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13/09/2022

Quaranta anni fa la strage di Sabra e Shatila

Nel settembre di quarant’anni fa avveniva a Beirut una delle stragi più violente e atroci del ‘900. Oltre duemila persone furono trucidate a Sabra e Shatila, due poverissimi campi profughi palestinesi della periferia sud della capitale libanese, oggi un’unica vasta area di estrema povertà e marginalità.

Quei nomi, Sabra e Shatila, sono poi penetrati nella memoria collettiva come sinonimo di orrore, vendetta, crimine contro l’umanità, ricordati per questo dall’Enciclopedia Treccani.

Nel settembre del 1982 Beirut era stata da poco occupata dalle forze armate israeliane che dal ‘78 controllavano il sud del Libano. L’architettura del piano settembrino fu pensata da una mente criminale (Sharon, ministro della difesa).

Gli israeliani, infatti, volevano assolutamente spezzare la linea di resistenza contro le ingerenze sioniste che trovava un punto di forza nell’alleanza tra i gruppi palestinesi e le componenti progressiste della società libanese, contrastate dal blocco reazionario falangista.

Il “Vecchio“ (Arafat) aveva proprio in Libano il suo quartier generale ormai da molti anni: il movimento di liberazione palestinese, che lui aveva portato dentro il grande movimento anticolonialista mondiale, aveva una sua specificità, cioè non combatteva l’usurpatore nella propria terra ma dalla diaspora, una oggettiva circostanza di indebolimento che costringeva i suoi leader ad arrangiare le basi operative altrove.

Nei paesi ospitanti i palestinesi erano sempre una presenza dinamica e conflittuale che spingeva la società a schierarsi, come avvenne soprattutto in Libano che la pagò cara: una terribile guerra civile straziò per sempre un paese fino ad allora modello multietnico, multireligioso, laico: un esempio per un futuro Stato Palestinese.

Quando Sharon decise di spingersi con il proprio esercito verso la capitale Beirut voleva ciò che ottenne: la cacciata dal paese dei Cedri di Yasser Arafat, un leader che teneva alle mediazioni ma che non arretrava.

Arrivò nei primi giorni di settembre a mettere pace il mediatore americano Philippe Habib: al solito un accordo tra diseguali, visto che consisteva nel ritiro di Israele da Beirut (non dal sud del paese) contemporaneamente all’impegno delle organizzazioni palestinesi a lasciare il Libano e a disarmare i propri gruppi (naturalmente la stessa condizione non era stata chiesta alle bande falangisti); una forza multinazionale sarebbe rimasta a presidiare le operazioni di ritiro, dal 21 agosto al 21 settembre, un solo mese: ma tale era la forza prepotente di Israele che le autorità di Tel Aviv ne ottennero il ritiro anticipato.

Arafat accettò di partire su un cargo che lo portava a Tunisi passando per la Grecia. Poi lo disse: “avevo detto a Philip Habib di garantire la sicurezza delle nostra gente“, ne parlò anche al ministro degli Esteri francese che incontrò a Tunisi il 3 settembre, “badate voi a loro”. Non andò così.

In fretta e furia i falangisti organizzarono l’accerchiamento dei campi di Sabra e Shatila, sotto la supervisione del falco Sharon, e dal 16 al 18 settembre condussero la mattanza. “Vi schiacceremo come mosche”, amava dire Sharon, ed è quello che tentarono di fare in quegli orribili due giorni raccontati in un pesante libricino intitolato Quattro ore a Shatila da Jean Genet, pagine di puro orrore e angoscia.

Nel ricordo di quelle vittime oggi dobbiamo pensare che la profezia di Sharon non si è realizzata affatto: il popolo palestinese continua la sua resistenza eroica e mai disperata, chissà dove prendono quella forza.

E poi la memoria della strage è quanto mai viva: dal settembre del 2000 un Comitato internazionale commemora ogni anno le vittime e le loro famiglie, portando solidarietà nei campi profughi.

L’Italia anche quest’anno è presente con il vivace Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila che accompagna da allora militanti, attivisti semplici osservatori che vogliono andare, vedere, capire, esserci. L’esperienza italiana porta il segno di Stefano Chiarini e Maurizio Musolino, due compagni che abbiamo amato e che ci mancano molto.

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