Arrestato a Milano il 4 aprile del 1981, dopo una trappola tesa in
realtà ad Enrico Fenzi da un ex detenuto divenuto informatore della
polizia, Mario Moretti, 75 anni compiuti il 16 gennaio 2021, ha
raggiunto il suo quarantesimo anno di esecuzione pena. È l’unico membro
del nucleo storico e del comitato esecutivo delle Brigate rosse ad
essere ancora in carcere, in regime di semilibertà, misura ottenuta nel
1997 e che ha visto in questi anni chiusure, riaperture, restrizioni.
Una
circostanza che da sola dovrebbe fare giustizia dell’accusa che da più
parti gli viene mossa di essere stato un infiltrato all’interno delle
Brigate rosse. Nel corso dei decenni trascorsi è stata costruita sulla
sua persona una leggenda nera che lo rappresenta come una figura
ambigua, un doppiogiochista che ha operato per conto di imprecisati
Servizi segreti la cui nazionalità, o campo di appartenenza, varia di
volta in volta secondo le opinioni e gli schieramenti dei suoi
accusatori. Nonostante la presenza di una ricca pubblicistica e
filmografia che lo rappresenta in questo modo, prove anche minime di
queste affermazioni non ne esistono. Ma in questi casi non servono,
basta il brusio di fondo, il gioco di specchi e di echi reciproci dove
il rimbalzo delle parole dell’uno e dell’altro diventa fonte del vero.
Una macchina del fango a cui basta inchiodare la persona al sospetto,
all’illazione, alla congettura.
Le diffamazioni del «Mega»
A puntare il dito contro di lui, trasformando la dialettica politica, la diversità di punti vista sul modo di fare la lotta armata in attacchi alla purezza e integrità politica personale, sono stati all’inizio due suoi ex compagni. Alberto Franceschini e Giorgio Semeria, membri del nucleo storico delle Br, con grande disinvoltura gli attribuirono la responsabilità dei loro arresti chiedendo agli altri membri dell’Esecutivo esterno di aprire un’inchiesta nei suoi confronti. Indagine che venne svolta con molta discrezione da Lauro Azzolini e Franco Bonisoli, ma non da Rocco Micaletto che della iniziativa non fu messo al corrente, e appurò l’infondatezza dei sospetti. I due dirigenti reggiani delle Br risposero che nulla di irregolare era emerso sulla condotta di Moretti. Ma la cosa non finì lì, il sospetto, divenuto un rovello ossessivo fino a sfociare in un delirio paranoico, lavorò nella testa di Franceschini e Semeria: durante la stagione delle torture e dei pestaggi praticati dalle forze di polizia sui militanti appena catturati, i due decretarono la caccia ai «traditori» ai quali erano state estorte dichiarazioni con l’uso della forza. In un clima di caccia alle streghe, dove le divergenze d’opinione, una diversa linea politica, il mancato allineamento alle tesi del «Mega», soprannome con cui Franceschini amava farsi chiamare con deferenza nelle carceri speciali, veniva immediatamente tacciata di «resa» al nemico, «tradimento» e «infamità», un piano inclinato che portò Semeria a macchiarsi dell’omicidio di Giorgio Soldati. Proveniente da Prima Linea, gruppo ormai in dissoluzione, il 12 novembre 1981 Soldati venne catturato insieme a Nando Della Corte all’interno della stazione centrale di Milano dopo un conflitto a fuoco nel quale trovò la morte un poliziotto. I due stavano allacciando rapporti con il Partito Guerriglia, formazione distaccatasi dalle Br e che dal carcere Franceschini e Semeria avevano sponsorizzato per sabotare la gestione politica delle Br incarnata proprio da Moretti. In questura, dopo un interrogatorio violento, Della Corte cominciò a collaborare, mentre a Soldati vennero estorte solo delle dichiarazioni. Giunto nel carcere di Cuneo, Franceschini e Semeria lo processarono. Abbagliati da un’allucinatoria fuga dalla realtà ritenevano che le ammissioni rese non erano parole estorte con la forza ma la prova di una resa politica, un segno di imborghesimento, un tradimento della causa.
L’arrivo del bugiardo di Stato
Terminati gli anni del furore purificatorio e clamorosamente sconfitta, tra pentimenti e torture, l’esperienza del Partito Guerriglia su cui avevano scommesso tutte le loro carte, Franceschini e Semeria si avviarono sulla strada della dissociazione. Questa nuova postura tuttavia non ha modificato il loro male di vivere, l’impasto di risentimento e frustrazione che li ha spinti, nel più classico dei transfert, ad esportare sugli altri responsabilità e fallimenti personali. Ne approfittarono per acquisire vantaggi premiali in cambio di una narrazione della loro esperienza militante subordinata agli interessi di apparati politici che fuori dal carcere li accolsero a braccia aperte. Alle abituali sentenze di morte sostituirono l’arma raffinata della diffamazione che trovava nel senatore Sergio Flamigni (Pci-Pds e successivi) un abile divulgatore. Più volte membro delle diverse commissioni parlamentari che hanno indagato sulla vicenda Moro, Il suo volume, La sfinge delle Brigate rosse. Delitti, segreti e bugie del capo terrorista Mario Moretti, scritto per le edizioni Kaos nel 2004, raccoglie, rielabora e amplifica sotto forma di biografia nera le congetture di Franceschini contro Moretti. Quella di Flamigni è un’ossessione dichiarata, un «fatto personale», come scrive in appendice al suo volume, ma anche redditizia sul piano della notorietà e della carriera politico-parlamentare, con relativi benefit annessi. Pierluigi Zuffada, un brigatista della prima ora, formatosi all’interno della Sit-Siemens, spiega così il ritorno all’ovile di Franceschini: «Grazie al Pci di allora ha trovato una collocazione sociale e lavorativa in seguito alla sua dissociazione. Ma per portare acqua al suo mulino, Franceschini sa bene che doveva dare qualcosa in più. E il “qualcosa in più” fa parte proprio della sua personalità: lui si considerava il più intelligente e ... il più furbo, proprio così. E conoscendo i suoi polli, sapendo che la sola dissociazione non era poi la carta definitiva da giocare, ecco che trova la via maestra da percorrere tutta, insieme a Flamigni e soci: grazie alla veste politica e culturale del “redento”, inizia a suggerire argomenti che sicuramente avrebbero fatto presa nei suoi interlocutori, a rafforzare cioè la ricerca e di chi sta dietro alle “sedicenti”, o “cosiddette” Brigate Rosse. La risposta per Franceschini è semplice: ma sicuramente Moretti. Poiché è difficile sostenere che Moretti sia al servizio del Kgb o della Cia, Franceschini insiste su una presunta ambiguità del “capo”, lasciando poi ai suoi interlocutori/padroni il compito di ricamarci a dovere, cosa di cui sono veramente abili»1.
Il percorso politico-sindacale di Moretti
Nato a porto San Giorgio nelle Marche, orfano minorenne di padre in una famiglia con altri tre figli e una madre in difficoltà per crescerli, Moretti frequenta un convitto di salesiani a Fermo dove termina gli studi per raggiungere Milano grazie all’interessamento della marchesa Casati, sollecitata da una sua zia che aveva una portineria in un palazzo milanese della nobildonna. Questa vita di provincia è dipinta da Flamigni con toni foschi, Moretti viene descritto come un predestinato, un giovane «di destra» cresciuto in un «humus clericale» che dovrà infiltrare la sinistra (sic!), solo perché arriva alla politica e alla militanza rivoluzionaria a 22 anni, nella Milano del 1968-69, come tanti suoi coetanei. Anche il passaggio all’università Cattolica, l’unica che consentiva in quegli anni di frequentare corsi serali ad uno studente lavoratore come Moretti, che con il suo stipendio sostiene l’anziana madre e i tre fratelli, diviene la prova della sua ambiguità culturale, anche se in quella università con l’occupazione del novembre 1967 si manifestò uno degli eventi anticipatori della rivolta del 1968. In quella stessa università fece i suoi studi anche Nilde Jotti, ma a quanto pare per lei la regola di Flamigni non vale. Nemmeno la formazione politico-sindacale all’interno della Sit-Siemens, azienda che impiegava alla catena di montaggio tecnici diplomati come il giovane Moretti, placa il pregiudizio di Flamigni2. Anche il ruolo d’avanguardia nelle lotte all’interno della fabbrica, insieme a Gaio Di Silvestro e Ivano Prati, e che porta alla nascita del Gruppo di studio impiegati, contemporaneo alla formazione del primo Cub Pirelli, che poi si trasformerà nel Gruppo di studio operai-impiegati, «esperimento – racconterà lo stesso Moretti – di organizzazione autonoma dei lavoratori in fabbrica, tra il sindacato e la politica, tra la critica al modo di produzione capitalistico e il sogno di una progettualità democratica, rivoluzionaria»3, è per Flamigni motivo di maldicenza, ottusa dimostrazione della inadeguatezza culturale di un funzionario del Pci di fronte a quel che avveniva nelle fabbriche di quegli anni.
Gli arresti di Pinerolo
Ispirato
dalle accuse di Franceschini, Flamigni rincara la dose attribuendo a
Moretti responsabilità dirette nel primo arresto di Curcio e dello
stesso Franceschini 4.
Ma a smentire i due sono le stesse parole di Curcio e quelle di
Pierluigi Zuffada. Alberto Franceschini sa perfettamente di essere il
primo responsabile della propria cattura. Non doveva trovarsi a Pinerolo
con Curcio e Moretti nemmeno sapeva della sua presenza all’appuntamento
con “Frate Mitra”, glielo dirà Mara Cagol dopo il disperato tentativo
di intercettare i due lungo la strada per Pinerolo. I tre si erano visti
a Parma il sabato 7 settembre 1974, dove c’era un appartamento in cui
si tenevano gli incontri del «Nazionale». Era definita così, in quella
fase in cui non esisteva ancora un Esecutivo formalizzato, la sede di
coordinamento tra le varie colonne. A Milano operava Moretti, a Torino
Margherita Cagol e Curcio, Franceschini era sceso a Roma con altri
membri del gruppo, Bonavita e Pelli. Terminata la riunione nel tardo
pomeriggio, Moretti rientra a Milano. Sa che Curcio il giorno successivo
dovrà rivedere per la terza volta Girotto a Pinerolo. Lo raggiungerà
direttamente da Parma dove resterà a dormire mentre Franceschini sarebbe
rientrato a Roma. In realtà, mutando i programmi stabiliti,
Franceschini non va a Roma ma accompagna Curcio a Torino. I due poi la
domenica partono per Pinerolo. Il venerdì sera era arrivata una
telefonata ad Enrico Levati, un medico del gruppo di Borgomanero, vicino
Novara, che aveva contatti periferici con le Br. Nella telefonata un
anonimo diceva che la domenica successiva Renato Curcio sarebbe stato
arrestato all’appuntamento con Girotto. Levati raggiunse Milano ma ebbe
grosse difficoltà per riuscire a trovare il contatto giusto negli
ambienti delle fabbriche milanesi e far pervenire l’informazione. Quando
questa arrivò alle Br, Moretti aveva già lasciato Milano per Parma. Al
suo rientro trovò ad attenderlo con la notizia Attilio Casaletti, membro
della colonna milanese. Sicuro di trovare ancora Curcio, Moretti fece
ritorno a Parma dove arrivò intorno alle 22 insieme a Casaletti, ma non
trovò nessuno nella base. A questo punto, racconta Curcio, «Moretti
tenta di rintracciarmi nella mia casa di Torino, dove era venuto una
volta, ma non ricorda l’indirizzo e neppure sa come fare ad arrivarci.
Allora prova a ripescare Margherita, che doveva trovarsi in un’altra
casa, ma anche lei era appena partita per non so dove. Come ultima
possibilità convoca, in piena notte di sabato, un gruppo di compagni di
Milano e gli dice di creare dei “posti di blocco” sulle strade tra
Torino e Pinerolo»5.
Tentativo che Moretti racconta in questo modo: «andiamo sulla strada
per Pinerolo, separandoci sui due percorsi che portano a quella
cittadina, e ci mettiamo nel bordo sperando che Curcio ci noti mentre
passa»6. Zuffada
aggiunge altri dettagli: «i compagni partano per l’Astigiano per
avvisare Mara, che conosce l’abitazione di Renato, ma non la trovano.
Pensano che sia a Torino a casa di Renato, per cui da lì vanno a Torino
per cercarli, sperando che un contatto del luogo potesse conoscere
l’abitazione di Renato. Non trovano il contatto, e in quel momento Mario
e i due compagni prendono una decisione folle, anche perché era
arrivata la mattina: vanno sul luogo dell’appuntamento a Pinerolo nella
speranza di avvisare Renato prima dell’incontro con Girotto, rischiando
di cadere anch’essi nella trappola. Pensavano che ad accompagnarlo fosse
Mara, non certo che Franceschini fosse presente all’appuntamento. Si
accorgono di una situazione strana, nel senso che il luogo pullula di
agenti in borghese. La trappola era già scattata, i compagni riescono a
svignarsela»7.
Conclude Curcio, «Moretti non sapeva che non avevo viaggiato sulle
strade statali, ma su strade bianche e percorsi miei che non rivelavo a
nessuno. Dunque tutti i tentativi di raggiungermi vanno a vuoto»8.
Zuffada
e Moretti, smentendo Flamigni, sostengono che sulla figura di Girotto, a
parte Curcio, ci fosse nel gruppo una perplessità generale, in
particolare della Cagol. Secondo i piani di Curcio, l’ex frate avrebbe
dovuto essere inserito nel fronte logistico in costituzione. Diffidenza
rimasta anche dopo il secondo incontro a cui partecipò lo stesso Moretti
(presidiato da un folto gruppo di brigatisti che controllavano la zona
in armi, dissuadendo così le forze di Dalla Chiesa dall’intervenire).
L’arruolamento programmato di Girotto derogava una regola ferrea,
spiegherà successivamente Moretti: «nelle Br si arriva dopo una
militanza nel movimento, sperimentata e verificata. Per Girotto non
poteva essere così. Decidemmo almeno di essere rigidissimi sulla
compartimentazione. Stabilimmo che avrebbe lavorato solo con Curcio in
una struttura periferica, alla cascina Spiotta»9.
Sulle successive recriminazioni di Franceschini, Zuffada fornisce
alcune chiavi di lettura interessanti: «A partire dalla liberazione di
Renato [nel carcere di Casale Monferrato, Ndr], Franceschini ha
iniziato a imputare a Mario di non essere andato a liberarlo: la sua
“visione” su Moretti è stata rafforzata dall’aver preferito Renato a
lui. Non poteva prendersela con Mara, conoscendo bene come era fatta:
lei non gliela avrebbe mai fatta passare. Si può dire che Franceschini
abbia tratto un vantaggio dalla morte di Mara, nel senso che si è
trovato un testimone in meno per contrastare la sua versione»10.
Il secondo arresto di Curcio, la trappola contro Semeria e il delatore interno alla colonna veneta
Alcuni documenti recentemente desecretati e la testimonianza del giudice Carlo Mastelloni hanno permesso di ricostruire i retroscena che portarono al secondo arresto di Curcio nella base di via Maderno a Milano, il 18 gennaio del 1976, insieme a Nadia Mantovani, all’arresto nella stessa operazione di Angelo Basone, Vincenzo Guagliardo e di Silvia Rossi, moglie di quest’ultimo che però era estranea al gruppo. Le stesse fonti hanno permesso di ricostruire anche il nome di chi portò alla trappola tesa a Giorgio Semeria due mesi dopo, il 22 marzo 1976, sulla pensilina del rapido Venezia-Torino nella stazione centrale di Milano. Semeria provò a scendere dal treno ancora in movimento ma venne catturato e colpito al torace dal brigadiere Atzori quando era già stato immobilizzato. Il tentativo di omicidio nei suoi confronti spinse Semeria, allora responsabile del logistico nella colonna milanese, a ritenere che lo si volesse uccidere per coprire l’infiltrato che lo aveva venduto. In carcere, rimuginando insieme a Franceschini sulle circostanze dell’arresto, non trovò di meglio che indirizzare i sospetti contro Moretti, con il quale avrebbe dovuto incontrarsi il giorno successivo, chiedendo all’esecutivo di indagare su di lui. Accuse riprese da Flamigni nella sua monografia dedicata a Moretti11. Il delatore era, in realtà, un operaio veneto presente nella colonna fin dai suoi inizi e che lo aveva accompagnato alla stazione di Mestre, dove Semeria si era recato per rimettere in piedi la struttura locale. Secondo quanto riferito dal giudice Carlo Mastelloni nel suo libro Cuore di Stato, Semeria una volta in carcere fu avvertito dei sospetti che pesavano sull’operaio: due militanti veneti, Galati e Fasoli, che stavano per uscire dal carcere per scadenza dei termini di custodia cautelare, gli chiesero «di poter fare gli accertamenti del caso e colpire il presunto traditore». Semeria si oppose convinto che semmai l’operaio avesse avuto un ruolo, questi faceva parte di una rete di infiltrati che faceva capo a Moretti12. L’operaio venne arrestato da Mastelloni nel corso delle indagini sulla colonna veneta, «Ricordo – scrive Mastelloni – che qualche giorno dopo si precipitò nel mio ufficio per ottenere informazioni il colonnello Bottallo, capocentro a Padova del Sismi, già appartenente al vecchio Sid». Subito dopo questo intervento l’uomo venne rimesso in libertà13. In un appunto del generale Paolo Scriccia, consulente della Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, si può leggere che l’11 maggio 1993, nel corso di un esame testimoniale condotto dai pubblici ministeri romani Ionta e Salvi, il generale Nicolò Bozzo, collaboratore per il centro-nord del generale Dalla Chiesa, rivelò il nome di questo confidente: «ho notizia di un altro infiltrato nelle Brigate rosse e specificatamente di questo Tovo Maurizio che portò alla cattura di Curcio nel 1976 unitamente a Semeria Giorgio, Nadia Mantovani e Basone Angelo». Sempre nello stesso appunto troviamo un’altra testimonianza resa in commissione Stragi, il 21 gennaio del 1998, dove il generale Bozzo precisa: «noi abbiamo avuto un infiltrato, un certo Tovo Maurizio di Padova, nel 1975/1976. Questo Tovo Maurizio, Tovo o Lovo – io non l’ho mai visto e non ricordo bene – era una fonte del centro Sid di Padova. Il Sid, nella persona del generale Romeo. […] Seguendo questo soggetto siamo arrivati alla Mantovani, seguendo la Mantovani siamo arrivati al covo di via Maderno numero 10 [5 Ndr], dove la sera del 18 gennaio 1976 c’è stata un’irruzione, un conflitto a fuoco. Ferito Curcio e ferito gravemente il vicebrigadiere Prati. Sono stati catturati in due, Curcio e Mantovani. Da allora sono cessati gli infiltrati»14. In altri documenti dell’Aise, citati da Scriccia, si legge che l’infiltrato era indicato come fonte «Frillo». Nel l’ottobre 1990, sempre il generale Bozzo aveva rivelato in un altro interrogatorio che per quanto riguarda il Nord, i Carabinieri avevano avuto nel corso di tutta la loro attività di contrasto alle Brigate rosse, «solo tre infiltrati, tutti interni o fiancheggiatori, nessuno dei quali militare». Questi erano: «Silvano Girotto, nonché altri due, uno di Padova e uno della zona di Torino, i cui nomi sono noti ai magistrati che si interessarono delle relative vicende». Fonti – aggiunge Bozzo – che hanno collaborato «nell’anno 1974 (Girotto), nell’anno 1975/76 (quello di Padova) e nel 1979/80 (quello di Torino)». In realtà a Girotto non venne dato il tempo di infiltrarsi ma fu impiegato unicamente come esca. Dell’infiltrato torinese, parla invece il giudice Mastelloni nel suo libro: si trattava anche qui di un operaio della Fiat proveniente dal Pci che nel dicembre 1980 fece arrestare Nadia Ponti e Vincenzo Guagliardo, tornati a Torino per riorganizzare la colonna distrutta dalla collaborazione di Peci con i carabinieri di Dalla Chiesa. Contattato dalla staff di Dalla Chiesa – scrive Mastelloni – «l’uomo si accordò con i militari dietro promessa di un forte compenso economico per consegnare i due militanti clandestini, puntualmente bloccati all’interno di un bar del centro»15.
Note
1. Pierluigi Zuffada, Le bugie di Alberto Franceschini, https://insorgenze.net/2020/08/03/le-bugie-di-alberto-franceschini/, 3 agosto 2020.
2. Sergio Flamigni, La sfinge delle Brigate rosse, Kaos 2004, pp. 7-32.
3. Mario Moretti, Brigate rosse, una storia italiana, prima edizione Anabasi p. 7.
4. Sergio Flamigni, Idem, pp. 138-142.
5. Renato Curcio, A viso aperto, Mondadori 1993, p. 103-104.
6. M. Moretti, Idem, p. 76.
7. Pierluigi Zuffada, Idem, 3 agosto 2020.
8. R. Curcio, Idem, p. 104.
9. M. Moretti, Idem, p. 73-74.
10. Pierluigi Zuffada, Idem,
3 agosto 2020: «La liberazione è stata decisa dall’Esecutivo
dell’organizzazione all’interno di un programma per la liberazione dei
compagni dalle galere. L’inchiesta ha portato a scegliere il carcere di
Casale Monferrato come primo obiettivo, e tale scelta è stata imposta
dalle allora capacità operative dell’Organizzazione, soprattutto
dall’inesperienza nell’assaltare un carcere. Nella decisione di
scegliere Casale hanno pesato soprattutto le argomentazioni di “Mara”
Cagol. In contemporanea era stata fatta un’inchiesta sul carcere di
Saluzzo, dove Franceschini era recluso, e addirittura in seguito al suo
trasferimento a Pianosa, Moretti ha portato avanti inchieste per
pianificare un’evasione da Pianosa. Da notare che Franceschini si è
fatto beccare sul tetto di quel carcere durante una ricognizione per
scappare, vanificando di fatto tutto il progetto di fuga. Se non ricordo
male, né lui, né i suoi compagni di cella sono mai stati incriminati
per tentata evasione, o danneggiamento delle sbarre della finestra. Ma
ritornando a Casale, nella fase di pianificazione dell’azione sono stati
evidenziati errori “tecnici”, per il superamento di uno di questi io
sono stato chiamato da Mario Moretti: una volta corretto, ho insistito
per parteciparvi attivamente, e in seguito processato e condannato».
11. Sergio Flamigni, Idem, 162-164.
12. Carlo Mastelloni, Cuore di Stato, Mondadori 2017, p. 223.
13. Ibidem, p. 223.
14. CM Moro 2, Doc 799/3 del 2 novembre 2016, Appunto del generale Paolo Scriccia, declassificato il 2 febbraio 2018.
15. Carlo Mastelloni, Idem, pp. 103-104.
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