Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

13/06/2020

Napoli Centrale - 1975 - Napoli Centrale

I Napoli Centrale furono il punto di approdo di un lungo percorso. In principio c’era una band post-beat, gli Showmen, in cui militavano, fra gli altri, il cantante e bassista Mario Musella, il batterista Franco Del Prete, i fiatisti Elio D’Anna e James Senese. Musella e Senese erano entrambi figli della guerra, con madri locali e padri sconosciuti, rimasti a Napoli per qualche mese durante il secondo conflitto mondiale e poi rientrati negli Stati Uniti, uno pellerossa e l’altro afroamericano. Questo tratto li rendeva specchio delle vicissitudini che avevano attraversato la loro città, e in particolare Senese ha sempre tenuto a ribadirlo con orgoglio.

Gli Showmen furono una delle prime band con sonorità rhythm and blues in Italia, benché il loro repertorio fosse composto perlopiù di cover e non siano stati valorizzati abbastanza dall’industria discografica. Intorno al 1970 Musella lasciò la band per tentare senza successo la carriera da solista e la formazione, senza più punti di riferimento, si sfaldò. D’Anna sarebbe in breve tempo confluito negli Osanna, una delle più importanti formazioni del rock progressivo italiano.

Superato l’iniziale spaesamento, Del Prete e Senese si riorganizzarono come Showmen 2, arruolando nuovi membri. Senese, pur mantenendo il suo ruolo al sax, iniziò anche a cantare. Terrà in seguito a precisare di non essersi mai visto come cantante e di aver iniziato per necessità, allo scopo di smentire le voci che lo volevano artefice della fuoriuscita di Musella. Senese e Musella sarebbero del resto rimasti amici fino al 1979, anno della morte del secondo per cirrosi epatica, a trentaquattro anni.

Il suono degli Showmen 2 si sposta verso il rock progressivo, che in quel periodo va infiltrandosi in quasi ogni band italiana. C’è però il tempo di un solo album, pubblicato nel 1972 dall’etichetta locale B.B.B., senza particolari riscontri.

Senese, che per via delle sue origini sente un forte legame con la cultura americana (a tal punto da arrivare a dire che sia l’unica capace di generare grandi musicisti), ha ormai gli occhi puntati sulle nuove tendenze del jazz.

Siamo negli anni in cui Herbie Hancock dà vita a “Head Hunters”, testo sacro del jazz-funk, in cui Miles Davis pubblica album di jazz elettrico via via sempre più ritmico (fino al proto-drum ‘n’ bass di “Rated X”), in cui gli Weather Report cominciano a smussare il proprio sound, a passi spediti verso quella levigatezza – pur frenetica – che sarà poi loro marchio di fabbrica.

Il rock progressivo britannico, che pure gli Showmen 2, con la loro componente soul, avevano interpretato in maniera peculiare, perde gradualmente di interesse, a favore di queste esplorazioni, più marcatamente nere.

Nel 1974 nascono così i Napoli Centrale. Oltre a Senese e Del Prete, la formazione conta Mark Harris al pianoforte elettrico e Tony Walmsley al basso, un americano e un britannico che vivevano a Napoli, perfettamente integrati alla scena locale (Harris poi sarebbe diventato un turnista di lusso).

Il contratto con la Ricordi è solo la riprova di un periodo lontano, in cui anche le case discografiche più popolari investivano nella musica più sperimentale. Nel giro di pochi mesi l’album di debutto, intitolato col nome della band, è sul mercato.

L’iconica copertina mostra i membri del gruppo di spalle, che camminano insieme a due bambini per una fangosa strada di campagna, in un paesaggio scarno fatto di alberi potati, cielo plumbeo e recinzioni di filo spinato (Riccardo Venturi di AWS ipotizza un parallelo, come si vedrà niente affatto peregrino, fra queste e le delimitazioni dei campi di concentramento).

L’immagine non è casuale: la campagna dei Napoli Centrale è feroce e inospitale. Il brano d’apertura, “Campagna”, lo mette subito in chiaro, con Senese che canta: “Chiove o jesce 'o sole, chi è bracciante a San Nicola, cu' 'a butteglia chino 'e vino, tutte 'e juorne va a zappà. Campagna, campagna, còmme è bella 'a campagna, ma è cchiù bella pe' 'o padrone, ca se ènghie 'e sacche d'oro, e 'a padrona sua signora, ca se 'ngrassa sempre e chiù, ma chi zappa chesta terra, pe' 'nu muorzo 'e pane niro, cu' 'a campagna se ritrova stracquo, strutto e culo rutto”.

Non c’è spazio per la visione arcadica della campagna dipinta dalla cultura borghese e metropolitana moderna. I Napoli Centrale la vedono come luogo di sfruttamento e sopraffazione, trionfo del caporalato. Del Prete, autore della maggior parte dei testi, veniva del resto da Frattamaggiore, comune a nord di Napoli che all’epoca era ancora un importante centro agricolo: probabile che abbia assistito sin da bambino alle fatiche di amici e parenti, mentre si spaccavano la schiena come braccianti per paghe da miseria.

L’impegno sociale, gridato da Senese a pieni polmoni con la sua voce soul e ruggente, pone i Napoli Centrale come megafono della coscienza di Napoli, la Napoli alta e d’animo nobile che non si piega al degrado culturale imposto dalle condizioni di vita sfavorevoli, a loro volta effetto del controllo diretto della malavita sui gangli vitali dell’economia locale. Quella dei Napoli Centrale è un’autentica forma di resistenza artistica alle storture che da sempre attraversano quella città e tentano di insultare l’assoluto valore della sua storia e della sua cultura.

“’A gente ‘e Bucciano” è dedicata a un piccolo comune dell’entroterra campano, che all’epoca si andava spopolando a causa dell’emigrazione. La condizione dello sfruttamento viene mostrata come ineluttabile. Anche tentando la fuga verso il Nord Italia, la qualità di vita di molte persone non migliorava: le braccia che si logoravano in campagna si logorano ora sulle catene di montaggio. Viene dato risalto anche alla condizione psicologica della classe popolare, che si ritrova mortificata da uno stillicidio senza via d’uscita: “Ma 'a fàmma è chhiù forte d'ammore pe' 'a terra e 'a gente 'e Bucciano è emigrata nel Nord, nun puteva cchiù campà, mo va in fabbrica a faticà, jettann' 'o stess' sànghe e 'a salute e in cchiù se sente gente fernuta”.

All’inizio del nuovo millennio i testi dei Napoli Centrale si addicono solo in parte al popolo italiano, che ha gradualmente abbandonato il lavoro nei campi, ma la situazione di sfruttamento persiste, sulle spalle degli immigrati. I versi di Del Prete non sono di fatto invecchiati, hanno solo cambiato soggetto.

Se la filosofia e la politica dei Napoli Centrale sono in mano principalmente a Del Prete, la forma e l’etica musicale sono cosa di Senese. Come si accennava, è lui che li spinge a cambiare pelle rispetto agli Showmen 2, verso un suono che mescola il dinamismo del jazz-rock e il suono levigato della jazz fusion, principalmente grazie all’assenza della chitarra elettrica e a un sax che, pur selvaggio, potente e costantemente laborioso, non scade mai in cacofonie e tentazioni rumoristiche. Lontana dal free jazz, la sua ispirazione viene dal jazz elettrico: Wayne Shorter quindi, anziché Ornette Coleman o John Coltrane (Senese poi indicherà grande ammirazione per tutti i nomi citati, ma ascoltando la sua musica è palese che il primo abbia più peso degli altri).

Delle chitarre non si sente la mancanza neanche per un attimo, grazie alle pulsazioni del basso, che eccelle sia nei virtuosismi (“Vico primo Parise N. 8”), sia nelle linee più ripetitive e ipnotiche (“Viecchie, mugliere, muorte e criaturi”), e del pianoforte elettrico Fender, il cui suono caldo riempie i vuoti e complica le trame, iniettando i brani di giochi d’eco e piccole melodie indipendenti, che colano come rivoli in mezzo ai groove della sezione ritmica e agli assoli del sax.

Il riferimento ai grandi della jazz fusion americana non deve far intendere che la musica dei Napoli Centrale sia derivativa. Per prima cosa, i tratti cantati – peraltro dal sapore riconoscibilmente mediterraneo – rispondono con costanza alle strutture della forma canzone, portando così un senso d’ordine e pulizia all’interno delle divagazioni strumentali. Inoltre, anche ponendo il paragone coi modelli di riferimento, si può notare come gli Weather Report sarebbero arrivati alla loro fase pop (si fa per dire) con “Black Market”, soltanto un anno dopo: fino a quel momento nessun loro disco era apparso levigato e cantabile come lo è il debutto dei Napoli Centrale. Dulcis in fundo, i Napoli Centrale, pur esentati dalle chitarre, rimangono principalmente una band rock, con tutte le conseguenze strutturali e di approccio alla materia che ne conseguono.

La diversità della loro formazione (Del Prete un abitante della campagna campana, Senese proveniente dalla periferia nord di Napoli, gli altri due degli anglosassoni trapiantati), la fortuna di trovarsi in uno dei poli creativi italiani (la Napoli degli anni Settanta) e l’astuzia di guardare al contempo all’infuori dei confini nazionali, il momento storico propizio: c’è in pratica ogni elemento necessario per considerare “Napoli Centrale” una pietra miliare.

Il resto della carriera è storia: pur senza aver mai raggiunto il successo su scala nazionale e pur essendosi sciolta e ricomposta più volte, sempre ruotando intorno a Senese, la band si è di fatto imposta fra i nomi più importanti della musica italiana, allungando la sua influenza fino a un gigante come Pino Daniele, che si formò suonando il basso per loro nel 1977-78.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento