Prima la pandemia, poi la guerra e ora l’inflazione stanno gettando l’Europa in una crisi non solo economica e politica, ma anche sociale. Il caso più macroscopico è quello della Gran Bretagna, dove a catalizzare l’attenzione è la parabola grottesca di Boris Johnson (costretto a dimettersi per la sua inclinazione a vivere come un satiro), ma la realtà storica è ben più drammatica. Oltremanica l’inflazione ha già abbattuto il tetto del 9%, innescando lunedì scorso un primo sciopero contro il rincaro della benzina. Non solo: il sindacato dei macchinisti ha indetto un referendum tra gli iscritti per far approvare una serie di scioperi nazionali (che sarebbero i primi dal 1995, in un Paese dove gli stipendi sono fermi da tre anni).
E se nel Regno Unito l’equilibrio si fa sempre più instabile, in Francia la tensione è già esplosa. La settimana scorsa le agitazioni dei lavoratori hanno paralizzato per giorni l’aeroporto parigino Charles De Gaulle, dove nell’arco di 24 ore le file ai check-in hanno raggiunto la lunghezza impensabile di due chilometri e mezzo. Allo stesso tempo, lo sciopero dei ferrovieri della Sncf ha mandato in tilt il traffico dei treni ad alta velocità, degli Intercity e dei regionali usati pendolari. E la situazione non sembra poter rientrare a breve, visto che l’azienda ha proposto aumenti salariali tra il 2,2 e il 3,7%, mentre i sindacati chiedono almeno il doppio, per allineare le retribuzioni all’inflazione (che in Francia è al 6,5%). Un bel problema per il presidente Emmanuel Macron, che rischia di ritrovarsi ancora una volta a fronteggiare i gilet gialli o chi per loro.
A livello politico, comunque, la situazione più instabile sembra essere quella della Bulgaria, dove il partito liberale non è riuscito a trovare una maggioranza in parlamento per formare un governo e il suo leader ha rimesso venerdì il mandato al presidente Rumen Radev, avvicinando il Paese a nuove elezioni, le quarte in poco più di un anno, che potrebbero portare a una maggiore rappresentanza di gruppi nazionalisti e filorussi in parlamento. “Non siamo riusciti a ottenere il sostegno necessario per liberare la Bulgaria dalla corruzione e far sì che lo Stato lavori per i cittadini, invece di convogliare il denaro dei contribuenti in poche aziende selezionate che possono usarlo per corrompere la classe politica”, ha dichiarato il primo ministro designato.
In termini di scontro sociale, invece, lo scenario più fosco sembra al momento quello dei Paesi Bassi. Qui la settimana scorsa un oceano di agricoltori ha paralizzato il Paese con mucche e trattori in segno di protesta contro la decisione del governo di imporre loro entro il 2030 il dimezzamento delle emissioni di ossido di azoto e ammoniaca. Risultato: nelle campagne la circolazione si è bloccata, mentre in città non sono arrivati rifornimenti ai supermercati. E nel frattempo, per le stesse ragioni degli agricoltori, i pescatori di gamberi hanno occupato il porto di Harlingen. Tutto questo è particolarmente significativo perché anticipa nel settore primario una spaccatura che ben presto potrebbe aprirsi in tutta Europa nel secondario, e segnatamente nel comparto automobilistico. Di certo c’è che in Olanda il governo ha altro a cui pensare, visto che il premier Mark Rutte finora è stato assorbito dal ruolo di guida dei “frugali del Nord”, dediti quasi esclusivamente a protestare contro il tetto al prezzo del gas russo, contro l’estensione del programma Next Generation Eu e, soprattutto, contro la riforma in senso più flessibile del Patto di stabilità.
E in Italia? La fotografia migliore degli squilibri sociali che affliggono il nostro Paese arriva dall’Istat. La settimana scorsa, nel suo rapporto annuale, l’Istituto di statistica ha rilevato che, dal 2005 a oggi, il numero di individui in povertà assoluta è quasi triplicato, passando da 1,9 a 5,6 milioni (il 9,4% del totale). Quanto ai salari, oggi circa 4 milioni di dipendenti del settore privato (il 29,5%) percepiscono una retribuzione teorica lorda annua inferiore a 12mila euro, mentre per circa 1,3 milioni di dipendenti (il 9,4%) la retribuzione oraria è inferiore a 8,41 euro l’ora. Non solo: visto il tasso d’inflazione, che a fine anno potrebbe arrivare al 6,4%, senza rinnovi contrattuali o meccanismi di adeguamento, nei prossimi mesi assisteremo a un’importante diminuzione delle retribuzioni in termini reali, che già nel 2022 potrebbero tornare sotto i valori del 2009. La sintesi dell’Istat è che l’accelerazione dei prezzi “rischia di aumentare le disuguaglianze, sia per la diminuzione del potere d’acquisto, più marcata tra le famiglie con forti vincoli di bilancio, sia per le tempistiche dei rinnovi contrattuali, più lunghe in settori con bassi livelli retributivi”. Ci vorrà molto prima che anche da noi inizino le mobilitazioni?
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