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12/07/2022

La danza immobile della “crisi politica” italiana

Difficile trovare nuove parole per resocontare la “crisi politica” italiana. Gli ultimi eventi – i Cinque Stelle che, alla Camera, votano la fiducia al governo ma si astengono sul “decreto Aiuti” – erano stati ampiamente annunciati, ma nessuno gli aveva dato peso.

Anche il fatto che al Senato quel giochino distintivo non si può fare (per regolamento, a Palazzo Madama, l’astensione vale come voto contrario) era stato considerato poco, attendendo gli sviluppi.

Ora si è vicini al “grande evento”, che grande proprio non è, e Mario Draghi che sale al Colle sembra risvegliare dal coma le ritualità della Prima Repubblica.

Il nodo del contendere non è in effetti chiarissimo, se si guarda – come fanno i media mainstream – alle dichiarazioni di Conte e altri cosiddetti “protagonisti” della politichetta nostrana.

Ma il dato politico è invece semplicissimo: i grillini, maciullati dall’esperienza di governo nell’arco di cinque anni, e in tutte le salse (insieme alla Lega, poi insieme al Pd, poi insieme a tutti), devono distinguersi in qualche modo da un esecutivo che fa regolarmente il contrario di quel che avevano promesso.

Quindi, o escono dal governo ora (mese più, mese meno) oppure possono anche fare a meno di presentarsi alle elezioni a primavera 2023.

Del pattuglione eletto cinque anni fa resta ormai poca roba. Le fuoriuscite e le espulsioni sono state innumerevoli, e potrebbero non essere ancora finite.

Il “tesoretto” elettorale si è ridotto ad un terzo, ma quel 10-12% resta patrimonio del duo Grillo-Conte, mentre tutti gli “scissionisti” (da Di Battista a Di Maio, compreso il gruppo sostanzioso che si fa chiamare “Alternativa”) non passano alla prova dei sondaggi.

Ergo, schiantare la “resistenza” anche di questo ultimo “zoccoletto duro” consentirebbe al potere vero di eliminare un elemento di disturbo che non è mai stato pericoloso, se non per le speranze vane che aveva suscitato. La principale delle quali, in una democrazia liberale, dovrebbe essere una banalità costituente: che gli eletti facciano ciò per cui gli elettori li hanno scelti.

Come sappiamo, a far data almeno dal governo Monti (fine 2011), il baratro tra Parlamento ed elettorato è andato allargandosi a dismisura, tanto da far parlare di “commissariamento” della politica italiana da parte dei “mercati” o, più esplicitamente, dell’Unione Europea.

Questa “eterodirezione” si è fatta in alcuni casi addirittura esplicita (la stessa nomina di Draghi a premier, da ex presidente della BCE, uno dei tre membri della “Troika”), tanto da generare disperati tentativi di dar vita a movimenti “populisti”, ad ovvia trazione piccolo borghese.

Non è un caso che l’altra pattugli in difficoltà estrema – la Lega in versione Salvini – sia in questi giorni tentata dal fare mosse molto simili (su altri terreni) a quelle di Conte.

Così abbiamo una situazione apparentemente paradossale: il “governo con tutti dentro” è numericamente fortissimo, tanto da poter agevolmente fare a meno della residua pattuglia grillina. Ma è politicamente (in rapporto ai soggetti sociali) fragilissimo, perché la sua azione è in aperto contrasto con i bisogni popolari.

Basti pensare a come vorrebbero risolvere il problema della perdita di potere d’acquisto dei già scarsi salari: con la riduzione del “cuneo fiscale”, ovvero della quota di contributi versati allo Stato.

Ogni altro “partito” che sta nel governo non può dunque non essere tentato dall’imitare i grillini, per non essere a sua volta penalizzato in vista delle ormai prossime elezioni politiche.

Il “governo tecnico con tutti dentro” è insomma un “governo di nessuno”. Che è poi la dimostrazione – involontaria, certo – del fatto che questo tipo di politiche imposte dalla UE tramite PNRR premiano una fetta sottilissima della popolazione (le imprese di grandi dimensioni e la finanza), economicamente potente ma elettoralmente infinitesimale.

L’astensionismo record si è incaricato di darne anche una dimostrazione empirica, nelle ultime scadenze elettorali.

La “classe politica”, in queste condizioni, è condannata alla “balcanizzazione” estrema, con un proliferare di scissioni e proposte tutte uguali, o almeno indistinguibili, perché non possono esprimere alcunché di credibile e sono costrette a rivestirsi di cortine fumogene (basta guardare gli infiniti “centri”, tra Toti, Calenda, Renzi, Brugnaro, Di Maio, Casini, ecc.).

Un’esperienza anticipata già 20 anni fa dalla “sinistra di governo”, quella che doveva conciliare l’impossibile (parlare di grandi cambiamenti sociali e sostenere governi che distruggevano stato sociale, servizi pubblici e legalizzavano la precarietà), fino a spappolare Rifondazione in mille rivoli.

Facile fare previsioni di medio periodo. Lo sfarinamento di questo ceto politico continuerà, ma senza produrre nuove concentrazioni. E un vecchio marpione del piccolo cabotaggio politico, come Clemente Mastella, può apparire come un faro di saggezza quando dice che “dopo Draghi, nella prossima legislatura, ci sarà ancora Draghi – se è disponibile – o qualcuno che gli somiglia”.

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