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02/08/2013

L’Egitto sull’orlo della guerra civile

di Michele Paris

La nuova durissima ondata di repressione messa in atto dai militari in Egitto nei giorni scorsi sta provocando forti inquietudini tra i governi europei e quello degli Stati Uniti, preoccupati per una possibile totale destabilizzazione del paese nordafricano e della regione mediorientale in seguito all’aggravarsi degli scontri tra i sostenitori del deposto presidente islamista Mohamed Mursi e il regime golpista.

Dopo le violenze del fine settimana, nella giornata di lunedì il capo della diplomazia UE, Catherine Ashton, è giunta al Cairo ufficialmente per promuovere un piano di riconciliazione e, soprattutto, provare a convincere i vertici dei Fratelli Musulmani ad appoggiare la “transizione” politica in corso entrando a fare parte del governo provvisorio.

Nella capitale egiziana la Ashton ha incontrato il numero uno delle Forze Armate, generale Abdel Fattah al-Sisi, il presidente ad interim, Adly Mansour, il suo vice, Mohamed El Baradei, e i dirigenti rimasti in libertà del partito Libertà e Giustizia, cioè il braccio politico dei Fratelli Musulmani. Secondo un comunicato ufficiale rilasciato dall’ufficio della responsabile della politica estera di Bruxelles, lo scopo della visita sarebbe quello di fare pressione per mettere in moto “un processo di transizione che includa tutte le forze politiche, compresi i Fratelli Musulmani”.

Chiaramente, l’obiettivo dell’Occidente è quello di mettere fine alle manifestazioni di piazza e al confronto tra sostenitori e oppositori di Mursi, così da dare una qualche stabilità all’Egitto e conferire una parvenza di legittimità al regime installato dopo il colpo di stato del 3 luglio scorso.

Dagli Stati Uniti, inoltre, sono giunti in questi giorni moderati appelli al rispetto delle proteste pacifiche e a porre fine alle violenze contro coloro che chiedono il reinsediamento di Mursi. Gli inviti ai militari da parte dell’amministrazione Obama, tuttavia, continuano ovviamente ad essere molto più cauti rispetto, ad esempio, alle minacce esplicite lanciate in questi ultimi due anni ai regimi di Libia o Siria.

I membri del governo americano, dopo avere dato con ogni probabilità il via libera al golpe contro i Fratelli Musulmani, continuano infatti a rimanere in contatto con i leader militari e del governo provvisorio. Il segretario di Stato, John Kerry, e quello della Difesa, Chuck Hagel, già nella giornata di sabato avevano parlato al telefono rispettivamente con il ministro degli Esteri, Nabil Fahmy, e con lo stesso generale al-Sisi, secondo i media ufficiali per esprimere la loro apprensione in merito alle violenze in corso nel paese.

Hagel, in particolare, avrebbe detto all’attuale uomo forte al Cairo che la repressione ai danni dei Fratelli Musulmani rischia di spingere nuovamente il movimento islamista nella clandestinità, con la minaccia di innescare un sanguinoso e protratto conflitto armato contro il regime.

Dopo avere approvato l’intervento dei militari per rimuovere un governo eletto profondamente impopolare e obiettivo di manifestazioni di protesta oceaniche, gli Stati Uniti avevano senza dubbio messo in preventivo un certo livello di violenza in seguito alla repressione che sarebbe seguita all’estromissione di Mursi dal potere. Washington, tuttavia, si ritrova ora a sostenere un regime militare che ha già fatto centinaia di vittime in poco meno di un mese e che rischia di perdere la legittimità assicuratagli dalla collaborazione delle formazioni politiche secolari e pseudo-democratiche che erano all’opposizione durante il breve governo dell’ex presidente Mursi.

Se la marcia andata in scena venerdì scorso in risposta all’appello del generale al-Sisi - il quale aveva chiesto una sorta di “mandato popolare” per reprimere la violenza e il “terrorismo” - ha visto la partecipazione di milioni di egiziani, molti di questi ultimi potrebbero finire ben presto per perdere ogni fiducia nei militari, una volta manifestatasi pienamente la natura reazionaria del loro progetto.

Le prime proteste contro il nuovo regime da parte di alcune formazioni politiche che avevano mobilitato la popolazione contro Mursi sono così giunte in questi giorni in seguito non solo all’inasprirsi della repressione ma anche alla decisione presa domenica dal governo di consentire alle forze armate di arrestare civili. Secondo alcuni osservatori, in caso di un ulteriore aggravamento dello scontro, questo provvedimento potrebbe essere il preludio all’imposizione dello “stato di emergenza”, strumento con il quale per decenni Mubarak aveva represso il dissenso interno.

Una prospettiva di questo genere, con il ricorso anche formale da parte dei militari ai metodi dittatoriali del regime travolto dalla mobilitazione popolare nel 2011, smaschererebbe definitivamente i reali scrupoli per i principi democratici sia degli Stati Uniti che degli stessi partiti secolari egiziani, entrambi responsabili di avere fornito la copertura politica necessaria per la messa in atto del colpo di stato anti-Mursi e della successiva sanguinosa repressione.

Gli Stati Uniti e i loro alleati, in ogni caso, sembrano essersi messi in moto per riportare i Fratelli Musulmani all’interno del quadro politico emerso dopo il golpe del 3 luglio. Secondo quanto riportato lunedì dal Wall Street Journal, il governo di Washington, anche attraverso “emissari” del Qatar - la cui casa regnante era il principale sostenitore del governo Mursi - avrebbe fatto pervenire messaggi distensivi ai vertici dei Fratelli Musulmani, assicurandoli che nonostante la rimozione dell’ormai ex presidente esisterebbe ancora la possibilità per loro di avere un futuro politico in Egitto.

Questa prospettiva - alquanto improbabile visto il livello delle tensioni di queste settimane - potrebbe concretizzarsi se l’organizzazione islamista decidesse di abbandonare lo scontro di piazza e partecipare al processo di “riconciliazione” con i militari e le formazioni secolari. I Fratelli Musulmani, d’altra parte, durante i dodici mesi al potere avevano mostrato una certa disponibilità ad assecondare gli interessi strategici occidentali e quelli degli ambienti finanziari internazionali.

Gli alti ufficiali egiziani continuano comunque a mantenere un atteggiamento tutt’altro che di apertura verso i Fratelli Musulmani. Anche per le violenze e le almeno 80 vittime degli scontri del fine settimana, il regime ha infatti assegnato la responsabilità alle provocazioni dei manifestanti islamisti, nonostante, ad esempio, la presenza riscontrata su molti corpi di segni di vere e proprie esecuzioni commesse dai servizi di sicurezza. Allo stesso modo, esponenti dei Fratelli Musulmani e di altri partiti islamisti moderati vengono arrestati senza sosta con l’accusa di avere incitato le violenze di questi giorni.

Gli Stati Uniti, da parte loro, malgrado gli appelli pubblici alla moderazione proseguono nel propagandare il colpo di stato come un “processo di transizione verso la democrazia”, avallando perciò di fatto la repressione dei militari. A parte gli inviti ad evitare gli eccessi di violenza, l’unico reale provvedimento che l’amministrazione Obama ha preso finora per “punire” le Forze Armate egiziane sarebbe la sospensione annunciata la settimana scorsa della fornitura di 4 aerei da guerra F-16.

Come è noto, il governo statunitense ha invece deliberatamente aggirato una propria legge che impone lo stop a qualsiasi aiuto finanziario ad un regime golpista semplicemente evitando di bollare la rimozione di Mursi come un colpo di stato. In questo modo, Washington continuerà ad elargire il miliardo e mezzo di dollari all’anno con cui ricompensa la classe dirigente egiziana - a cominciare dai militari - per i servizi resi agli interessi americani nella regione.

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