di Michele Paris
La nuova
durissima ondata di repressione messa in atto dai militari in Egitto nei
giorni scorsi sta provocando forti inquietudini tra i governi europei e
quello degli Stati Uniti, preoccupati per una possibile totale
destabilizzazione del paese nordafricano e della regione mediorientale
in seguito all’aggravarsi degli scontri tra i sostenitori del deposto
presidente islamista Mohamed Mursi e il regime golpista.
Dopo le
violenze del fine settimana, nella giornata di lunedì il capo della
diplomazia UE, Catherine Ashton, è giunta al Cairo ufficialmente per
promuovere un piano di riconciliazione e, soprattutto, provare a
convincere i vertici dei Fratelli Musulmani ad appoggiare la
“transizione” politica in corso entrando a fare parte del governo
provvisorio.
Nella capitale egiziana la Ashton ha incontrato il
numero uno delle Forze Armate, generale Abdel Fattah al-Sisi, il
presidente ad interim, Adly Mansour, il suo vice, Mohamed El Baradei, e i
dirigenti rimasti in libertà del partito Libertà e Giustizia, cioè il
braccio politico dei Fratelli Musulmani. Secondo un comunicato ufficiale
rilasciato dall’ufficio della responsabile della politica estera di
Bruxelles, lo scopo della visita sarebbe quello di fare pressione per
mettere in moto “un processo di transizione che includa tutte le forze
politiche, compresi i Fratelli Musulmani”.
Chiaramente,
l’obiettivo dell’Occidente è quello di mettere fine alle manifestazioni
di piazza e al confronto tra sostenitori e oppositori di Mursi, così da
dare una qualche stabilità all’Egitto e conferire una parvenza di
legittimità al regime installato dopo il colpo di stato del 3 luglio
scorso.
Dagli Stati Uniti, inoltre, sono giunti in questi giorni
moderati appelli al rispetto delle proteste pacifiche e a porre fine
alle violenze contro coloro che chiedono il reinsediamento di Mursi. Gli
inviti ai militari da parte dell’amministrazione Obama, tuttavia,
continuano ovviamente ad essere molto più cauti rispetto, ad esempio,
alle minacce esplicite lanciate in questi ultimi due anni ai regimi di
Libia o Siria.
I membri del governo americano, dopo avere dato
con ogni probabilità il via libera al golpe contro i Fratelli Musulmani,
continuano infatti a rimanere in contatto con i leader militari e del
governo provvisorio. Il segretario di Stato, John Kerry, e quello della
Difesa, Chuck Hagel, già nella giornata di sabato avevano parlato al
telefono rispettivamente con il ministro degli Esteri, Nabil Fahmy, e
con lo stesso generale al-Sisi, secondo i media ufficiali per esprimere
la loro apprensione in merito alle violenze in corso nel paese.
Hagel,
in particolare, avrebbe detto all’attuale uomo forte al Cairo che la
repressione ai danni dei Fratelli Musulmani rischia di spingere
nuovamente il movimento islamista nella clandestinità, con la minaccia
di innescare un sanguinoso e protratto conflitto armato contro il
regime.
Dopo
avere approvato l’intervento dei militari per rimuovere un governo
eletto profondamente impopolare e obiettivo di manifestazioni di
protesta oceaniche, gli Stati Uniti avevano senza dubbio messo in
preventivo un certo livello di violenza in seguito alla repressione che
sarebbe seguita all’estromissione di Mursi dal potere. Washington,
tuttavia, si ritrova ora a sostenere un regime militare che ha già fatto
centinaia di vittime in poco meno di un mese e che rischia di perdere
la legittimità assicuratagli dalla collaborazione delle formazioni
politiche secolari e pseudo-democratiche che erano all’opposizione
durante il breve governo dell’ex presidente Mursi.
Se la marcia
andata in scena venerdì scorso in risposta all’appello del generale
al-Sisi - il quale aveva chiesto una sorta di “mandato popolare” per
reprimere la violenza e il “terrorismo” - ha visto la partecipazione di
milioni di egiziani, molti di questi ultimi potrebbero finire ben presto
per perdere ogni fiducia nei militari, una volta manifestatasi
pienamente la natura reazionaria del loro progetto.
Le prime
proteste contro il nuovo regime da parte di alcune formazioni politiche
che avevano mobilitato la popolazione contro Mursi sono così giunte in
questi giorni in seguito non solo all’inasprirsi della repressione ma
anche alla decisione presa domenica dal governo di consentire alle forze
armate di arrestare civili. Secondo alcuni osservatori, in caso di un
ulteriore aggravamento dello scontro, questo provvedimento potrebbe
essere il preludio all’imposizione dello “stato di emergenza”, strumento
con il quale per decenni Mubarak aveva represso il dissenso interno.
Una
prospettiva di questo genere, con il ricorso anche formale da parte dei
militari ai metodi dittatoriali del regime travolto dalla mobilitazione
popolare nel 2011, smaschererebbe definitivamente i reali scrupoli per i
principi democratici sia degli Stati Uniti che degli stessi partiti
secolari egiziani, entrambi responsabili di avere fornito la copertura
politica necessaria per la messa in atto del colpo di stato anti-Mursi e
della successiva sanguinosa repressione.
Gli Stati Uniti e i
loro alleati, in ogni caso, sembrano essersi messi in moto per riportare
i Fratelli Musulmani all’interno del quadro politico emerso dopo il
golpe del 3 luglio. Secondo quanto riportato lunedì dal Wall Street Journal, il governo di Washington, anche attraverso “emissari” del Qatar -
la cui casa regnante era il principale sostenitore del governo Mursi -
avrebbe fatto pervenire messaggi distensivi ai vertici dei Fratelli
Musulmani, assicurandoli che nonostante la rimozione dell’ormai ex
presidente esisterebbe ancora la possibilità per loro di avere un futuro
politico in Egitto.
Questa prospettiva - alquanto improbabile
visto il livello delle tensioni di queste settimane - potrebbe
concretizzarsi se l’organizzazione islamista decidesse di abbandonare lo
scontro di piazza e partecipare al processo di “riconciliazione” con i
militari e le formazioni secolari. I Fratelli Musulmani, d’altra parte,
durante i dodici mesi al potere avevano mostrato una certa disponibilità
ad assecondare gli interessi strategici occidentali e quelli degli
ambienti finanziari internazionali.
Gli
alti ufficiali egiziani continuano comunque a mantenere un
atteggiamento tutt’altro che di apertura verso i Fratelli Musulmani.
Anche per le violenze e le almeno 80 vittime degli scontri del fine
settimana, il regime ha infatti assegnato la responsabilità alle
provocazioni dei manifestanti islamisti, nonostante, ad esempio, la
presenza riscontrata su molti corpi di segni di vere e proprie
esecuzioni commesse dai servizi di sicurezza. Allo stesso modo,
esponenti dei Fratelli Musulmani e di altri partiti islamisti moderati
vengono arrestati senza sosta con l’accusa di avere incitato le violenze
di questi giorni.
Gli Stati Uniti, da parte loro, malgrado gli
appelli pubblici alla moderazione proseguono nel propagandare il colpo
di stato come un “processo di transizione verso la democrazia”,
avallando perciò di fatto la repressione dei militari. A parte gli
inviti ad evitare gli eccessi di violenza, l’unico reale provvedimento
che l’amministrazione Obama ha preso finora per “punire” le Forze Armate
egiziane sarebbe la sospensione annunciata la settimana scorsa della
fornitura di 4 aerei da guerra F-16.
Come è noto, il governo
statunitense ha invece deliberatamente aggirato una propria legge che
impone lo stop a qualsiasi aiuto finanziario ad un regime golpista
semplicemente evitando di bollare la rimozione di Mursi come un colpo di
stato. In questo modo, Washington continuerà ad elargire il miliardo e
mezzo di dollari all’anno con cui ricompensa la classe dirigente
egiziana - a cominciare dai militari - per i servizi resi agli interessi
americani nella regione.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento