Non si spengono le polemiche per la contestazione del docufilm “L’Urlo” di Michelangelo Severgnini avvenuta al Festival dei diritti umani a Napoli alcuni giorni fa.
Il film ha come tema quello dell’immigrazione dalla Libia in Italia attraverso il Mediterraneo, con il suo carico di morti e lo scontro politico sui salvataggi in mare. L’autore specifica che quello che gli interessava nel suo lavoro – preceduto da un libro-dossier con lo stesso titolo – più che gli sbarchi nel Mediterraneo era soprattutto la situazione dei migranti nei campi di detenzione in Libia, lager in mano a milizie con cui tutti, governi e non, stringono o devono stringere accordi.
Secondo Severgnini la narrazione per cui l’aspirazione dei migranti arrivati in Libia sia solo quella di arrivare finalmente in Europa, magari rischiando la vita in mare, non è del tutto veritiera. Per l’autore molti di essi vorrebbero tornare a casa perché vessati, rapinati, brutalizzati dai mercanti di esseri umani e dalle milizie.
Molti hanno finito i soldi e di fronte a nuove richieste sono costretti a mettere sotto ricatto le loro famiglie per farsene inviare altri. Non solo.
Arrivati in Libia, la prospettiva di attraversare il mare per andare in Europa si riduce enormemente, i tempi di permanenza nei lager si allungano a dismisura e si riaffaccia l’idea di tornare a casa, una scelta però impedita dalle bande criminali che li detengono e che li trasformano di fatto in schiavi. Alcuni vengono utilizzati come manodopera schiavizzata, altri invece vengono arruolati nelle milizie armate che scorrazzano in Libia e nell’Africa centrale.
L’idea di invogliarli a venire in Europa e magari creare le condizioni meno pericolose per farlo, secondo l’autore, non sarebbe dunque la migliore soluzione né l’unica possibile. Severgnini in alcuni passaggi critica le Ong perché in qualche modo alimentano questa idea. Al contrario bisognerebbe aiutarli a tornare a casa anche con l’intervento delle organizzazioni internazionali.
Una tesi che, pur partendo da presupposti politici e morali diversi, presenta diversi punti di contatto con quelle delle forze politiche più ferocemente anti-immigrazione come Lega e Fratelli d’Italia. Ma, come è noto, è molto difficile non correre il rischio di essere strumentalizzati quando si fa, si scrive, si agisce. Questo è vero per un film come quello di Severgnini ma anche per l’azione delle Ong.
Al festival di Napoli la proiezione del film è stata infatti bloccata dopo una ventina di minuti da esponenti di alcune Ong (Open Arms, Mediterranea) che, invitati alla presentazione, hanno mosso accuse pesanti all’autore presente in sala (qualcuna francamente del tutto sfarfallata, come quella di “antisemitismo”), accusandolo di veicolare “un messaggio sulle Ong degno di CasaPound“.
Una reazione che a occhio appare essere andata decisamente oltre le righe e che, paradossalmente, ha acceso più riflettori di quelli fin qui diretti sul film di Severgnini. Tanto che una consigliera di Fratelli d’Italia ha chiesto che venga inserito nella programmazione del Torino Film Festival e il presidente del Senato La Russa ha chiesto di incontrare il regista.
Inevitabile che i riflettori più attenti e strumentali siano stati quelli dei giornali di destra che hanno colto l’occasione per andare all’attacco dei “buonisti” e delle Ong impegnate nei salvataggi in mare. Del resto queste ultime sono sottoposte ad un fuoco di fila di insulti quasi quotidiani, basta andare a leggere i commenti sulle loro pagine facebook. Una pressione che può far saltare i nervi anche ai più bendisposti.
Abbiamo visto il video che resoconta quanto accaduto a Napoli, abbiamo ascoltato l’intervista rilasciata dall’autore de “L’Urlo” e cercato in giro spiegazioni tra i nostri contatti nel mondo delle Ong che si occupano di migranti. Non abbiamo registrato grande simpatia con il docufilm, ma neanche con la contestazione al lavoro di Severgnini.
Che la questione Libia e immigrazione sia un immenso verminaio e una rogna politica stellare è indubbio. In Italia responsabilità e scheletri nell’armadio abbondano.
Anni fa scrivevamo di come la scelta di molti al tempo di Minniti fosse quella delle tre scimmiette: “non vogliamo vedere, nè sentire, nè parlare su cosa succede in Libia, ma cavateci in ogni modo questa castagna dal fuoco”.
La politica d’urto e l’arroganza della destra sulla questione sono poi obiettivamente insopportabili e inaccettabili.
Ma la realtà dei lager in Libia e persino il contesto geopolitico in quel paese vanno valutati per quello che sono, o almeno per quello che se ne riesce a capire in uno scenario disseminato di trappole dovute alla strategia del caos che ha seguito il rovesciamento di Gheddafi (un dato questo confermatoci da molti attivisti politici africani).
Sostituire agli snodi amari e più rognosi della realtà la narrazione unilaterale del mondo delle Ong non è utile a nessuno, e forse una discussione aspra ma franca sarebbe stata immensamente meglio di una contestazione plateale di un docufilm che in fondo queste contraddizioni le ha segnalate. Decostruirle e contestarle nel merito a fine proiezione avrebbe ottenuto un risultato migliore.
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