di Giorgio Bona
Il primo impatto con Mosca è di ordine olfattivo. Il fastidioso e pungente odore di kerosene invade le narici e aggredisce appena metti piede in città. Ma la città, in odore di cambiamento, sta ancora cercando una sua identità, per cui tutto diventa superfluo.
Mi trovo qui sulla Via Arbat, la via più letteraria della capitale. I suoi spazi sentono ancora i passi di Sergej Esenin, Marina Cvetaeva, Vladimir Majakovskij e Lev Tolstoj, per arrivare al più profondo cantore dei cortili e della vita di quei vicoli e di quelle case: Bulat Okudzava.
Devo decidere dove andare. Con la politica del nuovo corso tutto è cambiato. La gioventù moscovita è orientata per un concerto dei Masĭna Vremeni (Macchina del Tempo) che sono i pionieri del Rock in Russia.
Io potrei orientarmi per la visione di “Il bianco sole del deserto” dove si possono ascoltare le bellissime canzoni di Bulat Okudzava che con Vladimir Vitzoskij era il cantautore in voga della protesta degli ultimi anni del socialismo reale.
È uno spettacolo che mi incuriosisce parecchio, perché Bulat Okudzava è stato il primo artista sovietico premiato in Italia, un grande riconoscimento come il Premio Tenco, conferitogli nell’85.
Arkadij, il mio amico russo, non vuole sentire ragioni. Anche lui è immerso anima e corpo dentro questa politica del nuovo corso. Non posso ribattere. Mi tira al Cinema Povtornyj in Via Herzen. Una sala dove un tempo si potevano vedere film stranieri e dove la loro proiezione era spesso tagliata.
Dopo la defezione di Tarkoskj il grande cinema contemporaneo russo era rappresentato da Nikita Michal’kov.
Adesso, con la politica del nuovo corso, in questa sala vengono proiettati film stranieri presenti in vari festival, soprattutto europei.
È il turno di Pavel Lounguine, un ebreo naturalizzato russo che vive a Parigi e che è reduce da una vittoria al Festival di Cannes con Taxi Blues.
Il film ha un’ambientazione moscovita, lui che negli anni a seguire si rivelerà regista della Russia profonda, quella dei villaggi, che non si vede mai, in film come La vita in rosso, Le nozze e L’isola.
A Mosca gira voce che il popolo russo stia scomparendo, perché è un popolo che ha mal sopportato l’urto con il capitalismo e questa apparente libertà
Il film, Taxi Blues, è ambientato a Mosca e, come dice il regista, Mosca è una grande metropoli dove tutto si compra e si vende. Questa è la ragione per cui in seguito Lounguine riconoscerà le persone della provincia come più vere e per questo più interessanti.
Titolo americaneggiante, che inneggia alla politica del nuovo corso, conferma quanto fosse ormai forte il vento dell’occidente nella patria del socialismo. Un film profondamente russo con una struttura narrativa da cinema americano.
Un road movie urbano che ti conduce fino al capolinea della Perestrojka, mettendo in luce le vie e le piazze di Mosca in odore di rinnovamento, come un cineasta di altri tempi e il cipiglio di un moralista moderno, quando ripercorre quello che, a suo parere, è il male della società: la droga, l’alcolismo e il sesso.
Un road movie russo nell’ambientazione, nei suoi personaggi, i dialoghi superano quel sentimento di patriottismo con uno slancio non sempre positivo, da ricordare un Martin Scorsese nei ghetti di New York.
Bellissime sono le immagini della metropolitana, un mondo tipicamente moscovita che cambia quando si sale in superficie. Qui Lounguine ci mostra il vero volto della città operaia, caotica e affamata, con anse di cultura profonda, case con mattoni rossi e quartieri fatiscenti, dove la povertà non è soltanto un dramma sociale ma anche una dignità da difendere.
Qui esce dal suo guscio la mafia per andare a braccetto con il nascente capitalismo. C’è la spudoratezza di accostarsi ad alcuni film americani, specie nella rappresentazione di un mondo proletario, popolato di musicisti, drogati, fannulloni e povere ragazze.
Ad accompagnarci in questo viaggio è la voce di Dio accompagnata dal suono di un sax sulla Via Arbat, la magniloquente Arbatkaja appena rifatta con i suoi richiami occidentali da gettare in mano ai turisti, lasciando dietro i muri ristrutturati da poco la bellezza di quei cortili e intere pagine di storia e di grande letteratura.
E adesso spazio ai nuovi artisti. La nuova underground.
Taxi Blues, il suo titolo americaneggiante rappresenta, in campo cinematografico, la pagina di svolta verso l’occidente della grande patria del socialismo reale.
Le figure dei due protagonisti sono studiate con cura e hanno nella loro diversità un riscontro fortissimo con la realtà di una Mosca in odore di rinnovamento, fra i suoi monumentali palazzi e i sobborghi dove è ben visibile il degrado.
Passando dal tour di una metropoli notturna, dove adesso una microcriminalità è uscita allo scoperto senza più paura di rappresaglie della milizia, dove il regime secco imposto da Eltsin è una manna per il contrabbando degli alcolici come nella Chicago anni '20, Pavel Lounguine, passando da una stazione all’altra di questo carnaio, ci fa incontrare due personaggi ben diversi tra loro. Liocha, fragile, ribelle, alcolizzato, con la mente sempre in astratto, che suona il sax e la sua musica diventa la voce di Dio e Schilkov, tassista che arrotonda il suo stipendio vendendo la vodka agli alcolisti ma al tempo stesso lavoratore instancabile, che ha una morale e crede ancora in quei valori e a quegli ideali che la società comunista ha trasmesso.
I due si incontrano fino a trasmettersi e a fondersi uno nell’altro, dove Liocha, ribelle per autonomasia si scontra con Schilkov, lavoratore di una cooperativa che detesta il lassismo, odia gli scansafatiche, ma alla fine, da rozzo lavoratore, finisce col subire il fascino del diverso, il talento dell’artista, si innamora di quella musica che all’inizio detesta.
Operai e intellettuali, anche sulle macerie di una vecchia società comunista, anche con la spinta verso una società capitalista, sembrano poter convivere.
Non soltanto in questo film di Pavel Lounguine.
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