In questi giorni, sulla scorta delle immagini che arrivano dagli USA e dal Regno Unito, si è aperto un dibattito su statue e toponomastica coloniale.
Si è tornati a parlare ad esempio della statua di Montanelli a Milano, già giustamente sanzionata qualche tempo fa per la nota storia della sposa bambina etiope comprata dal “grande giornalista”, mentre questo partecipava ad una delle più sanguinarie avventure coloniali dell’Italia fascista. Varrebbe la pena parlare anche del monumento dedicato ai caduti della battaglia di Dogali a Roma, oppure del sacrario allo stragista Graziani, ad Affile, inaugurato nel 2012.
Esiste una nutrita toponomastica coloniale in Italia. Basti pensare alle tante piazze, strade e viali che in tutto il paese portano il nome di località africane dove trovò sfogo la folle proiezione imperiale nostrana: Libia, Adua, Addis Abeba, Amba Aradam... e così via fino ad arrivare a piazze dedicate ai “caduti di Nassirya”.
Gli italiani si sono sempre cullati in un immaginario mondo che li vede come “brava gente” a prescindere, quelli che alla fine sono sempre stati nel giusto della storia.
Anche la stessa colonizzazione brutale e violenta di Libia, Somalia, Eritrea ed Etiopia viene raccontata troppo spesso come un processo positivo: come se i “nostri” in fondo volessero bene a coloro che stavano conquistando.
Per non parlare poi delle aggressioni fasciste ad Albania e Grecia, dove i cattivi furono i tedeschi, non gli italiani che in fondo quella guerra la stavano perdendo perché bonaccioni che fraternizzavano con i locali.
Italiani quindi certo truffaldini, furbi, bonariamente disonesti, ma comunque “brava gente”. L’autoassoluzione passa direttamente dall’autocommiserazione nella narrazione nazionale italiana, anche quella ufficiale.
Non ci possiamo assolutamente limitare, però, a parlare delle avventure portate avanti dai nostri progenitori fuori dai confini della penisola: l’Italia è un paese che delle colonie “interne” ha fatto la sua fortuna.
Basti pensare alla cosiddetta “questione meridionale”, apertasi con la predazione delle risorse industriali, naturali e finanziarie del fu Regno delle Due Sicilie operato nel periodo post-unitario. Un processo che ha poi visto protagonisti delle sue conseguenze migliaia di migranti interni, che da un territorio reso depresso ad hoc sono dovuti partire per cercare lavoro nelle zone maggiormente industrializzate del nord della penisola.
Un destino di predazione ed emigrazione forzata che ha vissuto anche la Sardegna, che con l’Italia non aveva mai assolutamente avuto nulla a che fare fino a che il duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, in seguito alla guerra di successione spagnola e al trattato di Utrecht del 1713, non ne ottenne la corona nel 1720, per potersi fregiare di un titolo regio.
La storia coloniale d’Italia continua fino ad oggi, con forme ovviamente diverse ma comparabili: le dinamiche di frammentazione dell’amministrazione pubblica e il regionalismo differenziato, proposto sia da destra che “da sinistra”, possono essere lette anche in questo senso.
Favorire, in definitiva, le regioni core dell’accumulazione capitalista, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, andrebbe a inasprire ulteriormente quel processo di impoverimento e scientifica sottoproletarizzazione di intere aree del paese.
La questione è certo da esplorare con maggiore attenzione rispetto a queste poche righe, che vogliono essere, soprattutto, una provocazione ed uno stimolo alla riflessione. Il colonialismo italiano non è, infatti, il grande rimosso soltanto della retorica ufficiale: anche sinistra e movimenti troppo spesso hanno scientemente ignorato questi temi fondamentali.
Esistono, ad esempio, forze indipendentiste e genuinamente comuniste in Sardegna, ma a parte poche significative eccezioni (come a suo tempo la Democrazia Proletaria Sarda) gli italiani si sono rifiutati di dare anche il minimo riconoscimento a queste sensibilità.
Uno degli esempi più chiari viene di certo dalle dichiarazioni di Marco Rizzo che, durante la campagna elettorale delle ultime politiche, disse che la formula per rilanciare la Sardegna era una maggiore industrializzazione1.
Ma le industrie in Sardegna ci sono, basti pensare alla Sarlux di Moratti, oppure alla tristemente famosa fabbrica di bombe Rmw della tedesca Rheinmetal. Sono le industrie che mancano o è l’estroversione verso il continente di tante risorse produttive ad essere il problema?
La protesta dei pastori e gli sversamenti del latte, nel 2019, hanno messo sotto gli occhi di tutti proprio quel meccanismo neocoloniale che è la vendita di risorse a prezzi vantaggiosi soltanto per una parte, alla faccia di chi sostiene che i prezzi “si autoregolano nel libero mercato”.
Il processo di rimozione della questione coloniale italiana da parte della sinistra risale alla storia del PCI, vittima in parte anche di quella graduale socialdemocratizzazione che culminò nel compromesso storico berlingueriano.
Oggi ciò che resta dei movimenti italiani è decisamente esterofilo; si guarda a decine di esempi sparsi per il mondo di lotte e di modelli, ma non si guarda quasi mai in casa propria.
Questo momento in cui fioriscono le lotte antirazziste, mentre ci troviamo a dover riflettere su che tipo di Stato vogliamo costruire, dopo che l’epidemia di Covid-19 ha mostrato l’inadeguatezza del sistema vigente, è forse il miglior punto di partenza per rimettere in dubbio anche questi aspetti.
È fondamentale poter rimettere al centro, quindi, parole d’ordine di classe e che possano aggredire con forza anche la questione delle disparità interne, stimolare i movimenti affinché pongano un’alternativa di sistema forte, agire per confrontarsi con le forze dei territori. In questo modo sarà, forse, possibile mettere in campo percorsi che parlino di pianificazione economica e sociale fuori dalle pastoie coloniali del passato.
È una questione di volontà politica che l’attuale classe dirigente non può e non vuole raccogliere: troppi sono gli interessi economici, troppo importante anche da un punto di vista militare tenere sotto ricatto la popolazione di intere aree del paese e poter rifornire in questo modo esercito, polizia e carabinieri di giovani senza alternative lavorative.
Cambiare tutto significa anche aggredire le dinamiche coloniali interne italiane, senza dimenticare il ruolo svolto dall’Unione Europea in questo gioco perverso di impoverimento ed emigrazione tramite la policy del pareggio in bilancio e i tagli, che hanno ulteriormente massacrato la popolazione e aggravato la situazione di estroversione delle risorse.
Rompere con questo sistema oggi è una necessità, proposte come l’Alba Euromediterranea rappresentano alternative credibili, basandosi sulla solidarietà tra i popoli e non sulla competizione sfrenata.
Una sfida tutta da costruire e da cui non possiamo esimerci: rompere con il colonialismo italiano significa anche rompere con l’Unione Europea che di queste dinamiche si è fatta interprete, significa dire basta all’emigrazione, significa costruire un’alternativa sociale ed economica vera.
Per fare questo serve un’alternativa politica reale contro e fuori dalla mentalità coloniale che, anche a sinistra, ha fatto tanti e troppi danni.
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