Nonostante gli auspici, i proclami e
le paure sull’aumento della conflittualità, uno degli elementi senza
dubbio più eclatanti della crisi economica italiana è la sua sostanziale
assenza, almeno in confronto agli altri paesi dell’area
euro-mediterranea. Si può senza dubbio convenire sul fatto che le
abitudini concertative incistate nei sindacati confederali italiani
abbiano smorzato l’emergere di estese lotte operaie per contrastare la
gestione della crisi economica. Tanto l’accordo sulla Rappresentanza sui
posti di lavoro, siglato il 31 maggio 2013, quanto il recentissimo
documento comune con Confindustria ne sono la prova più tangibile.
Eppure, ci sembra che l’accusa rivolta ai sindacati di troncare e sopire le tensioni colga solo una parte della questione.
Uno dei principali strumenti per la gestione delle ricadute della crisi
economica, che ha spento sul nascere le tensioni sociali e politiche, è
stato il ricorso ai cosiddetti ammortizzatori sociali, in particolare
alla cassa integrazione. Ricostruire la gestione delle politiche del
lavoro e della cittadinanza, cioè del welfare nel suo complesso, è di
assoluta rilevanza per non immaginarlo solamente come uno spazio liscio,
aperto a rivendicazioni soggettive in grado di sovvertire le forme
attuali dello sfruttamento. Per quanto la spesa pubblica italiana
per le politiche del lavoro rimanga tra le più basse a livello europeo,
dal 2008 al 2011 essa è passata dai 19 ai 27 miliardi di euro, cioè da
322 a 442 euro per abitante. Si tratta di una spesa che finanzia in
larga misura le politiche passive del lavoro, cioè qualche beneficio
economico per chi ha perso il lavoro o è in cassa integrazione. Se lo
Stato sociale è in crisi da almeno un ventennio, i governi che si sono
succeduti in questi cinque anni di recessione economica hanno mantenuto
una certa attenzione alla distribuzione di briciole di massa, che non ha escluso neppure quanti non ne avevano alcuna titolarità grazie alle numerose deroghe.
L’uso della cassa integrazione in
funzione anti-operaia era stata una delle principali strategie messe in
campo a partire dalla metà degli anni Settanta, quando però il livello
di conflittualità aveva raggiunto punte elevate. Nella situazione
odierna la cassa integrazione sembra invece essere un mezzo per
prevenire la conflittualità, per quanto le forze dell’ordine e la
magistratura non abbiano certo lesinato il loro apporto anche
nella gestione dell’attuale congiuntura. È evidente che per quanti non
sottostanno allo scambio politico, di cui la cassa integrazione è uno
degli strumenti, il piccolo teorema estremista è sempre pronto. Come ha
notato perfino un giudice, le scandalose legnate somministrate agli
operai negli ultimi mesi, quelle stesse legnate che hanno fatto
sussultare qualche mezzo d’informazione, sono ben poca cosa rispetto a
quanto è stato messo in campo contro gli attivisti No Tav, su alcuni dei
quali pende l’accusa di terrorismo.
La crisi economica e le misure
previste per contrastarne gli effetti, dalla cassa integrazione ai
contratti di solidarietà, hanno rinvigorito i rapporti tra sindacati e
aziende, finendo per chiudere sempre più nella sfera privata i
rapporti lavorativi. Gli accordi di cassa integrazione e di riduzione
del personale con gli annessi incentivi all’esodo hanno frammentato
ulteriormente la forza lavoro alle prese con le proprie situazioni
personali, le proprie capacità lavorative e la propria rete di sostegno
per la sopravvivenza e per la ricerca di un nuovo posto di lavoro. Là
dove questo era possibile. Ma dov’era e dov’è possibile?
La ricomposizione del collettivo
lavorativo è avvenuta quasi solo quando le misure di salvaguardia del
reddito erano in pericolo o quando incombevano licenziamenti collettivi.
Con buona pace delle sbandierate politiche di flessibilità e di
mobilità, la cassa integrazione ‘incatena’ gli operai alla fabbrica
poiché essi ne rimangono formalmente alle dipendenze. La recessione ha
quindi ridato centralità al sindacato in quanto soggetto necessario per
la gestione della crisi enfatizzando il suo ruolo concertativo
all’interno del sistema azienda-territorio. Un funzionario sindacale
afferma significativamente: «Siamo diventati tutti specialisti di cassa
integrazione e mobilità». Se i sindacati non escono certo rafforzati
dalla crisi, ne escono però economicamente più floridi grazie ai nuovi
contatti con i lavoratori, all’approfondirsi degli accordi bilaterali
per le imprese artigianali e ai nuovi servizi su cui essi si sono
specializzati. C’è forse da domandarsi se questa maggiore prosperità
permetta, come in altri paesi, il lancio di specifiche campagne di
sindacalizzazione in nuovi e vecchi settori produttivi.
Tanto nel 2010 quanto nel 2011 in Italia
i beneficiari di prestazioni di ammortizzatori sociali sono stati poco
meno di 4 milioni di lavoratori: 1,4 milioni di cassaintegrati, 1,2
milioni di percettori di indennità di disoccupazione ordinaria, 526 mila
beneficiari di disoccupazione agricola, 502 mila percettori di
indennità di disoccupazione a requisiti ridotti. Nel 2012 i numeri sono probabilmente aumentati estendendo la compravendita del consenso a prezzi di sconto. Quasi un terzo dei lavoratori dipendenti del settore privato ha quindi beneficiato di un sostegno al reddito. I
lavoratori italiani hanno fatto la parte del leone per quanto riguarda
le varie tipologie di cassa integrazione, mentre i migranti hanno
sovente percepito un più misero assegno di disoccupazione, visto che
sono spesso occupati in aziende di minori dimensioni e soggetti a
contratti precari. È d’altra parte evidente che, mentre gli italiani
hanno potuto affrontare la crisi con qualche risparmio e una rete
sociale sovente articolata, i migranti si sono riversati in altre attività pagando il pedaggio di una maggiore mobilità territoriale.
La platea di aziende e cooperative cui è
stata data la possibilità di accedere alle forme di sostegno al reddito
è stata allargata concedendo ampie deroghe. In questo modo anche quelle
imprese e cooperative che non hanno contribuito ai diversi fondi per la
cassa integrazione vi hanno potuto accedere: circa un quinto dei
lavoratori hanno percepito la cassa integrazione grazie a provvedimenti ad hoc.
In tutto questo giro di soldi vi sono naturalmente operazioni quanto
meno sospette. Che qualche cooperativa del commercio equo e solidale
ricorra alla cassa integrazione per i suoi dipendenti per qualche decina
di ore alla settimana è perlomeno riprovevole. Tanto più se poi quei
dipendenti continuano a svolgere il loro consueto orario di lavoro. Cassa
integrazione, mobilità, contratti di solidarietà e incentivi all’esodo
non sono serviti solo ad affrontare la più profonda recessione del
dopoguerra, ma hanno permesso al padronato di operare una gestione politica della forza lavoro.
La diffusione di liste di proscrizione sulla base dell’iscrizione a un
sindacato o semplicemente perché qualche lavoratore non è pronto alla
deferenza è uno dei tanti effetti di questi orientamenti. La mannaia
della crisi ha così permesso di estendere il processo di disciplinamento
dentro e fuori i posti di lavoro e addirittura di incrementare il
razzismo. Il livello di effettiva fruizione della cassa integrazione
rispetto alle ore autorizzate, 40-43%, è un preciso indicatore di questo
processo di disciplinamento: le aziende chiedono la cassa integrazione e poi la usano durante l’anno a seconda della congiuntura economica e politica.
Il ricorso alle misure di sostegno al
reddito ha garantito lo smantellamento silenzioso di una parte
importante dell’industria manifatturiera italiana, in particolare quella
metalmeccanica, sottocapitalizzata e a ‘bassa produttività’. La bassa
produttività dell’apparato produttivo è sovente indicata come uno dei
mali dell’economia italiana, ma tra tutti i fattori che determinano la
produttività ne viene sempre indicato uno solo: la forza lavoro. Degli
investimenti che non siano i capannoni che hanno infestato come la
gramigna ormai buona parte del centro-nord Italia non si parla mai,
mentre ogni governo nel corso degli ultimi vent’anni (a partire proprio
da quelli di centrosinistra) è andato all’assalto delle ‘rigidità’ della
forza lavoro e dell’apparato produttivo pubblico. Che la precarietà
contrattuale e i ricatti cui una buona parte di lavoratrici e lavoratori
italiani sono sottoposti possano rendere più competitivo il sistema-paese,
ormai lo credono solo quanti sono in malafede o vivono nella sudditanza
di una classe imprenditoriale che sta gestendo la progressiva
dismissione dell’industria manifatturiera. Una prospettiva che può
essere considerata miserevole, come infatti la considerano quanti –
anche nel mondo imprenditoriale – mantengono un atteggiamento obiettivo
ricordando gli investimenti lesinati alla ricerca e allo sviluppo, ma
che sembra costituire ormai il modello italiano corrente. Per capire il
rapporto tra il livello degli investimenti e quello dei salari non è
necessario scendere nel foggiano, basta fermarsi nei ghetti per braccianti immigrati a Saluzzo (Cuneo) o visitare qualche polo logistico del centro-nord. Sulla
scelta di mantenere l’Italia nei meandri dei bassi salari, non si sono
levate grandi proteste. Mentre i giovani più accorti e attrezzati hanno
già cominciato a votare con i piedi, migrando all’estero.
L’assalto all’apparato produttivo
pubblico è un altro obbrobrio cui pure le forze sindacali hanno
contribuito in vari modi. Come sempre durante il periodo estivo si è
iniziato a lanciare il sasso nello stagno per capire le reazioni, sicché
dopo il decreto del fare forse avremo anche un decreto del liberare.
Dalla metà degli anni Ottanta al 2012 le dismissioni dell’apparato
pubblico hanno permesso introiti pari a circa 157 miliardi di euro
correnti. Nello stesso periodo, nell’UE a 15 paesi ha fatto meglio solo
la Francia con 174 miliardi di euro. Il periodo d’oro delle
privatizzazioni è stato il decennio 1996-2005, in particolare quando
governava il centrosinistra (1996-2001): nel solo 1999, con la volpe del
Tavoliere al timone del governo, furono venduti beni pubblici per 25
miliardi. Le motivazioni addotte per le privatizzazioni sono sempre
abbastanza simili: risanare le finanze pubbliche; ridurre la presenza
dello Stato nel mercato; rendere efficienti imprese in cui regna il
clientelismo; incrementare la concorrenza. Lasciando stare i più noti
casati Agnelli e Berlusconi, forse le aziende (e le cooperative) private
gestite dai Tanzi, dai Ligresti, dai Riva o dal duo Consorte-Sacchetti
ci hanno abituato a prestazioni impeccabili sui mercati internazionali?
Ogni privatizzazione è stata
ovviamente preparata con campagne stampa sull’inefficienza, la
corruzione, le necessità finanziarie dello Stato e così via. Se i
conti pubblici non sono certo migliorati in questi anni, d’altra parte è
emerso in modo chiaro come il mercato non sia certo una panacea per i
mali dei consumatori o, peggio, dei lavoratori. Non saremo certo noi gli
statalisti, ma qui ci preme sottolineare come l’ideologia del ‘meno
Stato più mercato’ che il governo di unità nazionale sta portando
avanti, per superare la crisi, potrà al più fornire qualche
beneficio a qualche azionista o a vecchi e nuovi capitani d’industria
che si ritroveranno qualche gallina dalle uova d’oro tra le mani, come
nel caso di Telecom, Eni, Enel, Autostrade.
Per contro, dal lato dei cosiddetti garantiti e privilegiati, cioè della forza lavoro nel settore pubblico, la gestione della crisi è avvenuta attraverso altri strumenti:
una campagna stampa contro i fannulloni, le minacce di privatizzazione e
soprattutto di licenziamento, una retorica incessante su quanti
sarebbero i fortunati nella lotteria della vita. Se di questa propaganda
sono stati artefici i due precedenti governi, l’attuale partito di
maggioranza relativa sembra ben lieto di continuarne l’opera, iniziando
con la riduzione del potere d’acquisto dei salari, grazie alla proroga
del blocco delle buste paga fino alla fine del 2014, che rende sempre
meno attraente questi posti di lavoro. Il settore privato ha così
allargato il bacino di forza lavoro a cui attingere offrendo livelli
retributivi mediamente più elevati.
In due anni, dal 2010 al 2011, il blocco
delle assunzioni e degli stipendi ha fatto perdere mediamente più di
2000 euro a ciascuno dei dipendenti pubblici, garantendo un risparmio di
6,6 miliardi di euro alle casse statali. In prospettiva, grazie al
ritardo degli scatti di anzianità e a una forza lavoro piuttosto
‘anziana’, queste manovre permetteranno ulteriori risparmi, ma anche
probabilmente una riduzione del Pil. Un aspetto questo largamente
sconosciuto. La spesa per redditi da lavoro dipendente nella
Pubblica amministrazione è oggi pari a circa 165 miliardi di euro e la
sua incidenza sul prodotto interno lordo è diminuita dall’11,1% del 2010
al 10,6% del 2012. La campagna contro i lauti stipendi dei ministeriali
e dei manager pubblici occulta il fatto che la maggior parte dei
dipendenti pubblici percepisce dei salari da stento, 1100-1300 euro al
mese. Per chi è assunto a tempo indeterminato la relativa sicurezza del
posto di lavoro è sempre stata scambiata con bassi salari medi e scarse
opportunità di carriera, ma molti dimenticano come il settore
pubblico sia stato anche un’avanguardia nelle forme di precarizzazione
del lavoro, tanto dirette quanto attraverso i subappalti. D’altra parte non esistono politiche del welfare senza un settore pubblico che le gestisca. Ed è significativo che la spending review voluta
da Monti, su oltre tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici a livello
nazionale, ne ha individuati 7.800 in esubero, di cui 3.300,
praticamente la metà del totale, all’Inps.
Il blocco delle assunzioni e degli
stipendi del settore pubblico è piombato su circa 3,2 milioni di
lavoratori senza alcuna possibilità di negoziazione. Di questa vicenda
l’aspetto che sorprende è la capacità sindacale di mantenere bassissimo
il livello di conflittualità, nonostante il settore pubblico sia tra i
più sindacalizzati, con circa 1,1 milioni di iscritti, più di un terzo
di tutti i lavoratori, e nonostante una relativa presenza dei sindacati
di base. Al netto delle accuse di oziosità, buone solo per additarli al
pubblico ludibrio come dei privilegiati, l’attacco ai lavoratori
pubblici è legato alla loro maggiore autonomia nel posto di lavoro e ai
diritti che li proteggono dal licenziamento con uno schiocco con le
dita. Ma il settore pubblico rappresenta anche una riserva di
reddito, disciplina e identità del corpo del lavoro e del sindacato dal
quale, non a caso, sono esclusi i lavoratori migranti. Anche
l’apertura degli impieghi pubblici ai migranti richiesta dall’Unione
Europea avrebbe effetti ormai solo nel lunghissimo periodo, tenendo
conto della loro condizione di partenza e del blocco del turn over.
Attraverso il blocco di stipendi e
assunzioni il popolo delle libertà prima e quello della legalità poi
hanno spazzato via la finzione dell’autonomia della contrattazione
collettiva e la sua equiparazione a una legge ordinaria. Il contratto
collettivo di lavoro ha sempre avuto aspetti di forte contraddizione,
ma l’accordo sulla Rappresentanza del maggio scorso vorrebbe farne una
gabbia per l’agibilità operaia, impedendo qualsiasi protesta per
tutto l’arco della sua vigenza. Una volta firmato il contratto
collettivo, l’azienda avrà così mano libera nella produzione e per
contrastarla occorrerà attivare procedure burocratiche e inefficaci,
facendo percepire ai lavoratori tutta la loro impotenza. Un sistema che
negli ultimi vent’anni diversi paesi ex-comunisti dell’Europa orientale
hanno dovuto applicare per entrare nel club europeo dei paesi ‘ricchi’.
In maniera assolutamente coerente, dopo
essere stata obbligata dalla sentenza della Corte costituzionale a
riammettere nei suoi stabilimenti i delegati della Fiom-Cgil, la Fiat ha
posto come condizione preliminare una legge generale sulla
rappresentanza sindacale. Se i rapporti di forza dentro e fuori la
fabbrica rischiano di essere determinanti, una legge generale può sempre
neutralizzarne gli effetti. La sinistra italiana sembra ancora
ipnotizzata dai pifferai che suonano la melodia del capitalismo
molecolare e creativo sedendo indifferentemente alle tavole rotonde
confindustriali, sindacali o di qualche partito più o meno rifondato.
Nel corso degli ultimi vent’anni, la vera trasformazione italiana è
consistita nel processo di smantellamento ideologico e materiale di
qualsiasi elemento di parziale autonomia del lavoro rispetto al
capitale: un percorso garantito anche dal silenzio dei molti
intellettuali rintanati nelle università che pure non disdegnano qualche
raccolta firme per la salvezza della democrazia. Per questo anche i
sussulti ribellisti tendono ad acquisire carattere morale più che
politico.
L’illusione che uno sciopero generale o
più modestamente una manifestazione nazionale possano, come per incanto,
svegliarci dal torpore è assai diffusa. Ma il violento processo di
proletarizzazione che interessa ampie fasce del mondo del lavoro non è
certo una condizione sufficiente per l’emergere di una risposta. È
infatti fin troppo facile prevedere che per uscire dalla crisi politica e
dalla sua gestione non servirà granché agitare la Costituzione o
cercare di costruire un nuovo partito per le prossime elezioni che
verranno. A meno che qualcuno non creda ancora nella necessità di una
convergenza nel nome dell’interesse generale del paese. È invece
dall’espressione di un punto di vista parziale, come le lotte della
logistica per quanto territorialmente limitate sembrano indicarci, che
forse è possibile ripartire. Mettendo in discussione ritmi, carichi
di lavoro e bassi salari, i lavoratori migranti hanno contestato sul
campo il mantra dell’assenza di alternativa. Forse anche i
lavoratori di altri comparti potrebbero raccogliere tali indicazioni,
magari non in vista di un autunno caldo, ma almeno per iniziare a
invertire la rotta.
Fonte
Un articolo che smonta molte speranze e prospettive, anche del sottoscritto. Francamente, però, non trovo alcun argomento per controbattere.
Un articolo che smonta molte speranze e prospettive, anche del sottoscritto. Francamente, però, non trovo alcun argomento per controbattere.
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