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07/11/2022

Si fa presto a dire “pace”

Una fotografia formidabile dello smarrimento “culturale” della società italiana di fronte alla guerra.

Le tre manifestazioni di ieri erano molto diverse tra loro, dicono tutti. Quella di Milano – convocata da Calenda e Renzi – era apertamente per la continuazione della guerra fino alla vittoria. Ed è stata una passerella per vip guerrafondai senza alcun popolo. Quattro gatti davanti al palco, per lo più ucraini di ultradestra.
Nella manifestazione di Napoli, cui abbiamo partecipato (vedi l’articolo qui sotto), i temi dell’”economia di guerra”, e quindi delle conseguenze che stanno subendo le classi popolari, hanno avuto il peso più grande.

Ma stiamo parlando di una piazza decisamente militante, animata da organizzazioni sindacali conflittuali e collettivi politici della sinistra radicale, dunque con posizioni magari diverse sulla guerra e i responsabili, ma comunque solidamente argomentate.

A Roma, invece, si è squadernata la grande massa del “popolo della pace”. Centomila persone, più o meno non importa, che dimostrano fisicamente il peso di quella parte maggioritaria dell’”opinione pubblica” (circa il 60%, riferiscono stabilmente i sondaggi) contraria alla guerra e preoccupata di un’escalation verso il conflitto nucleare.

Un popolo disorientato, che risente pesantemente della “novità” di questa guerra. Un popolo – diciamolo sinteticamente – che era abituato a mobilitarsi per la pace secondo lo schema fisso del secondo dopoguerra: contro l’intervento militare degli Stati Uniti in una qualsiasi parte del mondo.

Stavolta lo schema si è rovesciato: secondo la narrazione dei media (del potere dominante) questa guerra è iniziata solo il 24 febbraio per iniziativa della Federazione Russa, e manifestamente la Nato (gli Usa) punta a proseguirla fino “alla vittoria”. Dell’Ucraina, o meglio di Washington.

Indagare e informarsi sui precedenti – il “golpe di Maidan del 2014, l’aggressione militare costante contro le repubbliche indipendentiste del Donbass, ecc. – è compito non facile per il “cittadino informato medio”. Richiede tempo, ricchezza di fonti alternative tra loro, un lavoro da “addetti ai lavori” sotto il fuoco costante dei media di regime e delle loro narrazioni di fantasia.

Stavolta, insomma, non si manifesta per fermare “gli eccessi” o “l’arbitrio” dei “nostri alleati”, contro una guerra in cui noi siamo tutto sommato spettatori televisivi, ma per interrompere un conflitto che già ora ci sta rovinando la vita e rischia di coinvolgerci in prima persona. E in cui c’è un “nemico” che – al contrario dei Saddam e dei Gheddafi, ecc. – non risulta già a prima vista un capro espiatorio di comodo.

La dimensione dello sbandamento che ne è nato è misurabile dal fatto che sono serviti ben otto mesi per arrivare a indire una manifestazione nazionale per la pace.

L’assenza di una “rappresentanza politica” pacifista e credibile è a sua volta misurabile dal fatto che è stato necessario che prendessero l’iniziativa le associazioni cattoliche più vicine all’attuale Pontefice, le uniche “non criticabili” secondo lo schema guerrafondaio egemone.

Solo dopo le più diverse fazioni politiche o la Cgil hanno osato “esporsi” dando la propria adesione, cercando ovviamente di “mettere il cappello” su una piazza che rappresenta una fetta maggioritaria dell’elettorato potenziale.

Solo dopo persino quei guerrafondai decerebrati del Pd hanno ritenuto di poter fare una comparsata in piazza e prendersi comunque fischi e insulti dalla propria ex “base elettorale”.

Lo sbandamento “culturale”, infine, si vede dalle parole d’ordine assolutamente anodine, quasi innocue, smontate dalla pressione di quegli stessi partiti parlamentari che avevano votato a favore dell’invio di armi.

Quella piazza e quella quota maggioritaria dell’”opinione pubblica” chiedono una rappresentanza politica adeguata, una capacità di iniziativa fuori – e oggettivamente contro – del mortifero allineamento alle decisioni di Nato e Unione Europea.

Costruire quella rappresentanza è una lotta, non un problema di “diversa offerta” sul mercato della politica.

I problemi con cui è necessario confrontarsi partono già dalle parole, dai significati orwelliani che si stanno imponendo col procedere dell’escalation in Occidente.

“Pace” è diventata un campo di battaglia. Per i guerrafondai significa “guerra fino alla vittoria”, fino alla riconquista ucraina della Crimea e del Donbass. Un obiettivo peraltro impossibile, militarmente, a meno di non prevedere un intervento diretto della Nato, che però avvicinerebbe enormemente la catastrofe nucleare.

L’appropriazione strumentale di vecchie parole d’ordine addirittura antagoniste segue la stessa logica. “Non c’è pace senza giustizia” (No justice, no peace), antica parola d’ordine delle rivolte urbane antirazziste, negli Usa come in Gran Bretagna, è stata rivoltata (in modo rivoltante) per dire appunto “guerra fino alla vittoria” di Kiev.

E così “pace giusta”.

Fuori di ogni astrattezza ideologica, in questa guerra “pace” significa intanto cessate il fuoco. O come gridava la parte più consapevole della piazza di ieri, “giù le armi, su i salari”.

Solo quando le armi tacciono può cominciare una vera trattativa di pace. Che non rappresenta mai, o quasi mai, la realizzazione delle pretese di una delle due parti.

Questo significa costringere il nostro imperialismo (l’alleanza euro-atlantica) perché faccia l’unica mossa che può fermare la guerra. Perché tutti sanno – soprattutto a Kiev – che questa non è una guerra tra Russia e Ucraina, ma tra Nato e Russia.

La piazza di Roma, ossia la maggioranza dell’”opinione pubblica” italiana, è ancora lontana da questa consapevolezza. Ma anche nel suo ancora confuso “bisogno di pace” segnala, se non altro, che nessuno – a Washington e Bruxelles (inutile citare gli antichi-nuovi servi a Palazzo Chigi) – può pensare di andare avanti a lungo sulla via dell’escalation senza dover pagare, prima o poi, un prezzo politico altissimo.

C’è molto da lavorare, con intelligenza e pazienza. L’egemonia culturale non cambia in un giorno...

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