, soprattutto delle donne, la ripetizione ottusa e la routine, la replica e la stampa, eccetera. C’è anche il riferimento alla dignità. Senza dignità non si ha accesso alla legge. Si rimane prigionieri della norma.

Da una parte ci sono gli impiegati-animali che strisciano senza dignità. Ai quali è preclusa ogni possibilità di decidere autonomamente del proprio destino. Se gli si rivolge la parola non rispondo, reagiscono e basta. Si aggirano per i corridoi, sniffano l’aria che tira, puntano una stampante o una risma di carta, e la marcano con una pisciatina. Dall’altra parte c’è Flix, libero dalla eterna ripetizione.

Questo libro gira intorno all’idea di sovranità, alla possibilità di avere in pugno il proprio destino. E se a tratti si affaccia in esso un certo sadismo, la voglia di ritirarsi dal mondo, di rifiutarsi al mondo, questo sadismo non va inteso ingenuamente come un volere tenere e schiacciare sotto di sé il mondo intero.

La solitudine infinita del protagonista, che appare a tratti qui e là, non è il sintomo della disperazione. Anche l’angoscia che si respira in alcune pagine non è il sintomo di una sottomissione allo stato della cose. Al contrario. È il sintomo dell’esplosione imminente della collera sovrana, della voglia di non voler nulla, all’infuori della sovranità, della voglia di non voler dipendere da nulla all’infuori di sé. È quella voglia romantica di sciogliersi nell’infinito.

Dovrò essere a filo, perfetto – scrive Flix sul diario – devo resistere e stare zitto, aumentare le dosi immaginarie di morfina, accettare ogni cosa per non prestar il fianco a richiami disciplinari, assistere passivamente annuendo, e con forza raggiungere la beatitudine burocratica.

Poi invece la collera esplode, senza controllo, senza misura, senza guardare in faccia nessuno, violenza cieca, violenza senza ritorno, senza calcolo.

Quando li vedo seduti di fronte a me, dice Flix, non mi raccapezzo più, non trovo alcuna ragione, alcuna giustificazione. Allora la collera monta ed esplode senza preavviso. Ha la stessa potenza fondatrice della collera di cui parla Benjamin nel saggio sulla violenza.

Per ciò che è dell’uomo, dice Benjamin, la collera lo travolge agli scoppi più aperti di violenza, che non si riferisce come mezzo ad uno scopo prestabilito. Essa non è mezzo, ma manifestazione.

Nella collera non si esercita una forza brutale per ottenere questo o quel risultato. La collera non è il mezzo in vista di un obiettivo che ci si è prefissati. Scoppia senza preavviso, sorprendendo persino chi gli da sfogo. È una violenza che esplode all’interno di un ordine dato, di un ordine giuridico per esempio, risucchiando nell’abisso tutto il sistema, compreso ciò che legittima le norme e le procedure.

La collera non ha alcuna giustificazione – dice Flix. Non si poggia su niente, se non su se stessa. Esplode, e mette a nudo la violenza costitutiva dell’ordine giuridico.

La collera non fa parte di quel genere di violenza che mira ad uno scopo, come fa invece la violenza del rapinatore, il quale infrange il diritto per un tornaconto piccolo o grande.

Il ladro, anche il grande ladro, è un trasgressore, rimane sempre impigliato nell’ordine, quando non è lui stesso a ripristinare l’ordine appena infranto, giusto per fornire una garanzia giuridica al bottino appena estorto.

Se la violenza, dice Benjamin, fosse semplicemente il mezzo di assicurarsi direttamente la cosa a cui si mira, essa potrebbe assolvere al suo scopo solo come violenza di rapina. E sarebbe affatto inetta a fondare o modificare rapporti in modo relativamente stabile.

Nel diario di Flix c’è un elogio spudorato della violenza criminale.

C’è violenza e violenza.

C’è la violenza di rapina dell’opportunista sgusciante – dice Flix. È la violenza, per esempio, di quelli che negli anni Novanta del secolo scorso si facevano ancora chiamare «autonomi», e che erano spesso figli di banchieri e grossi amministratori e occupavano edifici dismessi per costruire le loro attività più lucrose.

E poi c’è la violenza del grande criminale, del fuori legge. La violenza, dice Benjamin, quando non è in possesso del diritto di volta in volta esistente, rappresenta per esso una minaccia, non a causa dei fini che essa persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del diritto.

La stessa supposizione può essere suggerita, in forma più concreta, dal pensiero di quante volte già la figura del «grande» delinquente, per quanto bassi potessero essere i suoi fini, ha riscosso la segreta ammirazione del popolo. Ciò non può accadere per le sue azioni, ma solo per la violenza di cui esse testimoniano. Qui pertanto la violenza, che il diritto attuale cerca di togliere al singolo in tutti i campi della prassi, insorge davvero minacciosa, e suscita, pur nella sua sconfitta, la simpatia della folla contro il diritto.

Sfidando la legge, il grande criminale mette a nudo la violenza dell’ordine giuridico.

Il grande criminale, nel diario di Flix, è Caciopane. L’ammirazione per Caciopane è totale.Vede in lui il momento in cui il diritto viene ignorato o sospeso. Questa interruzione radicale lascia Flix senza parole – preda del fascino.

Non c’è commensurabilità tra le piccole bestialità quotidiane degli impiegati pubblici, e la bestialità del grande criminale.

Caciopane agisce. Non rimugina, non pensa, si muove d’istinto, senza pensare. Pensare rallenta, pensare è ripetitivo. Caciopane, come il sovrano, rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione (Schmitt).

La decisione di Caciopane di commettere il crimine non muove da un calcolo. Se il grande criminale facesse i conti, se calcolasse tutte le conseguenze non agirebbe. Se agisce è perché non pensa, non ragiona.

Nella decisione la ragione viene messa tra parentesi.

La decisione – scrive Schmitt – nasce da un nulla.

Il nulla dal quale muove la decisione, la rende autonoma, sovrana. Essa, dice Schmitt, non si spiega con l’aiuto di una norma. Non si spiega col ricorso alle leggi della ragione, alle leggi della psicologia o della fisiologia. Non si spiega nemmeno col ricorso al contenuto della decisione.

Non sarebbe una decisione sovrana quella decisione che si porrebbe come scopo il raggiungimento di un fine, come può essere, ad esempio, il portare a casa il malloppo. La decisione è sovrana se decide per cose inutili, di nessun valore. È sovrana se il valore non è il movente dell’azione. E qui valore va inteso in senso ampio, sia come valore di scambio, sia come valore semiologico, valore morale, valore ideale, eccetera.

Ogni concreta decisione, dice Schmitt, contiene un momento di indifferenza contenutistica. La circostanza che una decisione è necessaria resta un momento determinante di per sé. Non si tratta della nascita causale e psicologica della decisione. Una decisione deve sottrarsi all’ordine del possibile, del programmabile, del calcolabile, deve essere incosciente, irrazionale, oserei dire bestiale.

Hobbes, dice Schmitt, ha saputo, meglio di ogni altro, descrivere la decisione sovrana. È lui che ha formulato il principio secondo cui «Auctoritas, non veritas facit legem».

La decisione sovrana che è alla base dell’ordine giuridico non ha il suo referente fuori di sé o, in ogni caso, prima di sé o davanti a sé. La decisione sovrana è sottratta all’opposizione vero/falso.

Non c’è nulla di vero o di falso in una decisione.

Una decisione è efficace anche se è falsa. Come nota correttamente Schmitt, anche la decisione non giusta e difettosa ha una sua validità giuridica.

Qui il circolo della zoo-politica si chiude. Gli estremi si toccano. La bestia e il grande criminale sono tutti e due fuori legge, sono tutte e due, a modo loro, sovrani.

Il divenire sovrano di Flix passa per il divenire bestia. Senza bestialità, senza l’imbestialirsi dell’uomo, non si accede alla sovranità.

Per accedere alla sovranità bisogna che vi sia un attimo di non-coscienza.

Le pressione subite dal dirigente capo, dice Flix, mi hanno accecato, ho perso la ragione. Se mi fossi guardato allo specchio, di sicuro in quel momento avrei visto occhi piccolissimi e penetranti come quelli di certi cani.

La bestia e il sovrano (e il criminale) rappresentano due modi di essere al di fuori della legge, due modi che possono sembrare eterogenei.

Eppure c’è somiglianza.

Tra la bestia e il sovrano c’è addirittura alleanza.

La bestia ignora il diritto.

Il sovrano ha il diritto di sospendere il diritto, di collocarsi al di sopra della legge che egli è, fa, istituisce, di cui decide sovranamente.

L’accesso alla decisione sovrana che istituisce la legge, il porsi fuori e prima della legge, passano per un diventare animale, passano per un accecamento della ragione.

Bisogna diventare cani, bisogna che l’occhio umano lasci il campo all’occhio piccolissimo e penetrante del cane, ad un occhio che ignora il diritto, che ignora le gerarchie, che ignora persino dove si trova, che agisce per istinto, per l’impulso di una forza bruta – eterno ritorno canino.

La bestia che è fuori legge, e che da questo fuori pone la legge, non parla. Soprattutto non risponde. Non ha accesso alla lingua e al linguaggio.

Come scrive Hobbes nel Leviatano, fare patti o contratti con le bestie brute è impossibile, perché non comprendono il nostro linguaggio, non intendono né accettano alcuna traslazione di diritto, né possono trasferire alcun diritto ad altri e, senza una accettazione reciproca, non c’è patto.

Non è il caso qui di rimarcare che quanto affermato da Hobbes a proposito degli animali è errato. Che è errato dire che gli animali non hanno linguaggio, che non rispondono, eccetera. Non c’è bisogno di ricordare come molte cosiddette bestie hanno una comprensione raffinata del linguaggio umano. Non c’è nemmeno bisogno di ricordare che non sempre i patti umani che sono all’origine degli Stati assumono la forma di contratti letterali, discorsivi e scritti, con accordo reciproco e razionale dei soggetti coinvolti.

Flix lo ricorda in continuazione. Ricorda come la costituzione di un super-stato europeo si stia mangiando la sovranità dell’Italia senza che nessun cittadino sia interpellato, senza che vi sia una decisione, una votazione, una parvenza minima di legalità.

Ma ciò che è più importante ricordare è che ciò che viene attribuito all’uomo, che è ritenuto proprio dell’uomo (il linguaggio, per esempio) appartiene anche ad altri esseri viventi, e che, al contrario, ciò che viene attribuito al proprio dell’uomo, non gli appartiene in modo totalmente puro e rigoroso.

Non c’è bisogno, insomma, di dire che questa posizione di Hobbes è dogmatica.

Una volta fatte queste premesse si può dire che la considerazione di Hobbes a proposito della non-risposta della bestia fornisce una definizione profonda della sovranità assoluta.

Il sovrano non risponde, ha sempre il diritto di non rispondere delle sue azioni. È al di sopra della legge. Non deve rispondere ad una camera di rappresentanti, non deve rispondere di fronte ad un giudice. Concede la grazia dopo che la legge ha fatto il suo corso. Ha il diritto ad una certa irresponsabilità. Sopratutto, se decide di giustiziare qualcuno, non ha bisogno di fornire ragioni, di giustificarsi. Il giudice non deve (in realtà non può) giustificare la sua decisione.

Se la bestia non risponde, come fa la decisione sovrana a diventare sentenza, a diventare diritto, a diventare nomos?

Poi arriva quel momento unico, singolare, irripetibile, in cui Flix decide di scrivere il diario. Il momento arriva a pagina 160, proprio nell’attimo in cui la tracotanza e la supponenza dei capi ufficio gli fanno perdere la testa.

I capi lo fanno imbestialire sino al punto da farlo sentire un morto che cammina.

Con la morte addosso Flix decide di accendere il computer e ripetere sullo schermo quello che nella testa gli appare come già impresso sulla carta.

La guerra di posizione per la difesa di una stampante, il fronte della carta, l’incendio di libri e tutto il resto, sono solo premonizioni del libro che sta per venire, della decisione che incombe.

Bisogna arrivare a pagina 160 perché Flix decida di scrivere il diario.

Abbiamo dovuto pazientare 159 pagine, aspettare che Flix perdesse la testa, che vivesse la morte, per avere tra le mani il diario, il libro.

Vedevo sfilare la gente, dice, salutando come se portasse il lutto per te.

E anche Filippo ha dovuto aspettare pagina 160, ha dovuto attendere sino a che il giorno si fermasse, il continuum si arrestasse, ha dovuto sentirsi mancare l’aria, ha dovuto sentire un vuoto, un’assenza, un’assenza che il libro ha supplito, ripetendo anzitempo ciò che io sto ripetendo a mia volta.

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