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11/11/2022

Se Shanghai sfida la City

di Guido Salerno Aletta

Altri tempi. Eppure era stata una delle accoglienze più fastose che si fossero mai viste da decenni, a Londra nell'ottobre del 2015, per l'arrivo del Premier cinese Xi Jinping: la stessa Regina Elisabetta lo ricevette con ogni onore, attraversando in corteo la città tra due ali di folla plaudente.

E qualcuno in India si adontò pure, visto che nei discorsi si faceva spesso riferimento alla Cina come alla "più grande democrazia del mondo": quel merito, caso mai, sarebbe spettato a Nuova Delhi e non certo a Pechino, dove il Partito Comunista Cinese la fa da padrone. Solo parole, si dirà, che svelano però i rapporti mai idilliaci tra i due Paesi.

L'India, d'altra parte, è sempre stata gelosa dei suoi rapporti preferenziali con la Gran Bretagna: il processo di decolonizzazione, per quanto complesso, non ha lasciato affatto le acredini che invece caratterizzano ancora le relazioni della Francia con l'Algeria.

In quegli anni, parliamo del 2015, Londra aveva l'ambizione di essere il primo partner politico e finanziario della Cina: dopo la crisi americana del 2008 e la baraonda che aveva colpito Wall Street, era il momento opportuno per fare un passo in avanti.

D'altra parte, la Cina era assai attenta alla evoluzione dei rapporti con Washington, caratterizzati dalla stipula proprio in quei giorni dell'ottobre del 2015 della TPP (Trans Pacific Partnership), il Trattato di cooperazione economica di cui si era cominciato a discutere su iniziativa della Amministrazione Obama e da cui Pechino era stata volutamente esclusa.

La Cina rischiava già l'isolamento internazionale, come la Russia, che a sua volta veniva esclusa dall'altro Trattato di cooperazione economica tra Usa ed Ue, il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership).

Dopo alterne vicende, il TTIP non fu mai firmato per le tante eccezioni poste da parte europea, mentre fu lo stesso Presidente Donald Trump a recedere dal TPP che era stato firmato. Alla fine, la strategia del "doppio gancio" elaborata della Amministrazione Obama non era andata a buon fine: Trump riteneva che ogni accordo commerciale era dannoso per gli Usa, e che la strada maestra per addrizzare i conti con l'estero fossero i dazi.

La Gran Bretagna cercò dunque di approfittare di questa situazione di freddezza tra Washinton e Pechino per candidarsi alla partnership strategica: la City è da secoli la piazza finanziaria che raccoglie capitali da tutto il mondo per reinvestirli dappertutto. E nessuno come la Banca d'Inghilterra ha una storia così lunga ed una esperienza così profonda nella gestione di una moneta internazionale come lo fu la Sterlina, per oltre un secolo il caposaldo del sistema mondiale. Nessuno poteva assistere meglio Pechino nella trasformazione dello yuan in una moneta pienamente convertibile sul piano internazionale.

La Borsa di Londra, al contrario, non è minimamente paragonabile a quella di Wall Street, che raccoglie una immensa liquidità internazionale che si riversa sui diversi listini. Le stesse aziende cinesi hanno per lungo tempo ambito alla doppia quotazione, proprio per approfittare del fiume inesauribile di capitali che gira a New York.

Mentre già si delineava la Brexit, con il referendum tenutosi nel 2016, occorreva trovare un nuovo ruolo internazionale alla Gran Bretagna: usare la City come ponte finanziario della Cina verso il resto del mondo.

Da allora tutto è cambiato: gli Usa ritengono che la Cina sia un competitor geopolitico troppo pericoloso.

Dopo i dazi imposti dalla Amministrazione Trump, sono iniziati i divieti di esportazione di materiale strategico, di utilizzo di apparati di telecomunicazioni cinesi, di collaborazione nella produzione di chip avanzati. Parallelamente, è stata avviata una collaborazione militare nell'area del Pacifico, denominata AUKUS, che coalizza l'Australia, il Regno Unito e gli Stati Uniti.

La più recente questione di Taiwan non è che l'ultimo anello di una serie di iniziative volte a raffreddare la cooperazione statunitense con la Cina cui la Gran Bretagna si è andata immediatamente allineando come dimostrano le recentissime affermazioni del neo Premier britannico Rishi Sunak che ha annunciato la chiusura dei trenta "Istituti Confucio" presenti in Inghilterra, considerandoli come uno strumento per infiltrarsi nel mondo della cultura. Anche per l'Inghilterra, dunque, la Cina è diventata un pericoloso competitor.

Pechino, a questo punto, deve fare da sola: ad ottobre, il delisting di alcuni colossi cinesi sia da Wall Street che da Londra è stato un segnale significativo.

D'altra parte, sono ormai diversi mesi che la Cina ha smesso di reinvestire in titoli del Tesoro americano: le detenzioni si riducono a mano a mano che arrivano alle scadenze. Ha quindi la disponibilità liquida delle esportazioni in dollari, che può essere utilizzata per evitare un apprezzamento del dollaro sullo Yuan.

Ma, in prospettiva, Pechino deve accelerare la sua strategia di autonomia sia rispetto a Wall Street che nei confronti della City. Il brusco atteggiamento tenuto nei confronti della Banca centrale russa, con il congelamento delle riserve giacenti presso le corrispondenti, ha raffreddato ogni prospettiva di cooperazione.

Le iniziative cinesi volte ad usare le monete nazionali nel commercio con l'estero, usando i rubli e le rupie insieme allo yuan, sono un ulteriore passaggio verso un sistema meno dipendente dal dollaro.

Spetterà ora a Shanghai, che è già sede della Borsa, diventare anche il principale polo di intermediazione dei capitali internazionali verso la Cina e quelli della Cina stessa verso il resto del mondo, lasciando ad Hong Kong il suo ruolo storico di piazza legata ai traffici off-shore.

Non sarà più Londra a traghettare lo yuan verso i mercati globali.

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