Pubblichiamo la traduzione di una lunga intervista a Mohamed Hassan – curata da Grégoire Lalieu del collettivo Investig’Action e co-autore di “La Strategie du chaos” e “Jihad made in USA” – pubblicata il 26 ottobre sul sito del collettivo.
Paesi che si rifiutano di tagliare i ponti con la Russia. I dirigenti turchi che sfidano le minacce di Washington. L’Arabia Saudita che disobbedisce a Biden. L’America Latina che vira “a sinistra”. Una parte dell’Africa che volta le spalle ai suoi vecchi e nuovi “padrini” neo-coloniali. È chiaro che il mondo sta cambiando. E Mohamed Hassan ci aiuta a vederlo più chiaramente, anche per le prospettive “rivoluzionarie” che si aprono per le classi subalterne europee, oltre che per i popoli del Tricontinente.
Questo in una situazione in cui anche gli Stati Uniti non solo stanno perdendo la propria egemonia all’esterno, ma soffrono una crisi sociale che avrà dei precisi riflessi anche nelle vicine elezioni Mid-term dell’8 novembre.
Afferma giustamente Hassan: “oggi ci sono 500.000 senzatetto per le strade degli Stati Uniti e il loro tasso di mortalità è salito alle stelle. Ci sono anche due milioni di prigionieri su un totale di undici milioni in tutto il mondo. Il tasso di povertà infantile è del 17%, uno dei più alti del mondo sviluppato secondo il Columbia University Center on Poverty and Social Policy. L’imperialismo sta distruggendo gli Stati Uniti dall’interno e non ha impedito ai due grandi rivali, Russia e Cina, di conquistare potere. Questo aumento di potere indebolisce le posizioni dell’imperialismo statunitense nel mondo.”
Un mondo è al crepuscolo, un altro sta sorgendo sullo sfondo di uno scontro sempre acuito tra un blocco euro-atlantico ed i suoi satelliti ed uno euro-asiatico in formazione.
Ai comunisti che lavorano dentro lo sviluppo delle contraddizioni in Occidente, “per linee interne” al movimento di classe – a volte tutto da ricostruire – si apre nuovamente la possibilità di giocare un ruolo nella Storia, con la S maiuscola e lasciarsi dietro le spalle le proprie sconfitte.
Si pone nuovamente l’attualità della Rivoluzione in Occidente e dello sviluppo del Socialismo nel XXI Secolo, se non si viene schiacciati dalle chiacchiere dei ciarlatani al soldo degli apparati ideologici dominanti.
L’ex diplomatico etiope, specialista di geopolitica, analizza le ripercussioni della guerra in Ucraina, che segna una svolta storica. In che modo gli Stati Uniti hanno perso influenza? Perché l’Africa si oppone alle potenze occidentali? Quale futuro per l’Europa? Che ruolo possono avere i lavoratori?
In La strategia del caos Mohamed Hassan aveva parlato della transizione verso un mondo multipolare. Undici anni dopo, quella che ai tempi era solo la prefigurazione di una tendenza, ora è una realtà in atto, ed in questa intervista ne fa un bilancio.
Buona Lettura
Paesi che si rifiutano di tagliare i ponti con la Russia. I dirigenti turchi che sfidano le minacce di Washington. L’Arabia Saudita che disobbedisce a Biden. L’America Latina che vira “a sinistra”. Una parte dell’Africa che volta le spalle ai suoi vecchi e nuovi “padrini” neo-coloniali. È chiaro che il mondo sta cambiando. E Mohamed Hassan ci aiuta a vederlo più chiaramente, anche per le prospettive “rivoluzionarie” che si aprono per le classi subalterne europee, oltre che per i popoli del Tricontinente.
Questo in una situazione in cui anche gli Stati Uniti non solo stanno perdendo la propria egemonia all’esterno, ma soffrono una crisi sociale che avrà dei precisi riflessi anche nelle vicine elezioni Mid-term dell’8 novembre.
Afferma giustamente Hassan: “oggi ci sono 500.000 senzatetto per le strade degli Stati Uniti e il loro tasso di mortalità è salito alle stelle. Ci sono anche due milioni di prigionieri su un totale di undici milioni in tutto il mondo. Il tasso di povertà infantile è del 17%, uno dei più alti del mondo sviluppato secondo il Columbia University Center on Poverty and Social Policy. L’imperialismo sta distruggendo gli Stati Uniti dall’interno e non ha impedito ai due grandi rivali, Russia e Cina, di conquistare potere. Questo aumento di potere indebolisce le posizioni dell’imperialismo statunitense nel mondo.”
Un mondo è al crepuscolo, un altro sta sorgendo sullo sfondo di uno scontro sempre acuito tra un blocco euro-atlantico ed i suoi satelliti ed uno euro-asiatico in formazione.
Ai comunisti che lavorano dentro lo sviluppo delle contraddizioni in Occidente, “per linee interne” al movimento di classe – a volte tutto da ricostruire – si apre nuovamente la possibilità di giocare un ruolo nella Storia, con la S maiuscola e lasciarsi dietro le spalle le proprie sconfitte.
Si pone nuovamente l’attualità della Rivoluzione in Occidente e dello sviluppo del Socialismo nel XXI Secolo, se non si viene schiacciati dalle chiacchiere dei ciarlatani al soldo degli apparati ideologici dominanti.
L’ex diplomatico etiope, specialista di geopolitica, analizza le ripercussioni della guerra in Ucraina, che segna una svolta storica. In che modo gli Stati Uniti hanno perso influenza? Perché l’Africa si oppone alle potenze occidentali? Quale futuro per l’Europa? Che ruolo possono avere i lavoratori?
In La strategia del caos Mohamed Hassan aveva parlato della transizione verso un mondo multipolare. Undici anni dopo, quella che ai tempi era solo la prefigurazione di una tendenza, ora è una realtà in atto, ed in questa intervista ne fa un bilancio.
Buona Lettura
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A parte l’Europa, il mondo sembra riluttante a seguire gli Stati Uniti nella loro guerra economica contro la Russia. L’OPEC ha appena inflitto uno schiaffo a Joe Biden rifiutandosi di aumentare la produzione di petrolio. Undici anni fa, in “La strategia del caos”, hai parlato della transizione verso un mondo multipolare con il declino dell’imperialismo statunitense da un lato e l’ascesa dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) dall’altro. Il mondo multipolare è una realtà concreta oggi?
Stiamo vivendo un momento storico che segna la fine dell’egemonia degli Stati Uniti. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, l’impero statunitense era l’unica superpotenza. È stata in grado di imporre la sua volontà al resto del mondo. Attraverso istituzioni internazionali come il FMI e la Banca Mondiale che hanno permesso alle multinazionali di saccheggiare le risorse del Sud. O attraverso la forza militare quando i governi opponevano resistenza.
Ricordiamo che dopo gli attentati dell’11 settembre, il Presidente Bush disse: “O siete con noi o contro di noi“. Gli Stati Uniti hanno lanciato la loro guerra al terrorismo, che in realtà era una guerra per rimodellare il Grande Medio Oriente e mantenere la loro egemonia. Ma il progetto si è trasformato in un fiasco. Ora gli Stati Uniti stanno conducendo una guerra per procura contro la Russia sul suolo ucraino. Biden e il suo team dicono le stesse cose che Bush disse allora, ma il resto del mondo si rifiuta di seguire la loro politica devastante.
Non abbiamo sentito il presidente Biden usare la retorica di Bush...
Ma in realtà è quello che stanno facendo. Stanno cercando di serrare i ranghi per isolare la Russia e non esitano a minacciare chi si oppone a loro. E ce ne sono molti. Dalla prospettiva occidentale, si ha l’impressione che la guerra in Ucraina sia una battaglia del Bene contro il Male. Putin ha invaso l’Ucraina perché è pazzo e vuole ripristinare il grande impero russo. Per questo motivo deve essere fermato e gli ucraini devono essere salvati.
Questa idea dovrebbe essere unanime, ma molti paesi mantengono i loro legami con la Russia. Prima gli affari?
Innanzitutto, al di fuori dell’Occidente, il mondo non è ingannato sulla natura di questa guerra. In Ucraina, nel 2014 gli Stati Uniti hanno sostenuto un colpo di stato per rovesciare un presidente democraticamente eletto, ma che aveva la sfortuna di essere vicino alla Russia. Washington ha quindi piazzato le sue pedine per far sì che questo paese strategico fosse rivolto verso l’Occidente piuttosto che verso l’Oriente.
In una conversazione telefonica trapelata, Victoria Nuland è stata addirittura sentita discutere della composizione del governo ucraino che avrebbe seguito il colpo di stato. Che democrazia!
All’epoca Nuland era responsabile dell’Ucraina presso il Dipartimento di Stato. E aveva poca considerazione per i suoi alleati europei. In questa conversazione telefonica, l’interlocutore ha sottolineato che alcune scelte potrebbero offendere l’Unione Europea. “Fanculo l’UE“, ha risposto Nuland.
Le autorità ucraine hanno poi perseguito politiche repressive nei confronti dei russofoni dell’est che non hanno riconosciuto il governo golpista. La situazione è degenerata in un conflitto. Sono state coinvolte milizie neonaziste. Secondo le Nazioni Unite, sono morte 13.000 persone. E gli accordi di Minsk, negoziati tra Ucraina e Russia con l’aiuto di Francia e Germania, non sono riusciti a porre fine al conflitto.
Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno inondato l’Ucraina di armi. Hanno addestrato i quadri dell’esercito ucraino, hanno condotto esercitazioni militari congiunte e, di fatto, iniziato a integrare l’Ucraina nella NATO in attesa dell’adesione formale. Noam Chomsky parla di un’integrazione graduale e sottolinea che il progetto di adesione è stato annunciato nel settembre 2021 sul sito web della Casa Bianca.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno promesso ai russi che la NATO non si sarebbe espansa verso est. Da allora, l’Alleanza Atlantica ha integrato quattordici nuovi Stati in ondate successive. Questo allargamento spiega l’attuale guerra in Ucraina?
Questo è un elemento cruciale che non viene preso in considerazione in Occidente. In altre parti del mondo, le persone non vedono le cose allo stesso modo. “La guerra avrebbe potuto essere evitata se la NATO avesse ascoltato gli avvertimenti dei suoi stessi leader e funzionari nel corso degli anni che la sua espansione verso est avrebbe portato a una maggiore, e non minore, instabilità nella regione“, ha dichiarato il Presidente del Sudafrica.
Infatti, anche negli Stati Uniti, molte figure di spicco hanno criticato fortemente l’espansione della NATO. George Kennan, l’architetto della Guerra Fredda, lo definì un “tragico errore“. “Riuscite a immaginare che tra 20 anni una Cina potente stringerà un’alleanza militare con il Canada e il Messico e sposterà le forze militari cinesi sul suolo canadese e messicano, e noi saremo seduti qui a dire che non è un problema?” ha chiesto John Mearsheimer, uno dei maggiori esperti di geopolitica degli Stati Uniti, nel 2015.
In quell’occasione ha aggiunto: “L’Occidente sta portando l’Ucraina sulla strada sbagliata e alla fine l’Ucraina sarà completamente devastata“. L’ultimo ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Sovietica ha anche affermato nel 1997 che l’espansione della NATO è stata “il più grande errore strategico dalla fine della Guerra Fredda“.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, tuttavia, Mosca ha voluto uscire dalla logica del blocco e perseguire relazioni costruttive con l’Occidente. Ma gli Stati Uniti hanno continuato a trattare la Russia come un nemico.
Già nel 2007, Putin aveva sottolineato che l’allargamento della NATO non aveva nulla a che fare con la sicurezza europea. L’ha denunciata come una provocazione volta a minare la fiducia reciproca. “Abbiamo il legittimo diritto di chiedere apertamente contro chi viene effettuato questo allargamento“, ha affermato il presidente russo.
Gli Stati Uniti sapevano che l’integrazione dell’Ucraina era una linea rossa da non oltrepassare. Prima dell’offensiva militare, le autorità russe stavano ancora cercando di negoziare e chiedevano garanzie sulla neutralità dell’Ucraina. Washington non ha risposto alle richieste di Mosca per problemi di sicurezza.
Pensi anche tu che la guerra si sarebbe potuta evitare?
Non solo si sarebbe potuto evitare. Ma si sarebbe potuta concludere rapidamente. Il fatto è che gli Stati Uniti non vogliono la pace. Già nel 2019, la Rand Corporation, l’influente think tank vicino al Pentagono, ha pubblicato un rapporto che illustra nel dettaglio la strategia per sconfiggere la Russia.
Dice tutto: isolare la Russia sulla scena internazionale, incoraggiare le proteste interne, utilizzare le sanzioni economiche per indurre l’Europa a ridurre le importazioni di gas russo e sostituirle con gas liquefatto proveniente dagli Stati Uniti. E infine, armare l’Ucraina per sfruttare “il più grande punto di vulnerabilità esterno della Russia“.
Per il resto del mondo, non c’è dubbio che la guerra in Ucraina sia una guerra degli Stati Uniti contro la Russia. E il resto del mondo si rifiuta di unirsi alla danza della morte di Washington. La sua perdita di influenza è evidente.
L’ultimo Summit delle Americhe, tenutosi a giugno a Los Angeles, è stato descritto come una “debacle diplomatica” da Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations e figura di spicco dell’establishment statunitense. Si tratta di una smentita per Biden che intendeva mettere ordine nel suo giardino dopo gli anni di Trump.
Lo stesso si può dire degli stati dell’Africa subsahariana che l’ex presidente degli Stati Uniti aveva definito “paesi cesso“. Il Segretario di Stato Antony Blinken vi si è recato quest’estate e non ha nascosto il suo desiderio di “contrastare le influenze dannose di Cina e Russia” sul continente. Ma l’accoglienza è stata gelida.
Preferendo la diplomazia alla guerra, il ministro degli Esteri del Sudafrica ha “esortato i paesi africani che desiderano stabilire o mantenere relazioni con la Cina e la Russia a non esitare a farlo, qualunque sia la natura di tali relazioni“. Infine, molti commentatori hanno sottolineato il declino dell’influenza degli Stati Uniti al vertice dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) tenutosi a Washington a maggio.
Biden ha presentato il suo Indo-Pacific Economic Framework, ma l’iniziativa commerciale è stata descritta come un “hamburger senza carne”. A questo si aggiunge l’India, un alleato strategico di Washington che rifiuta di condannare la Russia e sembra aver rafforzato i suoi legami con Mosca. O l’OPEC+, che ha rifiutato la richiesta di Biden di aumentare la produzione di petrolio per far scendere i prezzi.
Questo è un punto di svolta importante. Storicamente, l’Arabia Saudita è uno stretto alleato degli Stati Uniti.
Sì, è così. Si tratta di un’alleanza che risale al Patto di Quincy del 1945 e che va ben oltre il petrolio. Il regime feudale dei Saud era spaventato a morte dal nazionalismo arabo, che aveva fatto cadere diverse monarchie nella regione ed era vicino all’Unione Sovietica.
I Saud hanno quindi finanziato la lotta di Washington contro il comunismo in ogni angolo del mondo. I loro petrodollari hanno svolto un ruolo importante anche nell’economia statunitense. In cambio, i burattini arretrati di Riyadh potevano contare sulla protezione degli imperialisti statunitensi. Le tensioni che stanno emergendo tra questi due Paesi sono quindi tutt’altro che banali.
Il rapporto della Rand Corporation chiedeva di isolare la Russia sulla scena internazionale, ma alla fine sono gli Stati Uniti a trovarsi da soli. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, l'egemonia statunitense sembrava indiscutibile. Come possiamo spiegare questa inversione di tendenza?
Stiamo vivendo un momento storico che rivela il declino dell’imperialismo statunitense e la bancarotta dei suoi ideologi. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, molti intellettuali svilupparono teorie con lo stesso obiettivo: gestire il mondo unipolare emerso con la fine della Guerra Fredda e mantenere a lungo l’egemonia degli Stati Uniti.
Ad esempio, l’economista Francis Fukuyama ha scritto un libro clamoroso nel 1992 per spiegare che la caduta dell’Unione Sovietica ha segnato la “Fine della Storia“. La democrazia liberale aveva prevalso sulle altre ideologie e avrebbe imposto un orizzonte insuperabile.
Nella stessa ottica, il filosofo Toni Negri ha sostenuto che la fine della Guerra Fredda ha segnato una nuova era, quella dell’Impero. Le potenze imperialiste non si sarebbero più fatte la guerra a vicenda, ma si sarebbero impegnate in una forma di impero globale in cui avrebbero collaborato, motivate reciprocamente dalla ricerca della pace.
Oggi, l’attuale guerra in Ucraina ci ricorda che la Storia è tutt’altro che finita. Come è possibile che pensatori così influenti si siano sbagliati?
Erano ciarlatani. Sono diventati pensatori influenti perché le loro teorie hanno rafforzato il senso di onnipotenza degli Stati Uniti e del capitalismo. Ma, partendo da una pessima premessa, questi pensatori non potevano che fallire.
Karl Marx ha dimostrato che la lotta di classe è la forza trainante della storia. Padroni e schiavi nell’antichità, signori e servi della gleba nel Medioevo, la borghesia e la classe operaia nell’era capitalista...
Ci sono sempre state relazioni di sfruttamento e classi sociali i cui interessi erano in contraddizione. Queste contraddizioni hanno portato a grandi sconvolgimenti che hanno cambiato il corso della storia. Contrariamente a quanto suggerito da Fukuyama, queste contraddizioni non sono scomparse con la fine della Guerra Fredda. C’è ancora una lotta di classe. E, come possiamo vedere ogni giorno, la Storia è davvero in marcia.
Lo stesso vale per L’impero di Toni Negri. Nel 1917, in piena Prima Guerra Mondiale, Lenin scrisse un’opera straordinaria sull’imperialismo. Egli spiegò come le grandi potenze capitalistiche cercassero di conquistare il mondo per esportare il capitale che stavano accumulando, da un lato, e per ottenere l' accesso a basso costo alla manodopera e alle materie prime, dall’altro.
Le colonie hanno soddisfatto questa richiesta. Le potenze imperialiste si sono così spartite il mondo come una torta. Ma dato che il mondo non è uno spazio infinito, dovevano farsi guerra tra loro per accaparrarsi la fetta più grande. Così, la costruzione nazionale tedesca è arrivata in ritardo rispetto agli altri concorrenti europei, lasciando a Berlino solo le briciole e la mancanza di colonie per perseguire il suo sviluppo economico.
Questa situazione portò alle due guerre mondiali. L’analisi di Lenin è notevole, in quanto mostra come le dinamiche del capitalismo, basate sulla competizione e sulla ricerca del massimo profitto, portino le potenze imperialiste a saccheggiare il Sud del mondo e a farsi la guerra a vicenda. Questa dinamica è ancora in atto oggi. È quindi del tutto illusorio pensare che le maggiori potenze capitalistiche inizieranno a cooperare pacificamente all’interno di un impero mondiale se non si cambiano le regole del modello economico.
Qual è stato l’impatto di questi pensatori?
Si trattava di una forma di guerra ideologica, di terrorismo intellettuale. Era necessario imporre l’idea che tutti coloro che avessero rifiutato il mondo unipolare non avrebbero avuto alcuna possibilità di sopravvivenza. Ma non tutti condividono la loro opinione.
In risposta a Fukuyama, ad esempio, Samuel Huntington ha sviluppato la sua teoria dello “scontro di civiltà”. Disse che la storia non era finita e che le contraddizioni sarebbero rimaste, ma in una forma diversa. Huntington divise il mondo in diverse civiltà: l’Occidente era la più avanzata e la civiltà islamica la più pericolosa. Ancora una volta, questa teoria ignora le dinamiche delle società capitalistiche e della lotta di classe.
Huntington erige inoltre le civiltà come blocchi monolitici, senza molte sfumature. Gli occidentali sono così, i musulmani sono così, ecc. Si tratta di una teoria molto frivola, ma che ha avuto un grande impatto dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. Lo scontro di civiltà è stato utilizzato come propaganda per giustificare le guerre di Bush e dei neoconservatori, le guerre dell’Occidente “civilizzato” contro i “barbari” del mondo musulmano.
In un altro registro, anche Zbigniew Brzezinski pensava che la storia non fosse finita. Consigliere del presidente James Carter alla fine degli anni ’70, fu in particolare l’artefice dell’Operazione Cyclone, con la quale gli Stati Uniti sostennero i mujahedin e attirarono i sovietici nel pantano afghano. Questo era il periodo in cui Bin Laden e la CIA lavoravano insieme.
Dopo la fine della Guerra Fredda, Brzezinski scrisse un libro importante, “La Grande Scacchiera“. In esso spiega che la regione più strategica del mondo è l’Eurasia. Concentra il 70% della popolazione mondiale e due terzi della produzione. “Chi controlla l’Eurasia, controlla il mondo“, ha sintetizzato Brezinski. Brezinski ha riassunto il concetto. Clinton, Obama, Biden e tutti questi democratici guerrafondai sono i figli ideologici di Brezinski.
Ma gli Stati Uniti non fanno parte dell’Eurasia...
La geografia è davvero un ostacolo. Ma non abbastanza per calmare le pretese di Brzesinki. Sulla scacchiera globale, stila una lista di attori geopolitici e di Stati cardine che gli Stati Uniti devono tenere sotto la loro influenza per mantenere la loro egemonia. In Europa, ad esempio, troviamo Francia, Germania, Polonia e Ucraina.
“Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero in Eurasia“, scrive Brezinski. È facile capire il particolare interesse che Washington nutre da diversi anni nei confronti di questo Paese.
Tuttavia, quando Brezinski pubblicò il suo libro, l’Unione Sovietica era già crollata. Mosca voleva avvicinarsi all’Occidente. E, devastata dalla terapia d’urto neoliberista, la Russia non era un impero minaccioso. Di cosa si preoccupava Brzezinski?
La Russia è un grande paese, il più grande del mondo per superficie. Dispone inoltre di molte risorse. Brzezinski sapeva che prima o poi la Russia avrebbe potuto diventare un serio concorrente e minacciare l’egemonia degli Stati Uniti. La federazione russa doveva essere attaccata utilizzando gli stati vassalli per smantellarla, proprio come l’Impero Ottomano era stato smantellato dopo la Prima Guerra Mondiale. Questo avrebbe lasciato la Russia come una serie di repubbliche delle banane le cui risorse potevano essere facilmente controllate.
Brzezinski ha poi pianificato di basarsi sul Giappone e di continuare con lo smantellamento della Cina. Allora l’Africa e l’America Latina cadranno senza resistenza nelle mani di Washington.
Lungi dall’essere smantellata, la Russia ha addirittura ampliato il suo territorio. L’economia cinese ha raggiunto quella degli Stati Uniti. Anche Brzezinski ha sbagliato?
Brzezinski ha fatto un’analisi più rilevante. Ma la sua strategia richiedeva tempo. E gli Stati Uniti non hanno avuto tempo, secondo i neoconservatori che sono saliti alla ribalta con George W. Bush nei primi anni 2000. Questi ideologi del PNAC, il Progetto per un Nuovo Secolo Americano, ritenevano che Washington dovesse colpire duramente per mantenere la propria egemonia. Hanno così creato la teoria del Grande Medio Oriente.
Immagina di controllare da solo l’unico rubinetto dell’acqua della tua città. Nessun altro può accedervi. Famiglie, aziende, negozianti, agricoltori... Tutti devono passare attraverso da te per avere l’acqua. Sarai il re della tua città, potrai controllare tutto!
I neoconservatori hanno sviluppato questa teoria con il petrolio. La loro idea era quella di rimodellare questa vasta regione che si estende dal Magreb al Pakistan, passando per il Corno d’Africa e il Golfo. Questa regione è particolarmente ricca di petrolio e gas. E queste risorse sono indispensabili per lo sviluppo economico dei concorrenti degli Stati Uniti. Pertanto, i neoconservatori sostenevano il controllo del Grande Medio Oriente per indebolire i loro rivali.
Il riassetto del Grande Medio Oriente non doveva essere fatto in modo frammentario. I neoconservatori hanno attaccato l’Afghanistan e l’Iraq. Secondo il generale Wesley Clark, ex comandante supremo della NATO, gli Stati Uniti progettavano anche di invadere Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran.
Tutti questi paesi hanno vissuto guerre dirette o indirette negli ultimi anni. Ma l’Iraq è stato il più grande. Controllando le proprie riserve di petrolio, gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di mantenere basso il prezzo al barile. Quindi i paesi produttori di petrolio, compresa la Russia, avrebbero dovuto chiedere prestiti alle banche occidentali.
Ma è successo il contrario. L’invasione dell’Iraq ha fatto impennare i prezzi del petrolio. Questo ha avvantaggiato i paesi produttori di petrolio, che sono stati in grado di pagare i loro debiti, soprattutto la Russia.
È stata la resistenza irachena a far lievitare i prezzi. Prima della guerra, il barile si aggirava intorno ai 25 dollari da circa vent’anni. Dopo l’invasione dell’Iraq, il prezzo è salito costantemente, prima a circa 60 dollari e poi a oltre 100 dollari dal 2007. Altri fattori hanno ovviamente influenzato il prezzo del petrolio. Ma il fallimento dell’esercito americano in Iraq ha avuto un impatto notevole e i piani egemonici dei neoconservatori sono andati in fumo.
Eppure gli Stati Uniti hanno speso cifre astronomiche per questa guerra. L’economista premio Nobel Joseph Stiglitz ha stimato che l’occupazione dell’Iraq è costata 16 miliardi di dollari al mese, pari al bilancio annuale delle Nazioni Unite. Washington avrebbe speso un totale di 3.000 miliardi di dollari complessivi nel conflitto. Questa cifra è sufficiente a garantire ai cittadini statunitensi la copertura previdenziale per 50 anni.
Gli Stati Uniti hanno distrutto l’Iraq, ucciso centinaia di migliaia di persone e sfollato altri milioni. Ma non sono riusciti a controllare il paese o il suo petrolio. Elementi filo-iraniani sono saliti al potere dopo la caduta di Saddam Hussein. E le compagnie straniere si sono spartite le concessioni petrolifere, comprese quelle cinesi e malesi.
Gli Stati Uniti non hanno ottenuto molto. La guerra in Iraq è stata un punto di svolta. Sia chiaro, la resistenza irachena ha cambiato il corso della storia.
Ha portato all’avvento del mondo multipolare?
Sì, perché la crisi si è acuita negli Stati Uniti mentre i suoi concorrenti hanno potuto svilupparsi. Grazie all’impennata dei prezzi dell’energia, la Russia è riuscita a pagare i suoi debiti e a riorganizzare la sua economia. Ha fatto molta strada. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la Russia è stata sottoposta a una terapia d’urto neoliberista che avrebbe dovuto favorire il suo sviluppo, ma che ha avuto un effetto devastante. In realtà, tutto è stato privatizzato e letteralmente saccheggiato.
Tra il 1992 e il 1998, il PIL è sceso del 50%. Si tratta di una cifra addirittura superiore a quella registrata durante la Seconda Guerra Mondiale! L’aspettativa di vita è diminuita di 5 anni. Il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, rispetto all’1,5% prima della caduta dell’Unione Sovietica, secondo i dati ufficiali. Secondo le Nazioni Unite, tre milioni di russi morirono durante gli anni della terapia d’urto. Fu uno dei periodi più bui della storia russa, vissuto come traumatico e umiliante.
Come ha reagito la Russia?
L’impennata dei prezzi del petrolio è stata d’aiuto, ma alla fine degli anni ’90 i leader russi hanno iniziato a cambiare le cose. Yevgeny Primakov era presidente del governo di Boris Eltsin quando furono adottate le prime riforme per uscire dalla terapia d’urto: svalutazione del rublo, controllo dei prezzi dell’energia e dei trasporti per frenare l’inflazione, rilancio della produzione sfruttando l’eredità sovietica... L’economia russa poté quindi tornare a crescere. L’impennata dei prezzi dell’energia ha fatto il resto negli anni 2000.
In risposta agli ideologi dell’imperialismo statunitense, Primakov sviluppò soprattutto una dottrina la cui influenza può essere misurata oggi. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, i leader russi speravano di avvicinarsi all’Occidente, di diventare membri a pieno titolo della comunità internazionale e di partecipare alla costruzione della casa comune europea.
Ma Primakov ha citato Ronald Reagan dicendo: “Per ballare il tango bisogna essere in due“. Si rese subito conto che gli Stati Uniti volevano mantenere la loro egemonia, “per promuovere la propria agenda e i propri interessi nazionali escludendo tutti gli altri“. Pertanto, Primakov difese l’idea di un mondo multipolare basato su diversi centri regionali. Ha anche consigliato di avvicinarsi alla Cina.
Un’alleanza tra i due giganti dell’Eurasia è l’incubo di Brzezinski!
È anche di Henry Kissinger, l’ex Segretario di Stato. Durante la Guerra Fredda, manovrò abilmente per dividere i sovietici e i cinesi. All’epoca, un’alleanza tra le due potenze comuniste avrebbe senza dubbio cambiato la situazione. Ma alla fine sono stati proprio gli Stati Uniti a favorire il riavvicinamento tra Mosca e Pechino, isolandoli e adottando sanzioni contro di loro.
Le autorità russe volevano davvero rivolgersi all’Occidente dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ma Primakov capì che gli Stati Uniti erano principalmente interessati a mantenere la loro egemonia e volevano smantellare la Federazione Russa. Capì anche che questo nemico lontano stava cercando di affidarsi a vassalli vicini alla Russia per condurre la sua battaglia.
Mi vengono in mente la Cecenia, la Georgia e l’Ucraina. In teoria, questi vassalli hanno tutto l’interesse a mantenere buone relazioni con la Russia per svilupparsi. Sono vicini, possono stringere fruttuosi partenariati economici e dovrebbero naturalmente favorire un clima di pace. Ma sono sotto l’influenza degli Stati Uniti perché i loro leader sono burattini corrotti che non hanno alcun piano per sviluppare i loro paesi.
E l’Unione Europea in tutto questo?
I leader europei non sono molto diversi. Inoltre, vanno contro i loro interessi nazionali e si danno la zappa sui piedi tagliandosi fuori dalla Russia per compiacere Washington.
Un mese dopo l’invasione dell’Ucraina, il primo ministro belga Alexander De Croo ha dichiarato che l’UE non dovrebbe adottare sanzioni che si ritorcerebbero contro di lei. “Non siamo in guerra con noi stessi“, ha dichiarato il Primo Ministro. Ma qualche mese dopo, la situazione è preoccupante.
Il rapido crollo dell’economia russa promesso dalle sanzioni non si è verificato. D’altra parte, la situazione in Europa è catastrofica. I costi dell’energia sono diventati insostenibili per le famiglie, ma anche per molte aziende.
Vari governi hanno adottato misure per cercare di limitare i danni, ma continuano ad aumentare il debito anche dopo la crisi. E i risultati sono contrastanti. Le aziende hanno già rallentato la produzione, si sta diffondendo il lavoro a orario ridotto e alcuni settori stanno prendendo in considerazione la delocalizzazione.
Nel frattempo, i BRICS stanno lavorando a una moneta comune e a un’alternativa alle istituzioni occidentali della Banca Mondiale e del FMI. Il nuovo sistema dovrebbe promuovere l’autosufficienza alimentare e la formazione di capitale agricolo e industriale tangibile piuttosto che la finanziarizzazione. Anche sul fronte economico, il mondo multipolare sta notoriamente prendendo forma.
E gli Stati Uniti lasceranno che accada?
Nel 2005, un intellettuale statunitense ha assunto una posizione opposta a quella dei ciarlatani che abbiamo citato. Chalmers Johnson, uno specialista di Giappone e Cina, ha scritto un lungo articolo in cui spiegava che gli Stati Uniti non erano più l’unica superpotenza del mondo, perché era impossibile fermare lo sviluppo economico della Cina. Piuttosto che cercare la guerra, bisognerebbe permettere alla Cina di svilupparsi e negoziare con essa. Questo permetterebbe agli Stati Uniti di ridurre drasticamente le spese militari e di riorganizzare la propria economia.
Chalmers Johnson non era troppo idealista? Nel 1961, prima di lasciare il suo incarico, il presidente Eisenhower avvertì che il complesso militare-industriale rischiava di concentrare troppo potere al punto da mettere in pericolo la democrazia negli Stati Uniti. Cinquant’anni e molte guerre dopo, i bilanci militari continuano a battere record e questo orco pesa molto sull’economia e sulla politica degli Stati Uniti.
La contraddizione dell’economia statunitense è stata accentuata dalla globalizzazione neoliberista e dalla deindustrializzazione del paese. La politica imperialista avvantaggia gli elementi parassitari del complesso militare-industriale e alcuni settori che realizzano profitti a breve termine senza pensare alle conseguenze negative a lungo termine. Ma altri settori hanno perso e stanno soffrendo per il declino degli Stati Uniti.
Uno studio della Brown University pubblicato nel 2021 dimostra molto bene questa tendenza. Il rapporto rivela che un miliardo di dollari speso per le forze armate crea circa 11.200 posti di lavoro, rispetto ai 26.700 nell’istruzione, ai 16.800 nella transizione energetica e ai 17.200 nell’assistenza sanitaria.
Lo stesso studio stima che le guerre successive all’11 settembre siano costate 11.000 miliardi di dollari, in gran parte finanziati a debito. La crisi e la guerra in Ucraina sono passate da allora. A ottobre, il debito pubblico statunitense ha raggiunto la cifra record di 31.000 miliardi di dollari.
Questo castello di carte potrebbe crollare?
Finché il dollaro USA sarà la valuta dominante nel commercio internazionale, la situazione sarà gestibile. Ma questa posizione del dollaro è messa in discussione dai BRICS, come già detto. Anche l’Arabia Saudita ha annunciato di essere pronta a vendere il suo petrolio in yuan alla Cina. Si tratterebbe di una svolta significativa, poiché fino ad ora tutti i paesi dovevano avere riserve in dollari per acquistare il petrolio.
Inoltre, Pechino ha ridotto costantemente il suo portafoglio di buoni del tesoro statunitensi. Lo scorso maggio ha raggiunto i 980,8 miliardi di dollari. Si tratta ovviamente di un dato ancora significativo, ma è la prima volta in dodici anni che scende sotto la soglia dei 1.000 miliardi di dollari.
Chalmers Johnson aveva intuito meglio di altri il cambiamento della marea. Per lui, gli Stati Uniti devono accettare l’inevitabile passaggio a un mondo multipolare, ritirare le proprie basi militari nel mondo e riportare a casa le truppe. Ponendo fine alla spesa parassitaria, gli Stati Uniti possono reinvestire nelle infrastrutture e nell’economia produttiva.
In un certo senso, la Cina sta dando ragione a Chalmers Johnson. Si sta avviando a diventare la più grande economia del mondo, senza combattere guerre costose e senza costruire migliaia di basi militari in tutto il mondo. Non ha avuto bisogno di organizzare colpi di stato per diventare il principale partner economico di molti paesi.
Questo è il percorso che Chalmers Johnson sostiene concentrandosi sull’economia piuttosto che sull’esercito. Gli Stati Uniti sono un paese giovane con molte risorse. Ha vantaggi comparativi. Ma oggi ci sono 500.000 senzatetto per le strade degli Stati Uniti e il tasso di mortalità dlela popolazione è salito alle stelle. Ci sono anche due milioni di carcerati su un totale di undici milioni in tutto il mondo. Il tasso di povertà infantile è del 17%, uno dei più alti del mondo sviluppato secondo il Columbia University Center on Poverty and Social Policy.
L’imperialismo sta distruggendo gli Stati Uniti dall’interno e non ha impedito ai due grandi rivali, Russia e Cina, di conquistare potere. Questo aumento di potere indebolisce le posizioni dell’imperialismo statunitense nel mondo.
Questo si può vedere nelle relazioni che gli Stati Uniti hanno con i loro vassalli storici. Diversi paesi dell’Asia centrale si sono avvicinati alla Russia perché gli interessi reciproci sono coincidenti. Questo è particolarmente vero per la Turchia, un attore importante. Sebbene sia in una situazione contraddittoria, ha conosciuto un notevole sviluppo economico e possiede una forte base industriale.
La Turchia si è data i mezzi per essere indipendente e non sacrificherà le sue relazioni con la Russia per compiacere gli Stati Uniti se questo va contro i suoi interessi. La Turchia importa il 25% del suo petrolio e il 45% del suo gas dalla Russia. I turisti russi rappresentano un quinto dei visitatori della Turchia, per un valore di 5 miliardi di dollari all’anno.
La Russia è anche il cliente più importante per i prodotti ortofrutticoli freschi della Turchia. Assorbe il 30% delle esportazioni turche. Queste esportazioni sono aumentate dopo le prime sanzioni dell’UE contro la Russia nel 2014. Prima di queste sanzioni e dell’embargo imposto da Mosca, il Belgio esportava circa 230 milioni di euro di prodotti agroalimentari, tra cui il 60% delle pere.
In realtà, le sanzioni occidentali hanno solo rafforzato le relazioni economiche tra Russia e Turchia. E questo è continuato anche dopo la guerra in Ucraina. Indipendentemente dalle minacce di Washington alle organizzazioni imprenditoriali turche, le esportazioni verso la Russia tra maggio e luglio sono aumentate di quasi il 50% rispetto all’anno scorso.
I datori di lavoro turchi non sono gli unici a sfidare le minacce di Washington. Come abbiamo visto anche in Africa, molti paesi si rifiutano di sacrificare le loro relazioni con la Russia e la Cina. Perché l’Africa sta perdendo interesse verso l’Occidente?
Di recente ho parlato con un senatore keniota. Quello che mi ha detto illustra la mentalità degli africani in questo momento. Mi disse che qualche settimana prima aveva pranzato con un diplomatico statunitense. Un pranzo durato due ore. E per due ore il diplomatico ha continuato a dirgli: “Non lavorare con la Cina, non lavorare con la Cina“.
Il senatore ha risposto: “Gli Stati Uniti sono in Kenya da 50 anni e non hanno costruito nemmeno un bagno. Perché non dovremmo lavorare con la Cina? Almeno dacci un motivo". Il diplomatico non gli ha mai risposto, ha solo ripetuto: “Non lavorare con la Cina“.
Ma il fatto è che gli Stati Uniti non possono fermare gli investimenti cinesi in Africa. Soprattutto, lo sviluppo della Cina offre un vantaggio comparativo ai paesi africani. Questi paesi dispongono di molte materie prime. Ora possono vendere al miglior offerente piuttosto che subire il saccheggio neocoloniale. E il mercato cinese offre enormi opportunità alle economie africane in crescita.
Le importazioni cinesi dall’Africa sono state pari a 106 miliardi di dollari nel 2021. Ma Pechino punta a raggiungere i 300 miliardi di dollari entro il 2025, il che renderebbe la Cina la prima destinazione delle esportazioni africane.
La competizione con la Cina spiega l’interesse degli Stati Uniti per l’Africa? Storicamente, non è la regione del mondo in cui Washington è stata più coinvolta.
Questo interesse non è nuovo. Come nazione giovane e in rapido sviluppo, gli Stati Uniti si interessarono all’Africa già all’inizio del XX secolo. Hanno sostenuto fortemente la decolonizzazione del continente per indebolire i rivali europei e per penetrare nel mercato africano che era stato chiuso dalle potenze coloniali. Gradualmente, l’influenza dell’Europa diminuì e gli Stati Uniti iniziarono ad aprirsi una strada in Africa. In particolare in Etiopia. Ma la rivoluzione sovietica del 1917, le guerre mondiali e la guerra fredda indussero Washington a riconsiderare i suoi piani.
Gli europei avevano perso il loro paradiso in seguito alla Seconda Guerra Mondiale. Per mantenere vivo il loro sogno e per contenere l’influenza sovietica, Washington permise loro di sfruttare nuovamente l’Africa.
Il neocolonialismo prese così il sopravvento. In teoria, gli Stati africani erano diventati indipendenti, ma in pratica erano ancora dipendenti dalle e potenze coloniali. A quel tempo, gli Stati Uniti non avevano bisogno delle risorse dell’Africa. Da allora, però, Cina, Russia e altri concorrenti sono entrati nella mischia. Ora gli Stati Uniti hanno bisogno delle risorse dell’Africa e temono soprattutto l’arrivo dei loro rivali. Ecco perché vogliono dominare l’Africa.
È possibile che riprendano il controllo?
Negli anni ’90, un consigliere del presidente Clinton sviluppò una strategia per dominare il continente. Ispirandosi a Brzezinski, Anhtony Lake sosteneva di poter contare su quattro stati cardine: l’Egitto a nord, la Nigeria a ovest, l’Etiopia a est e il Sudafrica a sud.
Questi Stati ricchi di risorse dovevano fungere da poliziotti di quartiere per gli Stati Uniti e consentire un controllo economico del continente. Se un paese, un’organizzazione politica o un movimento popolare cerca di fare la differenza, tu sovvenzioni le forze di pace e il tuo vassallo combatterà per te.
Negli anni ’90 la Nigeria è intervenuta in Liberia e Sierra Leone. L’amministrazione Clinton era soddisfatta del fatto che la Nigeria stesse fornendo “la maggior parte dei muscoli” in quelle operazioni. Allo stesso modo, il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray (TPLF) al potere in Etiopia ha attaccato la Somalia nel 2007. Non aveva alcun interesse a farlo, se non quello di obbedire al suo padrone.
Questa strategia era una forma di imperialismo a basso costo, una sorta di esternalizzazione. Gli Stati Uniti non hanno avuto bisogno di impegnare le loro forze militari, gli Stati vassalli hanno combattuto per loro e hanno creato un clima di terrore che ha incoraggiato la sottomissione. Il problema per Washington fu che tutti questi regimi fantoccio crollarono.
Il TPLF è stato estromesso dal potere in Etiopia dopo 20 anni di dittatura di Zenawi. Ma il movimento è tornato alla ribalta delle cronache dopo essere entrato in guerra con il governo centrale e il suo primo ministro Abiy Ahmed. In ottobre il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha espresso la preoccupazione che la situazione fosse “fuori controllo”. E il TPLF chiede l’intervento dell’Occidente. Pensi che gli Stati Uniti possano inviare truppe in Etiopia?
Utilizzando il principio coloniale del divide et impera, il TPLF ha istituito il federalismo etnico in Etiopia. Dopo essere stati estromessi dal potere, i suoi leader corrotti che si erano ritirati nella provincia del Tigray hanno lanciato una prima offensiva nel 2020. Ma sono stati respinti dall’esercito etiope con l’aiuto dell’Eritrea. Il Primo Ministro chiese quindi agli eritrei di lasciare la regione e il TPLF tornò alla carica, sostenuto dagli Stati Uniti.
Washington non interverrà. Per intervenire, devi avere delle risorse con cui giocare. Ma il suo burattino TPLF è rotto. Da quando il TPLF è stato estromesso dal potere, Etiopia ed Eritrea si sono riconciliate.
Ci sono stati anche contatti tra diversi paesi della regione che hanno portato all’Iniziativa del Corno d’Africa. Si tratta di un progetto di cooperazione tra Gibuti, Somalia, Kenya, Etiopia, Eritrea, Sudan e Sud Sudan che mira a un approccio regionale per sviluppare il Corno d’Africa, affrontare questioni di sicurezza, sociali e climatiche, promuovere il commercio e favorire la connettività delle infrastrutture. In questo contesto, il TPLF è giustamente visto come un movimento etnofascista. Non ha futuro.
Undici anni fa, in “La strategia del caos”, hai spiegato che il Corno d’Africa è situato in una posizione strategica e possiede molte risorse. E che se i paesi della regione si liberassero dal neocolonialismo e unissero le forze, sarebbero in grado di uscire dalla povertà. Siamo già a questo punto?
Siamo a buon punto. E gli imperialisti hanno ovviamente paura di perdere il controllo di questa regione strategica. Gli Stati Uniti contano ora su Israele per fare il poliziotto del Corno d’Africa. E cercheranno di creare problemi tra Eritrea ed Etiopia. Ma se il Primo Ministro Abiy Ahmed seguirà questa strada, cadrà.
Da chi è guidato?
Dal popolo etiope. L’imperialismo ha sempre voluto creare contraddizioni tra i popoli. Quando gli africani si combattono tra loro, gli imperialisti se ne stanno seduti a ridere dello spettacolo.
Ma la strategia del divide et impera non funziona più come un tempo, perché il livello di consapevolezza politica del popolo africano è progredito. Capiscono chi è il loro vero nemico. Sanno che le contraddizioni interne possono essere risolte attraverso il dialogo e che la loro sfida più grande è quella di liberarsi dal saccheggio neocoloniale.
Gli Stati Uniti hanno perso l’Etiopia in Africa orientale. Nel Nord, anche l’Egitto sembra allontanarsi. Questo storico alleato, il secondo paese estero più assistito da Washington dopo Israele, si sta rivolgendo sempre più alla Russia. Come si spiega questa inversione di tendenza?
Dal rovesciamento di Mubarak, l’élite egiziana ha ballato il tip tap. Allineato con l’Occidente dalla morte di Nasser, il paese era governato da una borghesia puramente compradora, priva di un progetto di sviluppo del paese. Si è arricchita esportando le materie prime e importando i prodotti necessari. Le condizioni di vita degli egiziani erano terribili.
Dal rovesciamento di Mubarak, la borghesia egiziana ha temuto una nuova rivolta popolare. Il popolo ha imparato a ribellarsi. Sebbene non sia sfociata in una vera e propria rivoluzione, ha gettato nel panico la classe dirigente e ha in qualche modo indebolito il dominio statunitense sull’Egitto.
La borghesia egiziana può ancora comportarsi come una marionetta dell’imperialismo, ma come ho detto, sta giocando a tip tap. Balla da un lato, poi dall’altro. Ciò che è certo è che non saranno più in grado di difendere gli interessi dei loro padroni imperialisti come facevano ai tempi di Sadat e Mubarak. Inoltre, alcuni segmenti della borghesia egiziana nutrono sentimenti nazionalisti e vogliono sviluppare il proprio mercato. Per questo motivo Al-Sisi ha stretto un partenariato strategico con la Russia nel 2018 per ridurre la sua dipendenza dagli Stati Uniti.
Lo scorso luglio, la società statale russa Rosatom ha avviato la creazione del primo reattore nucleare egiziano. La società tedesca Siemens si è inoltre aggiudicata uno storico contratto da 8,1 miliardi di dollari per modernizzare la rete ferroviaria egiziana. E va ricordato che l’Egitto è stato uno dei primi paesi ad aderire al progetto cinese delle Nuove Vie della Seta. Da allora, le relazioni tra Pechino e Il Cairo hanno continuato a rafforzarsi.
Il calcolo della borghesia egiziana è semplice: perché accontentarsi di piccoli furti e fare il burattino dell’imperialismo statunitense quando si ha la possibilità di raccogliere molta più ricchezza? L’Egitto non è un paese piccolo. È stata una delle economie più importanti della regione. Ha il potenziale per diventare forte come la Turchia. La posizione in cui l’Egitto è stato tenuto negli ultimi cinquant’anni è umiliante.
Non sono solo gli Stati Uniti a perdere influenza in Africa. In Mali, la Francia ha dovuto fare i bagagli.
Il rifiuto delle truppe francesi dimostra come il livello di consapevolezza politica sia aumentato anche in Mali. La Francia aveva giocato a fare il pompiere in quel paese. Ha sostenuto i combattenti indipendentisti tuareg mentre il suo alleato del Qatar ha appoggiato i movimenti terroristici nel nord del Mali senza alcuna riluttanza da parte di Parigi.
Fortemente dipendente dalla Francia, anche la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS) aveva bloccato la consegna delle armi necessarie all’esercito maliano per respingere l’offensiva dei ribelli. Quando il governo maliano non ha avuto altra scelta che rivolgersi alla Francia, François Hollande ha lanciato l’Operazione Serval nel 2013.
Questa operazione ha permesso di riconquistare il controllo del Nord, ma la Francia si è poi impegnata in un doppio gioco riportando i Tuareg dell’MNLA sulla mappa. Queste manovre hanno messo il presidente Ibrahim Boubacar Keïta in una posizione difficile. Era stato ampiamente eletto per difendere l’integrità territoriale del Mali. Le tensioni hanno portato a nuovi scontri tra l’esercito maliano e i ribelli del nord, giustificando una presenza prolungata delle truppe francesi.
Qual è l’interesse della Francia per il Mali?
Il controllo del corridoio del Sahel, ricco di minerali e idrocarburi, è essenziale per la Francia. Anche il Presidente Jacques Chirac lo ha riconosciuto: “Gran parte del denaro che abbiamo in cassa proviene proprio dallo sfruttamento, per secoli, dell’Africa”.
La Francia cerca quindi di mantenere il suo controllo su questa regione. Il primo presidente del Mali, Modibo Keïta, fu rovesciato da un colpo di stato sostenuto dai francesi nel 1968. Ha sbagliato ad essere panafricanista, ad opporsi alle strategie coloniali, a sostenere l’Algeria e ad aver abbandonato il franco CFA. Da allora, Parigi si è assicurata che il Mali rimanesse nel suo ovile, non esitando, quando necessario, a giocare sulle contraddizioni ereditate dal colonialismo tra il Nord e il Sud.
Ma questa strategia non funziona più come un tempo. C’è stata una grande mobilitazione popolare per far uscire la Francia dal Mali. L’Occidente cercò di vendicarsi approvando sanzioni economiche contro i militari che avevano preso il potere dopo il colpo di stato del 2021. Sono stati accusati di aver sacrificato la democrazia rinviando le elezioni. Avevano assicurato al governo che non intendevano rimanere al potere, ma che avevano bisogno di tempo per mettere in sicurezza il paese, riformare le istituzioni e organizzare un’elezione in buone condizioni. La decisione di rinviare le elezioni è stata presa dopo un’ampia consultazione.
L’esercito gode anche di un ampio sostegno popolare, come è stato dimostrato in diverse occasioni in Mali e in altri paesi africani. Ma in modo molto ipocrita, per imporre la “loro” democrazia, gli imperialisti hanno chiesto ai propri burattini della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale di imporre sanzioni al Mali: chiusura delle frontiere tra il Mali e i paesi dell’ECOWAS, sospensione di tutte le transazioni commerciali, congelamento dei beni e sospensione del Mali da tutti gli aiuti delle istituzioni finanziarie dell’ECOWAS.
L’obiettivo era chiaramente quello di asfissiare il Mali. I militari si sono impegnati a cedere il potere ai civili entro e non oltre il marzo 2024. Soprattutto, c’è stata di nuovo una forte mobilitazione. E le sanzioni sono state finalmente revocate lo scorso luglio. Si tratta di una vittoria importante per il popolo maliano.
La Francia dovette andarsene e l’esercito maliano si rivolse alla Russia per combattere la ribellione. Bamako ha inoltre sospeso le trasmissioni di Radio France Internationale e France 24. Le autorità maliane accusano Parigi di aver sostenuto i movimenti terroristici del nord. Il Mali è finito per la Francia?
Oggi c’è una nuova generazione di maliani più istruiti: sociologi, economisti, scienziati politici, storici, ecc. Questi intellettuali hanno un’analisi migliore delle classi sociali in Mali, ma anche in Francia. Sanno come funziona questo paese imperialista, le sue élite, i suoi ideologi. Non è un mistero. La Francia non è un luogo speciale, è un paese normale con 67 milioni di abitanti.
Il popolo maliano sa quali sono le motivazioni della Francia. La loro coscienza si sta elevando e ne stiamo vedendo i risultati. Per il momento, attraverso mobilitazioni popolari e colpi di stato. Ma domani potrebbe portare a progetti politici di maggior successo grazie a questo livello di consapevolezza.
È la fine del neocolonialismo?
Nella sua vecchia forma, il neocolonialismo è morto. La borghesia neocoloniale non può adattarsi a questa nuova situazione. Come potrebbe?
E questo è il risultato del passaggio a un mondo multipolare?
Sta contribuendo a questo, con il risveglio dei popoli. Ma le potenze occidentali non possono adattarsi ad essa. L’immagine del Mali nei media francesi è completamente alterata. È un paese molto grande, con immense risorse e brillanti intellettuali. Ma se chiedi a un passante francese cos’è il Mali, ti dirà che è un enorme deserto.
L’imperialismo trae la sua forza dalle false rappresentazioni che costruisce. Le potenze imperialiste si spacciano così per i più forti, i salvatori che vengono in aiuto dei popoli diseredati. In realtà, è come se un ladro ti svuotasse le tasche e poi ti lanciasse una moneta facendola passare per un atto di carità.
Vuoi dire che l’Occidente mantiene l’immagine di un’Africa povera, ma che la realtà è diversa?
Sì, è così. La Nigeria è un esempio perfetto. È la più grande economia del continente. La sua capitale, Lagos, conta 10.000 milionari. L’uomo più ricco dell’Africa è nigeriano. La fortuna di Aliko Dangote è stimata da Forbes in 13,9 miliardi di dollari. Più dell’uomo più ricco del Belgio! Anche se di tanto in tanto ha attraversato delle crisi, negli ultimi anni l’economia nigeriana ha avuto un forte sviluppo.
Grazie al petrolio?
La Nigeria è infatti il più grande produttore dell’Africa. Ma il petrolio rappresenta solo il 17% del PIL. Nella pura tradizione neocoloniale, la Nigeria avrebbe potuto vivere dei suoi proventi petroliferi e importare tutti i prodotti di cui aveva bisogno. Ma la classe dirigente è ora più istruita e sta investendo per sviluppare il paese.
Prendi il petrolio. Oggi la Nigeria ha una scarsa capacità di raffinazione. Quindi le entrate generate dall’esportazione del greggio coprono a malapena l’importazione di benzina. Ci sono persino delle carenze.
Ma Aliko Dangote sta costruendo una gigantesca raffineria con attrezzature cinesi. 19 miliardi di euro di investimenti per una capacità prevista di 650.000 barili di petrolio al giorno. Prima per rifornire il mercato locale, poi per coprire gli altri mercati del continente. Questo mega-progetto garantirà la sicurezza energetica del Paese e stimolerà lo sviluppo economico della Nigeria.
La stessa logica si applica all’agricoltura, che rappresenta il 25% del PIL. L’Africa è un continente che offre tutta la frutta, la verdura e i cereali che puoi desiderare. Oggi molti di questi prodotti vengono esportati allo stato grezzo per una cifra irrisoria, mentre l’importazione di prodotti agroalimentari trasformati costa moltissimo.
Il vicepresidente del Nigeria Agribusiness Group stima che per ogni dollaro guadagnato dalle esportazioni di materie prime nel 2016, la Nigeria avrebbe potuto guadagnare 10 volte quel valore se avesse lavorato tutte le materie prime esportate.
In Africa occidentale, Benin, Burkina Faso e Mali esportano 922 milioni di dollari di cotone grezzo, ma importano 2,4 miliardi di dollari di prodotti tessili e di abbigliamento in cotone finiti. La Nigeria sta cercando di invertire la tendenza. Sta investendo molto nella sua capacità di trasformazione agroalimentare.
Sebbene in Nigeria ci siano dei miliardari, le disuguaglianze sociali rimangono elevate. Secondo Oxfam, più della metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, una persona su quattro non ha accesso all’acqua potabile e dieci milioni di bambini non vanno a scuola.
Con la giusta leadership, la Nigeria ha la capacità di rispondere a queste sfide e di unirsi ai paesi emergenti. Questo non è possibile per un paese del Sud finché le sue ricchezze vengono saccheggiate e dipende dagli “aiuti” internazionali, che in realtà sono un meccanismo di schiavitù.
La Nigeria ha preso in mano la sua economia. È un paese di quasi 200 milioni di persone. Esiste quindi un mercato domestico di consumatori molto ampio. Si sta sviluppando una classe media e il settore immobiliare ha registrato un boom. I due uomini più ricchi del paese sono attivi nell’industria del cemento. Anche il settore delle telecomunicazioni è in rapida crescita: 15,9% del PIL nel 2020.
Fino a pochi anni fa, le multinazionali occidentali avevano il monopolio. Oggi la Nigeria ha i suoi satelliti, lanciati dalla Cina. La Nigeria ha anche un accordo di cooperazione spaziale con l’India. Vale la pena notare che l’India e la Cina sono i due principali partner economici della Nigeria.
Questa ex colonia britannica era uno degli Stati cardine su cui Washington contava per controllare l’Africa. Un altro schiaffo all’Occidente?
Le potenze imperialiste hanno sempre sfruttato le differenze etniche per stabilire il loro controllo sull’Africa. La Nigeria non fa eccezione. Gli inglesi arrivarono a creare nuovi gruppi etnici raggruppando artificialmente le comunità. L’amministrazione ha poi favorito alcuni gruppi, ponendo le basi per futuri conflitti.
“Il paesaggio politico costruito dal colonizzatore ha favorito l’esistenza di partiti etnici regionali guidati dalle borghesie o dalle aristocrazie di ciascuno dei tre gruppi dominanti e ha sistematicamente combattuto e disgregato le formazioni politiche nazionali“, riassume il sociologo Saïd Bouamama. Questa situazione portò alla terribile guerra del Biafra tra il 1967 e il 1970.
La Francia era coinvolta, sostenendo i secessionisti del Biafra, una regione della Nigeria orientale ricca di idrocarburi. Il mondo ha visto le immagini dei bambini africani che muoiono di fame. La guerra del Biafra è stata la prima grande strumentalizzazione della causa umanitaria. Con l’aiuto degli inglesi, le forze federali riuscirono infine a riprendere il controllo della regione. Non senza difficoltà. “Ci sono stati più morti in Biafra in dieci mesi che in tre anni in Vietnam“, lamentava il presidente ivoriano su France Inter nel 1968.
Con la fine della guerra e lo shock petrolifero del 1973, la Nigeria vide esplodere le sue entrate. Ma un’élite corrotta si è appropriata della ricchezza deviando la rabbia popolare.
“Per attirare il sostegno della popolazione nella loro ricerca del potere, le élite sembrano mostrare solidarietà con le masse dando la colpa delle loro difficili condizioni di vita alle “contro-élite”, spesso presentate come “outsider”. (...) Per ‘esterni’ intendono principalmente le compagnie petrolifere, il governo federale e le élite dei tre gruppi etnici più influenti della Nigeria, che raggruppano sotto l’acronimo Wazodia“, spiega Ukoha Ukiwo, un ricercatore nigeriano.
È questo il contesto in cui è nato il gruppo terroristico Boko Haram?
Sì, lo era. All’inizio il movimento non era violento. Ha creato una comunità di persone deluse che denunciavano l’occidentalizzazione della Nigeria, la mancanza di rispetto per la Sharia e le disuguaglianze sociali. Con la crescita del movimento, la repressione si è intensificata, fino a sfociare in un vero e proprio conflitto armato.
Approfittando della corruzione di alcuni generali, della disgregazione della Libia e delle collaborazioni con altri movimenti jihadisti sponsorizzati dalle monarchie del Golfo, Boko Haram è cresciuto di potere.
Gli Stati Uniti hanno quindi cercato di utilizzare la guerra al terrorismo come strumento per un’ulteriore interferenza in Nigeria. Washington era particolarmente preoccupata per la crescente presenza della Cina. Dalla metà degli anni 2000, la Nigeria ha cercato di diversificare i suoi partner nel settore petrolifero. Questa politica di apertura ha favorito soprattutto le aziende cinesi.
L’insurrezione di Boko Haram è ora limitata a una parte del nord-est. Tuttavia, secondo il Capo di Stato Maggiore nigeriano, il conflitto ha causato 100.000 morti e 2 milioni di sfollati. Il problema riguarda l’intera regione. Anche i gruppi armati del nord-ovest e della Nigeria centrale sono stati etichettati come terroristi dal governo dopo gli attacchi mortali dello scorso marzo. Pensi che l’intervento degli Stati Uniti sia ancora possibile?
Né in Mali né in Nigeria potranno intervenire. Come ho detto, oggi in questi paesi ci sono molti più intellettuali istruiti. Denunciano la strumentalizzazione delle differenze etniche e religiose e aumentano il livello di consapevolezza politica. Il neocolonialismo viene smascherato, queste vecchie ricette non sono più un mistero.
Qualche settimana fa, stavo parlando con un tassista di Nairobi del vertice annunciato da Joe Biden tra gli Stati Uniti e diverse decine di paesi africani. Ufficialmente per affrontare sfide che vanno dalla sicurezza alimentare ai cambiamenti climatici. Il taxista si mise a ridere e mi disse che era solo un altro dei loro trucchi per saccheggiare l’Africa.
Le élite del continente vogliono sviluppare le loro economie, c’è un enorme potenziale. Sanno che le guerre non fanno bene agli affari. E sanno cosa succede quando le potenze occidentali intervengono. Gli africani capiscono che devono risolvere le loro contraddizioni tra di loro. Solo in Occidente si crede ancora a tutta questa propaganda sulle guerre umanitarie e sul presunto interesse dei leader della NATO per la democrazia e i diritti umani.
In un certo senso, mi dispiace per i lavoratori europei che sono doppiamente vittimizzati. In teoria, tutti vogliono poter mandare i propri figli in buone scuole o andare in ospedale quando sono malati. Tutti vogliono buone strade, buoni trasporti, lavoro e condizioni di vita dignitose. D’altra parte, gli esseri umani sono esseri sociali. Le persone, per natura, amano vivere insieme, vedere le loro famiglie e avere dei vicini amichevoli.
Ma la ricchezza dei lavoratori europei viene sottratta da una minoranza che diventa sempre più ricca. C’è un significativo sottoinvestimento nell’istruzione e nell’assistenza sanitaria. E i lavoratori sono tenuti all’oscuro di tutto.
Tutti questi ciarlatani, questi nazionalisti xenofobi vengono con le loro false idee per convincere i lavoratori europei che il problema sono gli stranieri, l’Islam o Dio sa cosa. È un virus che chiude le menti delle persone. Vengono messi in gabbia e ricevono immagini falsificate della realtà del mondo. Ecco perché i lavoratori europei sono doppiamente vittimizzati!
Come vedi il futuro dell’Africa?
Devi guardare al futuro dell’umanità nel suo complesso, piuttosto che al futuro della sola Africa. Il mondo unipolare sta morendo e sta emergendo un nuovo pensiero. Resta da vedere se le forze razziste e imperialiste del vecchio mondo accetteranno il nuovo mondo multipolare. O cercheranno di mantenere le loro posizioni, contro ogni previsione, portando a una guerra mondiale? Solo il tempo ce lo dirà.
Ciò che è certo è che se le potenze imperialiste entrano in guerra, saranno sconfitte. Non sarà la fine della storia, come dice Fukuyama, ma sarà la fine di una storia, come dice Mohamed Hassan.
Gli Stati Uniti potrebbero rinunciare pacificamente alla loro egemonia? Per ora, sembra piuttosto di no.
La domanda, a mio avviso, è: i lavoratori europei accetteranno condizioni di vita miserevoli? La classe imperialista ha i suoi interessi di classe. Non rinsaviranno improvvisamente e accetteranno il mondo multipolare. Ma i lavoratori possono decidere cosa accadrà in seguito. Come in Africa, anche in Europa il livello di coscienza politica aumenterà.
Gli Stati Uniti hanno creato l’immagine della Russia come nemico degli europei. Ma come possiamo vedere da questa guerra, è Washington che sta danneggiando terribilmente l’Europa. La guerra in Ucraina non è solo una guerra per procura contro la Russia. È anche una guerra per garantire che l’Europa – e in particolare la Germania – non si rivolga verso est e rimanga dipendente dagli Stati Uniti.
Se la crisi continua e le condizioni dei lavoratori peggiorano, si renderanno conto che la Russia fa parte dell’Europa. Allora gli Stati Uniti avranno perso psicologicamente. La classe dirigente europea si troverà in una posizione in cui non potrà più vivere come prima. E i lavoratori capiranno che non possono più vivere come prima.
Le condizioni per una situazione rivoluzionaria, secondo Lenin...
Esattamente. Arriverà.
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