I Napoli Centrale furono il punto di approdo di un lungo percorso. In principio c’era una band post-beat,
gli Showmen, in cui militavano, fra gli altri, il cantante e bassista
Mario Musella, il batterista Franco Del Prete, i fiatisti Elio D’Anna e
James Senese. Musella e Senese erano entrambi figli della guerra, con
madri locali e padri sconosciuti, rimasti a Napoli per qualche mese
durante il secondo conflitto mondiale e poi rientrati negli Stati Uniti,
uno pellerossa e l’altro afroamericano. Questo tratto li rendeva
specchio delle vicissitudini che avevano attraversato la loro città, e
in particolare Senese ha sempre tenuto a ribadirlo con orgoglio.
Gli Showmen furono una delle prime band con sonorità rhythm and blues in
Italia, benché il loro repertorio fosse composto perlopiù di cover e non
siano stati valorizzati abbastanza dall’industria discografica. Intorno
al 1970 Musella lasciò la band per tentare senza successo la carriera
da solista e la formazione, senza più punti di riferimento, si sfaldò.
D’Anna sarebbe in breve tempo confluito negli Osanna, una delle più importanti formazioni del rock progressivo italiano.
Superato l’iniziale spaesamento, Del Prete e Senese si riorganizzarono come
Showmen 2, arruolando nuovi membri. Senese, pur mantenendo il suo ruolo
al sax, iniziò anche a cantare. Terrà in seguito a precisare di non
essersi mai visto come cantante e di aver iniziato per necessità, allo
scopo di smentire le voci che lo volevano artefice della fuoriuscita di
Musella. Senese e Musella sarebbero del resto rimasti amici fino al
1979, anno della morte del secondo per cirrosi epatica, a trentaquattro
anni.
Il suono degli Showmen 2 si sposta verso il rock
progressivo, che in quel periodo va infiltrandosi in quasi ogni band
italiana. C’è però il tempo di un solo album, pubblicato nel 1972
dall’etichetta locale B.B.B., senza particolari riscontri.
Senese, che per via delle sue origini sente un forte legame con la cultura
americana (a tal punto da arrivare a dire che sia l’unica capace di
generare grandi musicisti), ha ormai gli occhi puntati sulle nuove
tendenze del jazz.
Siamo negli anni in cui Herbie Hancock dà vita a “Head Hunters”, testo sacro del jazz-funk, in cui Miles Davis pubblica album di jazz elettrico via via sempre più ritmico (fino al proto-drum ‘n’ bass di “Rated X”), in cui gli Weather Report cominciano a smussare il proprio sound, a passi spediti verso quella levigatezza – pur frenetica – che sarà poi loro marchio di fabbrica.
Il rock progressivo britannico, che pure gli Showmen 2, con la loro
componente soul, avevano interpretato in maniera peculiare, perde
gradualmente di interesse, a favore di queste esplorazioni, più
marcatamente nere.
Nel 1974 nascono così i Napoli Centrale. Oltre
a Senese e Del Prete, la formazione conta Mark Harris al pianoforte
elettrico e Tony Walmsley al basso, un americano e un britannico che
vivevano a Napoli, perfettamente integrati alla scena locale (Harris poi
sarebbe diventato un turnista di lusso).
Il contratto con la Ricordi è solo la riprova di un periodo lontano, in cui anche le case
discografiche più popolari investivano nella musica più sperimentale.
Nel giro di pochi mesi l’album di debutto, intitolato col nome della
band, è sul mercato.
L’iconica copertina mostra i membri del gruppo
di spalle, che camminano insieme a due bambini per una fangosa strada di
campagna, in un paesaggio scarno fatto di alberi potati, cielo plumbeo e
recinzioni di filo spinato (Riccardo Venturi di AWS ipotizza un parallelo, come si vedrà niente affatto peregrino, fra queste e le delimitazioni dei campi di concentramento).
L’immagine non è casuale: la campagna dei Napoli Centrale è feroce e inospitale.
Il brano d’apertura, “Campagna”, lo mette subito in chiaro, con Senese
che canta: “Chiove o jesce 'o sole, chi è bracciante a San Nicola, cu'
'a butteglia chino 'e vino, tutte 'e juorne va a zappà. Campagna,
campagna, còmme è bella 'a campagna, ma è cchiù bella pe' 'o padrone, ca
se ènghie 'e sacche d'oro, e 'a padrona sua signora, ca se 'ngrassa
sempre e chiù, ma chi zappa chesta terra, pe' 'nu muorzo 'e pane niro,
cu' 'a campagna se ritrova stracquo, strutto e culo rutto”.
Non c’è spazio per la visione arcadica della campagna dipinta dalla cultura
borghese e metropolitana moderna. I Napoli Centrale la vedono come luogo
di sfruttamento e sopraffazione, trionfo del caporalato. Del Prete,
autore della maggior parte dei testi, veniva del resto da
Frattamaggiore, comune a nord di Napoli che all’epoca era ancora un
importante centro agricolo: probabile che abbia assistito sin da bambino
alle fatiche di amici e parenti, mentre si spaccavano la schiena come
braccianti per paghe da miseria.
L’impegno sociale, gridato da
Senese a pieni polmoni con la sua voce soul e ruggente, pone i Napoli
Centrale come megafono della coscienza di Napoli, la Napoli alta e
d’animo nobile che non si piega al degrado culturale imposto dalle
condizioni di vita sfavorevoli, a loro volta effetto del controllo
diretto della malavita sui gangli vitali dell’economia locale. Quella
dei Napoli Centrale è un’autentica forma di resistenza artistica alle
storture che da sempre attraversano quella città e tentano di insultare
l’assoluto valore della sua storia e della sua cultura.
“’A gente ‘e Bucciano” è dedicata a un piccolo comune dell’entroterra campano,
che all’epoca si andava spopolando a causa dell’emigrazione. La
condizione dello sfruttamento viene mostrata come ineluttabile. Anche
tentando la fuga verso il Nord Italia, la qualità di vita di molte
persone non migliorava: le braccia che si logoravano in campagna si
logorano ora sulle catene di montaggio. Viene dato risalto anche alla
condizione psicologica della classe popolare, che si ritrova mortificata
da uno stillicidio senza via d’uscita: “Ma 'a fàmma è chhiù forte
d'ammore pe' 'a terra e 'a gente 'e Bucciano è emigrata nel Nord, nun
puteva cchiù campà, mo va in fabbrica a faticà, jettann' 'o stess'
sànghe e 'a salute e in cchiù se sente gente fernuta”.
All’inizio del nuovo millennio i testi dei Napoli Centrale si addicono solo in parte
al popolo italiano, che ha gradualmente abbandonato il lavoro nei campi,
ma la situazione di sfruttamento persiste, sulle spalle degli
immigrati. I versi di Del Prete non sono di fatto invecchiati, hanno
solo cambiato soggetto.
Se la filosofia e la politica dei Napoli
Centrale sono in mano principalmente a Del Prete, la forma e l’etica
musicale sono cosa di Senese. Come si accennava, è lui che li spinge a
cambiare pelle rispetto agli Showmen 2, verso un suono che mescola il
dinamismo del jazz-rock e il suono levigato della jazz fusion,
principalmente grazie all’assenza della chitarra elettrica e a un sax
che, pur selvaggio, potente e costantemente laborioso, non scade mai in
cacofonie e tentazioni rumoristiche. Lontana dal free jazz, la sua
ispirazione viene dal jazz elettrico: Wayne Shorter quindi, anziché
Ornette Coleman o John Coltrane (Senese poi indicherà grande ammirazione
per tutti i nomi citati, ma ascoltando la sua musica è palese che il
primo abbia più peso degli altri).
Delle chitarre non si sente la
mancanza neanche per un attimo, grazie alle pulsazioni del basso, che
eccelle sia nei virtuosismi (“Vico primo Parise N. 8”), sia nelle linee
più ripetitive e ipnotiche (“Viecchie, mugliere, muorte e criaturi”), e
del pianoforte elettrico Fender, il cui suono caldo riempie i vuoti e
complica le trame, iniettando i brani di giochi d’eco e piccole melodie
indipendenti, che colano come rivoli in mezzo ai groove della sezione ritmica e agli assoli del sax.
Il riferimento ai grandi della jazz fusion americana non deve far
intendere che la musica dei Napoli Centrale sia derivativa. Per prima
cosa, i tratti cantati – peraltro dal sapore riconoscibilmente
mediterraneo – rispondono con costanza alle strutture della forma
canzone, portando così un senso d’ordine e pulizia all’interno delle
divagazioni strumentali. Inoltre, anche ponendo il paragone coi modelli
di riferimento, si può notare come gli Weather Report sarebbero arrivati
alla loro fase pop (si fa per dire) con “Black Market”, soltanto un
anno dopo: fino a quel momento nessun loro disco era apparso levigato e
cantabile come lo è il debutto dei Napoli Centrale. Dulcis in fundo, i
Napoli Centrale, pur esentati dalle chitarre, rimangono principalmente
una band rock, con tutte le conseguenze strutturali e di approccio alla
materia che ne conseguono.
La diversità della loro formazione (Del Prete un abitante della campagna campana, Senese proveniente dalla
periferia nord di Napoli, gli altri due degli anglosassoni trapiantati),
la fortuna di trovarsi in uno dei poli creativi italiani (la Napoli
degli anni Settanta) e l’astuzia di guardare al contempo all’infuori dei
confini nazionali, il momento storico propizio: c’è in pratica ogni
elemento necessario per considerare “Napoli Centrale” una pietra
miliare.
Il resto della carriera è storia: pur senza aver mai
raggiunto il successo su scala nazionale e pur essendosi sciolta e
ricomposta più volte, sempre ruotando intorno a Senese, la band si è di
fatto imposta fra i nomi più importanti della musica italiana,
allungando la sua influenza fino a un gigante come Pino Daniele, che si formò suonando il basso per loro nel 1977-78.
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