La prima sortita all’estero del presidente del Consiglio, Mario Draghi, è stata in Libia, dove ha incontrato il premier provvisorio Abdul Hamid Dbeibah messo a capo del governo di unità nazionale che dovrà governare il paese fino alle elezioni previste in dicembre.
Il nuovo governo si è insediato solo lo scorso 15 marzo con un giuramento che doveva avvenire a Bengasi ed invece è avvenuto a Tobruk. Il presidente transitorio Dbeibah è un uomo d’affari di Misurata, ossia la città libica che dispone di proprie milizie ed ha una storica vocazione a essere indipendente. Non a caso a Misurata c’è un ospedale da campo italiano in cui sono presenti più militari che infermieri. Le milizie di Misurata nella guerra civile si sono spesso mosse per conto loro e solo nell’ultima fase si sono schierate con il governo Tripoli invece che con quello di Tobruk.
I dossier sul tavolo tra Italia e Libia restano numerosi e rognosi: dai rapporti economici al controllo dei flussi migratori.
“Abbiamo parlato della nostra collaborazione in campo progettuale con precisi riferimenti alle infrastrutture civili, in campo energetico, sanitario, culturale. Si vuole fare di questa partnership una guida per il futuro nel rispetto della piena sovranità libica” ha detto Draghi nella conferenza stampa finale sottolineando come “C’è la volontà di riportare l’interscambio economico e culturale ai livelli di 5-6 anni fa”.
In questa scansione temporale si intravedono già due dei problemi. Dieci anni fa, prima della violenta deposizione di Gheddafi da parte delle potenze occidentali, l’interscambio economico tra l’Italia e l’ex colonia era elevatissimo, regolati da quel Trattato di amicizia del 2008 che l’Italia buttò nel cestino assecondando e partecipando ai bombardamenti Nato contro la Libia nel 2011.
Dopo il golpe e la destabilizzazione che ne è derivata, gli affari italiani avevano tenuto ma poi erano crollati, sia per la guerra civile dilagante in Libia sia per le numerose posizioni di rendita perdute “dall’imperialismo de noantri”. Negli ultimi cinque/sei anni l’interscambio era limitato alla difesa dei giacimenti petroliferi dell’Eni e ai finanziamenti ufficiali – e non ufficiali – relativi al blocco delle partenze dei migranti dalle coste libiche.
Non solo. L’Italia ha al suo attivo anche qualche pesante incidente sul territorio libico. Il 20 novembre del 2019 un drone militare italiano venne abbattuto dalle milizie del gen. Haftar a 70 km a sud di Tripoli mentre sorvolava le loro postazioni. La versione del Ministero della Difesa fu abbastanza ridicola. Parlava di un drone impegnato nell’operazione Mare Sicuro, ma che in realtà stava sorvolando ben in profondità l’entroterra libico in uno dei momenti di massimo scontro militare tra Haftar e il governo di Tripoli.
Dal punto di vista geopolitico, il viaggio di Draghi in Libia secondo l’Ispi (Istituto di Studi Politica Internazionale) ha l’obiettivo di “rilanciare il ruolo dell’Italia nel paese, oscurato dall’influente presenza turca in Tripolitania e da quella russa in Cirenaica”. Ma in questo schema viene trascurato il ruolo avuto in questi dieci anni dalla Francia nel cercare di sottrarre la Libia all’influenza italiana. Una competizione interna alle potenze europee che sembra essere stata ricomposta con la missione unitaria dei ministri degli esteri italiano, francese e tedesco in Libia poche settimane fa.
Secondo la rivista Limes l’obiettivo dell’Italia è quello di “strutturare il ritorno della presenza italiana nel “grande gioco libico” grazie alla prospettiva della cooperazione in campo sanitario, energetico e soprattutto infrastrutturale con Tripoli, leve con cui Roma può ragionevolmente sperare di ritagliarsi un margine d’azione in Nord Africa. Con l’obiettivo di sostenere il neonato governo di unità nazionale libico e riportare l’Italia a contare lungo la sponda meridionale del Mediterraneo”.
Ma, secondo Il Sole 24 Ore, l’Italia in Libia dovrà fare i conti con diversi competitori. Se sul piano delle forniture energetiche l’Eni è riuscita in gran parte a mantenere le proprie posizioni, sul piano della ricostruzione di un paese distrutto da dieci anni di guerra civile dovrà competere soprattutto con la Turchia e con l’Egitto. “Perché saranno probabilmente le imprese turche a fare incetta di molti contratti in Tripolitania, non solo nel settore residenziale, dove non hanno quasi concorrenza, ma anche in altri settori strategici. E quelle egiziane in Cirenaica” scrive il quotidiano economico.
Rimane scoperto da questa spartizione il desertico e turbolento Fezzan, la parte meridionale della Libia al confine con il Niger, il Ciad e l’Algeria, una sorta di “terra di nessuno”, dove ci sono diversi pozzi dell’Eni, ma è anche un confine poroso per le milizie jiahdiste nel Niger. Ma qui, non a caso, l’Italia si è già posizionata con un contingente militare che collabora con quello francese.
Sul dossier migranti Draghi invece è scivolato pesantemente: “Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi, nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia. Ma il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario e in questo senso l’Italia è uno dei pochi Paesi che tiene attivi i corridoi umanitari”.
Parole che hanno suscitato reazioni indignate di molti. Medici senza frontiere ha commentato le parole di Draghi, con un tweet: “Un salvataggio in mare si conclude solo all’arrivo in un porto sicuro. Se migranti e rifugiati vengono riportati in #Libia si tratta di una condanna alla violenza e alla brutalità nei centri di detenzione. C’è poco da essere soddisfatti #MarioDraghi”.
“Fino ad ora Tripoli ha ottenuto da Roma e dall’Ue centinaia di milioni solo per la cosiddetta guardia costiera, suddivisa in svariate polizie marittime, il cui ruolo è contestato soprattutto dalle organizzazioni internazionali e dalle Nazioni Unite” – rammenta un articolo de L’Avvenire – “Di recente si è affermata una nuova sigla, i guardacoste del “Gacs”, una milizia del mare che risponde al ministero dell’Interno e i cui ufficiali vengono addestrati anche dalla Guardia di finanza italiana a Gaeta”.
Nel memorandum d’intesa tra Italia e Libia, preparato da febbraio e discusso soprattutto nelle due recenti visite ravvicinate di Di Maio nel paese, si parla in punta di penna dei problemi relativi ai campi di detenzione in cui vengono rinchiusi e brutalizzati migliaia di migranti in attesa di imbarcarsi verso le coste italiane.
In qualche modo viene riconosciuto che il traffico di esseri umani è una fonte di entrate per intere aree della Libia, tant’è che viene proposto di “avviare programmi di sviluppo, attraverso iniziative capaci di creare opportunità lavorative “sostitutrici di reddito”(sic!) nelle regioni libiche colpite dai fenomeni dell’immigrazione irregolare, traffico di esseri umani e contrabbando”.
L’Italia chiede “il pieno e incondizionato accesso agli operatori umanitari, che potranno rafforzare l’attività di assistenza umanitaria a favore dei migranti e delle comunità ospitanti”. E chiede anche la “progressiva chiusura dei centri non ufficiali in cui sono trattenuti i migranti irregolari”. I campi di detenzione gestiti direttamente dalle milizie e dai trafficanti di uomini vengono definiti centri “non ufficiali” e viene anche chiesta “l’esclusione dai centri del personale che non abbia adeguate credenziali in materia di diritti umani”.
Insomma con la visita di Draghi, l’Italia sembra volersi reinserire a tutto tondo nel “Grande Gioco” in Libia, un paese da sempre nella sfera d’influenza della vocazione mediterranea del colonialismo e del neocolonialismo italiano. Lo farà con gli affari – quelli consolidati e quelli da contendere agli altri competitori – ma anche con gli scarponi sul terreno. I militari italiani sono da anni a Misurata, ufficialmente per proteggere un ospedale. Ma soldati italiani sono anche ai confini sud della Libia, in Niger.
Da qui a dicembre le cose potrebbero anche andare bene, ma sugli assetti definitivi la partita è ancora tutta da giocare e in Libia l’Italia ormai “non balla più da sola”.
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