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06/07/2022

Crolla la bilancia commerciale tedesca, trema l’Unione Europea


Il Financial Times – giornale economico di portata mondiale – ha messo questa notizia in prima e col titolo a tutta pagina: La Germania accusa il primo deficit commerciale dal 1991. Sui media generalisti italiani si fatica a trovarne traccia, bisogna andare per forza sui giornali economici.

E qui si possono finalmente apprendere una serie di dati che illuminano l’intreccio complesso tra scelte politiche passate, abitudini imprenditoriali perverse, rapporti pericolosi tra economie diverse.

Il tracollo della bilancia commerciale tedesca è stato infatti improvviso e verticale, non un lento declino dovuto a fattori diversi. Il grafico è impietoso. Appena 1 miliardo in deficit, ma se vieni da surplus oscillanti tra i 1.500 e i 2.500 miliardi, la differenza è clamorosa.

Il problema sistemico è che ovviamente la Germania è l’economia-pivot dell’Europa, quella che più aveva beneficiato del tipo di costruzione dell’Unione Europea per ridisegnare le filiere produttive, riducendo parecchia aree industriali del Vecchio Continente a propri “contoterzisti”. Ossia industrie-satelliti delle capofila di Berlino.

Se la “locomotiva” va in tilt, il resto del treno non può che fare la stessa fine, o comunque non può che subirne il contraccolpo.

La bilancia commerciale è il rapporto tra importazione ed esportazioni di un paese; e sappiamo che il “modello mercantilista” imposto da Berlino a tutta la UE comporta che siano le esportazioni a fare da traino all’economia, grazie al know how ma soprattutto grazie ai bassi salari.

Così quando questo giocattolo si rompe, e le esportazioni scendono sotto il livello delle importazioni, non c’è nessuna alternativa – la domanda interna, in primo luogo – che possa compensare le perdite. Se i salari sono bassi, infatti, i consumi interni non possono “trainare” alcunché.

Naturalmente, bisogna guardare a quali esportazioni sono crollate e quali importazioni sono cresciute, e verso quali partner internazionali, altrimenti anche questa constatazione non fornisce indicazioni illuminanti.

Nei confronti dei Paesi dell’Unione Europea (quelli su cui l’economia tedesca esercita una oggettiva egemonia) il saldo congiunturale è stato ancora positivo per 5,7 miliardi, mostrando un calo dell’export del 2,8% e un aumento dell’import del 2,5%.

E anche la pandemia ha avuto conseguenze diverse sui due piatti della bilancia: dopo i lockdown le esportazioni sono, sì, risalite (+11,7% in un anno), ma le importazioni hanno fatto lo stesso per il 27,8%. Oltre il doppio.

Ma è nei confronti dei paesi extraeuropei che il bilancio è totalmente negativo. E bisogna ricordare che proprio questo ambito era quello privilegiato per il “mercantilismo” teutonico.

E se in direzione degli Stati Uniti la bilancia è ancora positiva per 6,7 miliardi, nei confronti della Russia il dato è catastrofico: le esportazioni si sono ridotte di un terzo rispetto all’anno scorso (-29,8%), l’import si è più che dimezzato (-54,5%).

Questa è la prova provata che le “sanzioni” – volute dagli USA e accettate con disarmante idiozia da parte della UE – sono un boomerang che sta colpendo il cuore dell’economia europea.

Se infatti teniamo presente il “merito” dello scambio commerciale con Mosca, si vede che lo stop alle esportazioni verso quel paese blocca la crescita dell’industria continentale (che dipende fortemente dalle filiere produttive tedesche), al tempo stesso priva l’Europa delle risorse energetiche fondamentali, aggravando così la situazione critica.

Di più: una dinamica simile si registra verso i paesi europei “extra-euro”, come la Gran Bretagna e alcuni paesi dell’Est, grazie anche all’indebolimento della moneta unica (aumenta il costo delle importazioni e diminuisce il tasso di profitto delle esportazioni).

Su tutto lo scenario emerge infatti il rafforzamento del dollaro statunitense, trainato dal rapido aumento dei tassi di interesse (che attirano capitali dall’Europa verso Wall Street e i treasury statunitensi), che rende certo più “competitive” le merci europee, ma moltiplica all’infinito il costo in salita delle materie prime energetiche, tutte provenienti da fuori Europa (e che in larga parte si pagano in dollari).

In passato la stessa situazione era stata risolta in modo piuttosto “imperialistico”. Il 22 settembre 1985 i ministri finanziari e i banchieri centrali dei Paesi dell’allora G5 (Francia, Giappone, Gran Bretagna, Repubblica federale tedesca, Stati Uniti), oltre al Canada, vennero convocati per un vertice all’Hotel Plaza a New York.

Lì venne loro di fatto imposto di intervenire sui tassi di cambio delle rispettive monete in modo da impedire ulteriori apprezzamenti del dollaro. In pratica, gli Stati Uniti imponevano agli altri paesi industrializzati di allora (poi arrivò anche l’Italia, e il G5 divenne G7) di farsi carico della propria crisi, riducendo drasticamente le proprie esportazioni verso gli Usa (per via di un cambio molto più sfavorevole).

Per le importazioni allora gli Stati Uniti si rivolsero alla Cina, in primo luogo, contribuendo in prima persona all’enorme sviluppo industriale di Pechino, che da allora in poi è cresciuta al ritmo di oltre il 10% l’anno, rallentando soltanto negli ultimi anni e “grazie” anche al Covid...

Impensabile che nella nuova situazione si possa fare altrettanto. Anche perché tutto il mondo sa – e anche gli europei che si stanno massacrando da soli con le sanzioni alla Russia – che tra quattro mesi, a novembre, le lezioni di Midterm potrebbero consegnarci degli Stati Uniti piuttosto diversi.

Di nuovo trumpiani, reazionari e avvelenati come la Corte Suprema sull’aborto, ma proprio per questo fuori da ogni disegno razionale di governo del pianeta.

Tempi duri, per il neoliberismo occidentale...

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