Vince Pezeshkian, l’uomo della mano tesa. Vince con tre milioni di preferenze più di Jalili. E lo fa con un elettorato che sfiora il 50% di partecipazione, risollevando di dieci punti la percentuale della settimana scorsa. Dunque sei milioni di astenuti non se la sono sentita di voltare le spalle ai seggi. E già che c’erano hanno consegnato la presidenza al riformista, scudisciando il candidato d’apparato Saeed Jalili.
Perdono gli ultraconservatori, almeno nell’aspetto di facciata di non avere un proprio uomo al vertice delle Istituzioni. Possono sperare nel tradizionalismo di Khamenei che però già da un anno chiude gli occhi davanti a una tolleranza di fatto: accettare tante donne, non solo giovanissime, che girano per le strade senza velo. Il simbolo intoccabile voluto da Khomeini, che aveva infiammato le proteste dopo le azioni violente della Gašt-e Eršâd innanzitutto contro Masha Amini e poi su centinaia di donne che bruciavano pubblicamente l’hijab e si tagliavano ciocche di capelli, non è più al centro della repressione. Almeno per ora.
Fra i duellanti Masoud Pezeshkian ha promesso in campagna elettorale tolleranza assoluta sulla questione. Da presidente non cambierà idea, ma il suo impegno ancor più corposo sul fronte geopolitico resta la disponibilità a riaprire le trattative sul nucleare, e qui bisogna vedere come reagiranno le controparti internazionali e interna. Molto dipenderà da chi governerà quello che per Teheran resta il Grande Satana, la Casa Bianca. Un ritorno di Trump, teoricamente dovrebbe chiudere tutte le porte a un rilancio del dialogo, visto che fu proprio lui a staccare il filo sette anni or sono. Ma sia il tycoon sia un rivale miracolato come 47° presidente americano potrebbero sorprendere tutti e riproporre le trattative. Come la prenderebbe il partito dei militari sarà tutto da scoprire. Per costume costoro risultano sì integerrimi, ma sono al tempo stesso pragmatici, non avvezzi a colpi di testa. Davanti a decisioni delicate, soprattutto in politica estera, valutano ciò che può maggiormente convenire.
E l’attuale momento non è fra i migliori per decisioni puramente ideologiche, visti: la crisi economica pungente, il malcontento popolare, il rischio di nuove rivolte, il rovente clima bellico mediorientale, la sponda ritrovata per il riformismo interno. In fondo c’è un gran pezzo del Paese disgustato dalla gestione repressiva del potere che protesta astenendosi dal voto, e fra chi si è recato alle urne è cresciuto il sostegno a un elemento outsider e diventato presidente.
Entrambi i candidati di potenti apparati come i basiji (Jalili) e i pasdaran (Ghalibaf) sono stati battuti da chi teoricamente non vanta gruppi di pressione dalla sua parte. L’aria sembrerebbe tornata a girare. Ma almeno due generazioni che hanno sostenuto il riformismo con tanto di presidente eletto per due mandati, Khatami fra la fine degli anni '90 e il nuovo secolo, oppure mediato, Rohani perché i più esposti Karroubi e Mousavi erano finiti ai domiciliari dopo l’Onda verde, hanno incamerato delusioni in luogo di soddisfazioni. E non perché siano mancate idee e proposte, ma perché i pilastri del khomeinismo, l’ingombrante presenza del clero nelle Istituzioni, lo strapotere dei Guardiani della Rivoluzione fin dentro l’economia col controllo delle Fondazioni, chiudevano spazi politici e d’impresa.
In aggiunta il clima internazionale non è favorevole, la stessa diaspora od opposizione iraniana all’estero, a meno che non elabori nostalgie para dinastiche, è carezzata da tanti che parlano di diritti negati, ma considerano l’Iran uno Stato-canaglia. Alcuni lo rivorrebbero come ai tempi in cui la Cia e l’MI6 scalzavano con metodi spicci Mossadeq. Perché agli imperi che non tramontano, gli amici piacciono prostrati o sottomessi.
Per ora il neo eletto presidente dichiara di voler “Tendere la mano dell’amicizia a tutti. Siamo tutti popolo di questo Paese. Ci sarà bisogno di tutti per il progresso”. Una scommessa e un azzardo. Eppure l’azero dal sorriso triste ci prova.
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