Il cambio di paradigma
Quando parliamo di salute e in particolare di salute nei luoghi di lavoro non possiamo non considerarla come una condizione determinata socialmente. Con questo si intende che le condizioni di vita fuori e dentro i luoghi di lavoro sono determinate dai rapporti e dalle dinamiche di contrattazione, mediazione, scontro tra le categorie sociali e dalla presenza di istituti, organismi, modelli che nascondo in conseguenza a questo.
Queste dinamiche sociali, che nascono dai differenti bisogni, influenzano le scelte politiche sulla distribuzione e l’impiego delle risorse economiche da destinare alla salute e quindi al modello di salute.
Altro aspetto fondamentale che influenza l’adozione di un modello di salute piuttosto che un altro è l’approccio culturale e scientifico che si sceglie di adottare, ossia avere lenti che ricercano e analizzano i bisogni reali di salute di una determinata popolazione, in questo caso quella lavoratrice o un punto di vista esclusivamente aziendale.
Anch’esso è frutto e conseguenza delle dinamiche sociali. L’istituzione dei servizi di tutela e prevenzione, nati a seguito dell’istituzione del SSN, nascono proprio sulla scia della spinta del movimento dei lavoratori e dei tecnici e medici che hanno utilizzato i saperi per orientare la scienza e metterla a disposizione del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di questa popolazione.
Questi principi, accompagnati da un indebolimento anche su altri campi dell’agibilità e della rappresentanza nei luoghi di lavoro, oggi, sono sempre con maggior frequenza messi in sordina.
Infatti, stiamo drammaticamente sperimentando cosa significano due decenni di progressiva trasformazione della salute da diritto a merce: drastici tagli alla spesa e al personale, ingresso ed espansione dei privati, torsione aziendalistica anche della gestione pubblica.
Dall’elaborazione dei dati del ministero della Salute emerge che nel decennio 2008-2018 in Italia la spesa in prevenzione è sempre stata inferiore al 5% del totale della spesa sanitaria[1]. Ciò ha determinato la riduzione su tutto il territorio nazionale dei dipartimenti di prevenzione, quindi delle strutture organizzative, degli operatori e degli strumenti e mezzi a loro disposizione.
Contemporaneamente a ciò, dal punto di vista dei saperi, si sta riscontrando che tutti i concetti e le intuizioni operaie, dei primi medici e tecnici che parlarono di lavoro insalubre, come l’eliminazione degli inquinanti, delle sostanze dannose per l’uomo e l’ambiente dai cicli produttivi è superato dalla filosofia del grado di suscettibilità individuale.
Solo i forti, i più resistenti, gli idonei alle condizioni imposte dalla necropolitica del profitto sopravvivranno. Questo si delinea essere l’approccio anche nei luoghi di formazione dei professionisti della salute e della prevenzione in particolare.
La ricerca scientifica, i luoghi di sapere, i servizi di tutela ambientale e della salute sono permeati dal paradigma egemonico della distribuzione del rischio sull’individuo, che ignora la sua appartenenza a un gruppo sociale o economico. Gli indicatori come la “deprivazione” sembrano non essere mai esistiti.
L’approccio volto all’eliminazione della fonte del rischio, della trasformazione dell’ambiente e dell’organizzazione di lavoro e di vita, viene sostituito dal nuovo fondamento che ha come legge costituente ‹‹l’accettabilità del rischio››. La sua gestione segna il passaggio al post-moderno.
Con questa logica infinite risorse vengono concentrate e sprecate in un gioco perverso, che tralascia modelli predittivi e principi di precauzione e necessità, per far posto alla distribuzione del rischio sul singolo. La sua comprovata suscettibilità a una sostanza, la sua reazione all’inquinante decidono se è meritevole di vivere alle condizioni imposte dal profitto.
Gli studi condotti da Cesare Maltoni, sulla cancerogenicità dell’amianto, del cloruro di vinile, del benzene, dei clorofluorocarburi (CFC) e le intuizioni degli operai di Marghera, sembrano non essere mai esistiti.
I temi del lavoro diventano frammentari, speculari a quelle che sono state fino ad oggi le politiche del lavoro, con ripercussioni inconfutabili di indebolimento dei diritti e dell’agibilità sindacale.
Storicamente la salute nei luoghi di lavoro è stata percepita come bisogno reale soltanto dopo decenni di lotte in cui si è consolidato un insieme di strutture e norme in difesa dell’occupazione, di un giusto e degno salario, fino alla messa in discussione totale del sistema fabbrica, dei processi e dell’organizzazione del lavoro (esperienze: Comitato Politico degli operai di Porto Marghera; Convegno sindacale Torino 1970; nascita dei gruppi omogenei)[2].
Trattare le tematiche del lavoro soltanto sotto le lenti dei saperi iper-specialistici e frammentati, significa rinunciare alla loro socializzazione e ignorare le esperienze di chi sul proprio vissuto subisce questa condizione.
Questo spiana la strada a un modello di salute che si concentra sull’individuo, abbandonando la visione di salute come fatto sociale, con una popolazione di riferimento e i suoi bisogni reali, un approccio globale che mira a garantire realmente un livello di salute equo e universale.
Attualmente è assente un legame tra la direzione politica degli enti deputati al controllo e alla tutela delle condizioni di lavoro e il mondo del lavoro sindacalizzato o meno. Esiste un bisogno di creare collegamenti, ma questo bisogno vede un indebolimento in termini sia di risorse che di approcci culturali e metodologici che molto spesso nascono distorti e orientati verso il filo-aziendalismo già a partire dalla scuola e passando poi per le università dove si formano scienziati e tecnici.
Il quadro della salute e delle condizioni di lavoro. Alcuni dati
Negli ultimi anni in Italia oltre 4 mila lavoratrici e lavoratori sono morti sui luoghi di lavoro, quasi 4 milioni hanno riportato gravi ferite, traumi e danni di varia natura; circa 300 mila hanno subito un danno permanente; oltre 300 mila si sono ammalati perché esposti ad agenti inquinanti ed a ritmi di lavoro usuranti.
A fronte di questi numeri impressionanti le pene comminate ai responsabili per la mancata osservanza delle disposizioni normative in materia di prevenzione dei rischi per la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro sono molto tenui o di scarsa rilevanza.
Dal rapporto annuale 2021 dell’Ispettorato nazionale del lavoro emerge come l’Emila Romagna sia al primo posto per “Illecite esternalizzazioni di mano d’opera” in materia di appalti (1696 lavoratori coinvolti e 75% di coop irregolari).
I dati generali sugli indici di irregolarità dello stesso rapporto ci dicono: 62,3% di irregolarità, 82,3% di irregolarità previdenziali, di 92,5% irregolarità assicurativa. Oltre 480.000 lavoratori e lavoratrici irregolari (di cui 20.000 circa in nero).
A fianco a questa realtà indagata, a cui si aggiungerebbero gli indicatori sulla sicurezza e salute (1.221 morti, 555.236 infortuni complessivi e 55.288 denunce di malattie professionali +22.8% – fonte INAIL), nella sola provincia di Modena tra il 2018 e il 2020 si sono contati 481 processi penali per fatti connessi all’attività sindacale.
Il D.lgs 81/08, la L. 215/2021, i rapporti tra gli organi di vigilanza
Gli strumenti giuridici, in particolare il D.lgs 81/08, seppur hanno avuto il merito di riordinare la normativa prevenzionistiche italiana e attraverso i principi generali garantire una tenuta nelle tutele, nonostante la velocità con cui sta cambiando il mondo del lavoro, e le direttive e i regolamenti europei, conserva una struttura improntata sulla grande impresa e non permette spesso di intervenire come si dovrebbe sulla realtà complessa: frammentazione dei processi, delle organizzazioni, della forza lavoro e dei contratti, architettura produttiva e divisione del lavoro atomizzata, introduzione di tecnologie e sostanze, sviluppo e centralità dell’economia delle piattaforme, “deregolamentazione/liberalizzazione” (soprattutto coop, logistica ed edilizia) degli appalti (vedi tentativo di modifica nel settore logistico dell’art. 1667 del codice civile – principio di responsabilità solidale).
Questa è la fotografia parziale dello scenario su cui operatori, organi di vigilanza, rappresentanti dei lavoratori, sindacati devono intervenire attraverso gli strumenti giuridici in loro potere.
Con l’introduzione e il rafforzamento nell’applicazione dello strumento della sospensione dell’attività imprenditoriale, alla quale si aggiungono le pene accessorie, ci si era convinti che si potesse invertire la tendenza del fenomeno infortunistico (e a lungo termine delle malattie professionali, spesso trascurate, che ogni anno coinvolgono migliaia di persone con indici di invalidità e costi sociali elevatissimi e di qualità nella prospettiva di vita pessima).
Questo strumento oltre a non essere stato inserito in un intervento più organico della normativa che guardasse anche al rafforzamento del potere contrattuale e dell’agibilità reale dei lavoratori dentro i luoghi di lavoro, non ha ad oggi un grado di applicabilità agevole per gli operatori della prevenzione che dovrebbero utilizzarlo, oltre al fatto che questi restano esigui in termini numerici in rapporto alle aziende presenti nei territori.
In particolare, il provvedimento ha carattere amministrativo che sotto vari profili, soprattutto tempistici, mal si integra così come concepito, con lo strumento della prescrizione (ex D.lgs 758/94). Ciò produce per chi controlla le condizioni di lavoro un aggravio e un rallentamento delle attività e delle tempistiche di intervento, perché sottrae tempo agli altri interventi, (comunque da garantire sulla base degli obiettivi regionali e aziendali), abbassando di conseguenza la loro qualità in termini di ampiezza e profondità dei vari rischi presenti e aspetti ad essi collegati.
Diventa in tal modo la conciliazione dei procedimenti e dei diversi ambiti giuridici, in questo modo mischiati (amministrativo, penale, procedura penale).
A questo si aggiunge che tale strumento, stando alle scelte eterogenee fatte in ambiti regionali, vede in alcuni casi scaricare la responsabilità sul singolo operatore anziché sul servizio, quindi del dirigente responsabile. È per via di questo e degli altri aspetti descritti che, a oggi, esiste una qualche resistenza da parte degli operatori nell’applicare questo provvedimento.
Rispetto invece alla centralità dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, che la legge 215/2021 ha previsto, nel coordinamento tra gli organi di vigilanza delle attività e gli interventi, a quasi un anno dall’entrata in vigore, questa organizzazione sembra essere ancora macchinosa.
Pochi sono gli interventi congiunti tra gli organi e quasi nulla è stata la collaborazione in termini di condivisione delle informazioni e dei saperi. Se l’obiettivo reale era mettere in comune le forza e garantire interventi a 360 gradi, per estendere e rafforzare la tutela di lavoratori e lavoratrici, ciò possiamo dire non ha avuto gli effetti desiderati.
Anzi, questo all’interno dei servizi è vissuto quasi come una contesa, qualcosa che ricorda i film polizieschi americani, dove due organi di polizia si contendono il territorio e la reputazione in forma competitiva più che collaborativa. Tutto ciò ad oggi non giova ai lavoratori e alle lavoratrici.
Restano inoltre fuori dal campo di applicazione settori molto controversi come il trasporto ferroviario di merci e persone, dove permane un controllo in house da parte di Ferrovie dello Stato e delle società di trasporto delle condizioni di lavoro, di salute e sicurezza.
Proposte
Alcune proposte conseguenti a quanto sopra descritto che rivolgo a tutti e tutte.
1) Modifiche D.lgs 81/08:
- fissare dei criteri di valutazione dei rischi che tengano conto e siano quindi conformi alle norme tecniche di riferimento per le differenti tipologie di rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Rafforzare il concetto di “eliminazione del rischio alla fonte”;
- dare maggiore priorità alle misure di protezione collettive, fornendo ai lavoratori i Dpi solo se, nonostante l’adozione delle prime due tipologie di misure, rimane del rischio residuo;
- introdurre strumenti che diano potere agli organi di vigilanza per intervenire in maniera prescrittiva sui ritmi, i carichi e gli orari di lavoro, rafforzando la capacità di intervento su quelli che sono i cosiddetti “rischi organizzativi”;
- creare una rete di collegamento tra i diversi servizi dei sistemi sanitari per la prevenzione dei rischi psico-sociali, spesso determinati da quelli organizzativi;
- estendere la responsabilità solidale e sociale a tutti i settori in cui si individui committenza di fatto e aziende capofila di un intero processo tecnologico.
- introduzione della “Procedura d’urgenza di verifica rispetto prescrizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro”. In caso di preventiva verifica di mancata attuazione da parte del datore di lavoro degli adempimenti a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, i singoli RLS, gli organismi territoriali delle organizzazioni sindacali nazionali, le rappresentanze sindacali aziendali e le RSU possono ricorrere al giudice del lavoro, con la procedura d’urgenza di cui all’art. 28 della legge 300/70, perché ne ordini l’immediata applicazione. Laddove il giudice riconosca la fondatezza della denuncia proposta, intima al datore di lavoro l’immediata rimozione del pericolo o l’attuazione immediata degli adempimenti non rispettati e decide la sanzione in caso di mancata ottemperanza entro sessanta giorni dalla sentenza[3];
- garantire rappresentanza diretta nelle singole realtà produttive, a prescindere dalla dimensione, attraverso l’istituzione di comitati dei lavoratori, dotati di poteri ampliati rispetto a quelli degli RLS, in modo da poter compartecipare a tutti gli interventi degli organi di vigilanza, comprese le indagini. Tali organismi direttamente in rete tra loro o attraverso i sindacati potrebbero a livello regionale fare proposte nell’ambito dell’elaborazione dei Piano Regionali della Prevenzione;
- estendere tutele ai rappresentanti sindacali e agli RLS da rappresaglie come licenziamento, demansionamento a tutti i settori e le tipologie contrattuali;
- creare una rete nazionale tra professionisti e rappresentanze dei lavoratori, per aumentare le relazioni tra organi di vigilanza, RLS e sindacati.
2) Coinvolgere sindacati e rappresentanze studentesche (associazioni, collettivi, comitati) soprattutto nei settori universitari medico-scientifici per organizzare attività elettive, incontri al fine proporre di introdurre nei programmi didattici “saperi operai”.
Questo per creare un ponte generazionale di saperi e interrompere l’approccio aziendalistico – individuale della salute e introdurre un approccio moderno ma sociale di prevenzione, quindi di salute. Rifiutare l’accettazione dei rischi intriseci ai processi, all’organizzazione e all’interno della contrattazione rifiutare la monetizzazione del rischio.
3) Costruire approccio di messa in comune dei saperi per costruire proposte che ridiano efficacia reale al sistema sanitario pubblico e al potere di contrattazione e rappresentanza dei lavoratori. Saper collegare questo ai dispositivi repressivi nella società e nei luoghi di lavoro.
Note:
[1] https://altreconomia.it/inchiesta-prevenzione-addio/
[2] http://effimera.org/contro-la-nocivita-operaismo-ed-ecologia-nel-lungo-68/
[3] Proposta di Legge RETE ISIDE
Fonte
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