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08/09/2013

Al caldo dell’autunno. Prime considerazioni su una stagione che continua

Mentre l’autunno si avvicina, sono in molti a chiedersi per l’ennesima volta se sarà caldo. Già alcune organizzazioni sindacali e politiche hanno prenotato manifestazioni nazionali e scioperi generali, nella convinzione di mobilitare le masse e innescare l’annunciata conflittualità. L’arretramento politico e sociale che già abbiamo vissuto dopo gli ultimi one-day-spot, atti unici di irruzione della soggettività precaria durante qualche manifestazione, dovrebbe spingerci alla cautela. Sembra ormai evidente che questi sfogatoi allontanano le forme di conflittualità dentro e intorno ai posti di lavoro. Come le recenti lotte nella logistica hanno mostrato, la questione non è tanto la forza immediata con cui si manifesta il conflitto, quanto il suo localizzarsi nei punti strategici dei processi sociali. Ma si sa quanto sia complicato frenare l’autonomia di certe soggettività e quanto sia ampia la smania delle varie organizzazioni di sovradeterminare i processi politici.

Nonostante gli auspici, i proclami e le paure sull’aumento della conflittualità, uno degli elementi senza dubbio più eclatanti della crisi economica italiana è la sua sostanziale assenza, almeno in confronto agli altri paesi dell’area euro-mediterranea. Si può senza dubbio convenire sul fatto che le abitudini concertative incistate nei sindacati confederali italiani abbiano smorzato l’emergere di estese lotte operaie per contrastare la gestione della crisi economica. Tanto l’accordo sulla Rappresentanza sui posti di lavoro, siglato il 31 maggio 2013, quanto il recentissimo documento comune con Confindustria ne sono la prova più tangibile. Eppure, ci sembra che l’accusa rivolta ai sindacati di troncare e sopire le tensioni colga solo una parte della questione. Uno dei principali strumenti per la gestione delle ricadute della crisi economica, che ha spento sul nascere le tensioni sociali e politiche, è stato il ricorso ai cosiddetti ammortizzatori sociali, in particolare alla cassa integrazione. Ricostruire la gestione delle politiche del lavoro e della cittadinanza, cioè del welfare nel suo complesso, è di assoluta rilevanza per non immaginarlo solamente come uno spazio liscio, aperto a rivendicazioni soggettive in grado di sovvertire le forme attuali dello sfruttamento. Per quanto la spesa pubblica italiana per le politiche del lavoro rimanga tra le più basse a livello europeo, dal 2008 al 2011 essa è passata dai 19 ai 27 miliardi di euro, cioè da 322 a 442 euro per abitante. Si tratta di una spesa che finanzia in larga misura le politiche passive del lavoro, cioè qualche beneficio economico per chi ha perso il lavoro o è in cassa integrazione. Se lo Stato sociale è in crisi da almeno un ventennio, i governi che si sono succeduti in questi cinque anni di recessione economica hanno mantenuto una certa attenzione alla distribuzione di briciole di massa, che non ha escluso neppure quanti non ne avevano alcuna titolarità grazie alle numerose deroghe.

L’uso della cassa integrazione in funzione anti-operaia era stata una delle principali strategie messe in campo a partire dalla metà degli anni Settanta, quando però il livello di conflittualità aveva raggiunto punte elevate. Nella situazione odierna la cassa integrazione sembra invece essere un mezzo per prevenire la conflittualità, per quanto le forze dell’ordine e la magistratura non abbiano certo lesinato il loro apporto anche nella gestione dell’attuale congiuntura. È evidente che per quanti non sottostanno allo scambio politico, di cui la cassa integrazione è uno degli strumenti, il piccolo teorema estremista è sempre pronto. Come ha notato perfino un giudice, le scandalose legnate somministrate agli operai negli ultimi mesi, quelle stesse legnate che hanno fatto sussultare qualche mezzo d’informazione, sono ben poca cosa rispetto a quanto è stato messo in campo contro gli attivisti No Tav, su alcuni dei quali pende l’accusa di terrorismo.

La crisi economica e le misure previste per contrastarne gli effetti, dalla cassa integrazione ai contratti di solidarietà, hanno rinvigorito i rapporti tra sindacati e aziende, finendo per chiudere sempre più nella sfera privata i rapporti lavorativi. Gli accordi di cassa integrazione e di riduzione del personale con gli annessi incentivi all’esodo hanno frammentato ulteriormente la forza lavoro alle prese con le proprie situazioni personali, le proprie capacità lavorative e la propria rete di sostegno per la sopravvivenza e per la ricerca di un nuovo posto di lavoro. Là dove questo era possibile. Ma dov’era e dov’è possibile?

La ricomposizione del collettivo lavorativo è avvenuta quasi solo quando le misure di salvaguardia del reddito erano in pericolo o quando incombevano licenziamenti collettivi. Con buona pace delle sbandierate politiche di flessibilità e di mobilità, la cassa integrazione ‘incatena’ gli operai alla fabbrica poiché essi ne rimangono formalmente alle dipendenze. La recessione ha quindi ridato centralità al sindacato in quanto soggetto necessario per la gestione della crisi enfatizzando il suo ruolo concertativo all’interno del sistema azienda-territorio. Un funzionario sindacale afferma significativamente: «Siamo diventati tutti specialisti di cassa integrazione e mobilità». Se i sindacati non escono certo rafforzati dalla crisi, ne escono però economicamente più floridi grazie ai nuovi contatti con i lavoratori, all’approfondirsi degli accordi bilaterali per le imprese artigianali e ai nuovi servizi su cui essi si sono specializzati. C’è forse da domandarsi se questa maggiore prosperità permetta, come in altri paesi, il lancio di specifiche campagne di sindacalizzazione in nuovi e vecchi settori produttivi.

Tanto nel 2010 quanto nel 2011 in Italia i beneficiari di prestazioni di ammortizzatori sociali sono stati poco meno di 4 milioni di lavoratori: 1,4 milioni di cassaintegrati, 1,2 milioni di percettori di indennità di disoccupazione ordinaria, 526 mila beneficiari di disoccupazione agricola, 502 mila percettori di indennità di disoccupazione a requisiti ridotti. Nel 2012 i numeri sono probabilmente aumentati estendendo la compravendita del consenso a prezzi di sconto. Quasi un terzo dei lavoratori dipendenti del settore privato ha quindi beneficiato di un sostegno al reddito. I lavoratori italiani hanno fatto la parte del leone per quanto riguarda le varie tipologie di cassa integrazione, mentre i migranti hanno sovente percepito un più misero assegno di disoccupazione, visto che sono spesso occupati in aziende di minori dimensioni e soggetti a contratti precari. È d’altra parte evidente che, mentre gli italiani hanno potuto affrontare la crisi con qualche risparmio e una rete sociale sovente articolata, i migranti si sono riversati in altre attività pagando il pedaggio di una maggiore mobilità territoriale.

La platea di aziende e cooperative cui è stata data la possibilità di accedere alle forme di sostegno al reddito è stata allargata concedendo ampie deroghe. In questo modo anche quelle imprese e cooperative che non hanno contribuito ai diversi fondi per la cassa integrazione vi hanno potuto accedere: circa un quinto dei lavoratori hanno percepito la cassa integrazione grazie a provvedimenti ad hoc. In tutto questo giro di soldi vi sono naturalmente operazioni quanto meno sospette. Che qualche cooperativa del commercio equo e solidale ricorra alla cassa integrazione per i suoi dipendenti per qualche decina di ore alla settimana è perlomeno riprovevole. Tanto più se poi quei dipendenti continuano a svolgere il loro consueto orario di lavoro. Cassa integrazione, mobilità, contratti di solidarietà e incentivi all’esodo non sono serviti solo ad affrontare la più profonda recessione del dopoguerra, ma hanno permesso al padronato di operare una gestione politica della forza lavoro. La diffusione di liste di proscrizione sulla base dell’iscrizione a un sindacato o semplicemente perché qualche lavoratore non è pronto alla deferenza è uno dei tanti effetti di questi orientamenti. La mannaia della crisi ha così permesso di estendere il processo di disciplinamento dentro e fuori i posti di lavoro e addirittura di incrementare il razzismo. Il livello di effettiva fruizione della cassa integrazione rispetto alle ore autorizzate, 40-43%, è un preciso indicatore di questo processo di disciplinamento: le aziende chiedono la cassa integrazione e poi la usano durante l’anno a seconda della congiuntura economica e politica.

Il ricorso alle misure di sostegno al reddito ha garantito lo smantellamento silenzioso di una parte importante dell’industria manifatturiera italiana, in particolare quella metalmeccanica, sottocapitalizzata e a ‘bassa produttività’. La bassa produttività dell’apparato produttivo è sovente indicata come uno dei mali dell’economia italiana, ma tra tutti i fattori che determinano la produttività ne viene sempre indicato uno solo: la forza lavoro. Degli investimenti che non siano i capannoni che hanno infestato come la gramigna ormai buona parte del centro-nord Italia non si parla mai, mentre ogni governo nel corso degli ultimi vent’anni (a partire proprio da quelli di centrosinistra) è andato all’assalto delle ‘rigidità’ della forza lavoro e dell’apparato produttivo pubblico. Che la precarietà contrattuale e i ricatti cui una buona parte di lavoratrici e lavoratori italiani sono sottoposti possano rendere più competitivo il sistema-paese, ormai lo credono solo quanti sono in malafede o vivono nella sudditanza di una classe imprenditoriale che sta gestendo la progressiva dismissione dell’industria manifatturiera. Una prospettiva che può essere considerata miserevole, come infatti la considerano quanti – anche nel mondo imprenditoriale – mantengono un atteggiamento obiettivo ricordando gli investimenti lesinati alla ricerca e allo sviluppo, ma che sembra costituire ormai il modello italiano corrente. Per capire il rapporto tra il livello degli investimenti e quello dei salari non è necessario scendere nel foggiano, basta fermarsi nei ghetti per braccianti immigrati a Saluzzo (Cuneo) o visitare qualche polo logistico del centro-nord. Sulla scelta di mantenere l’Italia nei meandri dei bassi salari, non si sono levate grandi proteste. Mentre i giovani più accorti e attrezzati hanno già cominciato a votare con i piedi, migrando all’estero.

L’assalto all’apparato produttivo pubblico è un altro obbrobrio cui pure le forze sindacali hanno contribuito in vari modi. Come sempre durante il periodo estivo si è iniziato a lanciare il sasso nello stagno per capire le reazioni, sicché dopo il decreto del fare forse avremo anche un decreto del liberare. Dalla metà degli anni Ottanta al 2012 le dismissioni dell’apparato pubblico hanno permesso introiti pari a circa 157 miliardi di euro correnti. Nello stesso periodo, nell’UE a 15 paesi ha fatto meglio solo la Francia con 174 miliardi di euro. Il periodo d’oro delle privatizzazioni è stato il decennio 1996-2005, in particolare quando governava il centrosinistra (1996-2001): nel solo 1999, con la volpe del Tavoliere al timone del governo, furono venduti beni pubblici per 25 miliardi. Le motivazioni addotte per le privatizzazioni sono sempre abbastanza simili: risanare le finanze pubbliche; ridurre la presenza dello Stato nel mercato; rendere efficienti imprese in cui regna il clientelismo; incrementare la concorrenza. Lasciando stare i più noti casati Agnelli e Berlusconi, forse le aziende (e le cooperative) private gestite dai Tanzi, dai Ligresti, dai Riva o dal duo Consorte-Sacchetti ci hanno abituato a prestazioni impeccabili sui mercati internazionali?

Ogni privatizzazione è stata ovviamente preparata con campagne stampa sull’inefficienza, la corruzione, le necessità finanziarie dello Stato e così via. Se i conti pubblici non sono certo migliorati in questi anni, d’altra parte è emerso in modo chiaro come il mercato non sia certo una panacea per i mali dei consumatori o, peggio, dei lavoratori. Non saremo certo noi gli statalisti, ma qui ci preme sottolineare come l’ideologia del ‘meno Stato più mercato’ che il governo di unità nazionale sta portando avanti, per superare la crisi, potrà al più fornire qualche beneficio a qualche azionista o a vecchi e nuovi capitani d’industria che si ritroveranno qualche gallina dalle uova d’oro tra le mani, come nel caso di Telecom, Eni, Enel, Autostrade.

Per contro, dal lato dei cosiddetti garantiti e privilegiati, cioè della forza lavoro nel settore pubblico, la gestione della crisi è avvenuta attraverso altri strumenti: una campagna stampa contro i fannulloni, le minacce di privatizzazione e soprattutto di licenziamento, una retorica incessante su quanti sarebbero i fortunati nella lotteria della vita. Se di questa propaganda sono stati artefici i due precedenti governi, l’attuale partito di maggioranza relativa sembra ben lieto di continuarne l’opera, iniziando con la riduzione del potere d’acquisto dei salari, grazie alla proroga del blocco delle buste paga fino alla fine del 2014, che rende sempre meno attraente questi posti di lavoro. Il settore privato ha così allargato il bacino di forza lavoro a cui attingere offrendo livelli retributivi mediamente più elevati.

In due anni, dal 2010 al 2011, il blocco delle assunzioni e degli stipendi ha fatto perdere mediamente più di 2000 euro a ciascuno dei dipendenti pubblici, garantendo un risparmio di 6,6 miliardi di euro alle casse statali. In prospettiva, grazie al ritardo degli scatti di anzianità e a una forza lavoro piuttosto ‘anziana’, queste manovre permetteranno ulteriori risparmi, ma anche probabilmente una riduzione del Pil. Un aspetto questo largamente sconosciuto. La spesa per redditi da lavoro dipendente nella Pubblica amministrazione è oggi pari a circa 165 miliardi di euro e la sua incidenza sul prodotto interno lordo è diminuita dall’11,1% del 2010 al 10,6% del 2012. La campagna contro i lauti stipendi dei ministeriali e dei manager pubblici occulta il fatto che la maggior parte dei dipendenti pubblici percepisce dei salari da stento, 1100-1300 euro al mese. Per chi è assunto a tempo indeterminato la relativa sicurezza del posto di lavoro è sempre stata scambiata con bassi salari medi e scarse opportunità di carriera, ma molti dimenticano come il settore pubblico sia stato anche un’avanguardia nelle forme di precarizzazione del lavoro, tanto dirette quanto attraverso i subappalti. D’altra parte non esistono politiche del welfare senza un settore pubblico che le gestisca. Ed è significativo che la spending review voluta da Monti, su oltre tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici a livello nazionale, ne ha individuati 7.800 in esubero, di cui 3.300, praticamente la metà del totale, all’Inps.

Il blocco delle assunzioni e degli stipendi del settore pubblico è piombato su circa 3,2 milioni di lavoratori senza alcuna possibilità di negoziazione. Di questa vicenda l’aspetto che sorprende è la capacità sindacale di mantenere bassissimo il livello di conflittualità, nonostante il settore pubblico sia tra i più sindacalizzati, con circa 1,1 milioni di iscritti, più di un terzo di tutti i lavoratori, e nonostante una relativa presenza dei sindacati di base. Al netto delle accuse di oziosità, buone solo per additarli al pubblico ludibrio come dei privilegiati, l’attacco ai lavoratori pubblici è legato alla loro maggiore autonomia nel posto di lavoro e ai diritti che li proteggono dal licenziamento con uno schiocco con le dita. Ma il settore pubblico rappresenta anche una riserva di reddito, disciplina e identità del corpo del lavoro e del sindacato dal quale, non a caso, sono esclusi i lavoratori migranti. Anche l’apertura degli impieghi pubblici ai migranti richiesta dall’Unione Europea avrebbe effetti ormai solo nel lunghissimo periodo, tenendo conto della loro condizione di partenza e del blocco del turn over.

Attraverso il blocco di stipendi e assunzioni il popolo delle libertà prima e quello della legalità poi hanno spazzato via la finzione dell’autonomia della contrattazione collettiva e la sua equiparazione a una legge ordinaria. Il contratto collettivo di lavoro ha sempre avuto aspetti di forte contraddizione, ma l’accordo sulla Rappresentanza del maggio scorso vorrebbe farne una gabbia per l’agibilità operaia, impedendo qualsiasi protesta per tutto l’arco della sua vigenza. Una volta firmato il contratto collettivo, l’azienda avrà così mano libera nella produzione e per contrastarla occorrerà attivare procedure burocratiche e inefficaci, facendo percepire ai lavoratori tutta la loro impotenza. Un sistema che negli ultimi vent’anni diversi paesi ex-comunisti dell’Europa orientale hanno dovuto applicare per entrare nel club europeo dei paesi ‘ricchi’.

In maniera assolutamente coerente, dopo essere stata obbligata dalla sentenza della Corte costituzionale a riammettere nei suoi stabilimenti i delegati della Fiom-Cgil, la Fiat ha posto come condizione preliminare una legge generale sulla rappresentanza sindacale. Se i rapporti di forza dentro e fuori la fabbrica rischiano di essere determinanti, una legge generale può sempre neutralizzarne gli effetti. La sinistra italiana sembra ancora ipnotizzata dai pifferai che suonano la melodia del capitalismo molecolare e creativo sedendo indifferentemente alle tavole rotonde confindustriali, sindacali o di qualche partito più o meno rifondato. Nel corso degli ultimi vent’anni, la vera trasformazione italiana è consistita nel processo di smantellamento ideologico e materiale di qualsiasi elemento di parziale autonomia del lavoro rispetto al capitale: un percorso garantito anche dal silenzio dei molti intellettuali rintanati nelle università che pure non disdegnano qualche raccolta firme per la salvezza della democrazia. Per questo anche i sussulti ribellisti tendono ad acquisire carattere morale più che politico.

L’illusione che uno sciopero generale o più modestamente una manifestazione nazionale possano, come per incanto, svegliarci dal torpore è assai diffusa. Ma il violento processo di proletarizzazione che interessa ampie fasce del mondo del lavoro non è certo una condizione sufficiente per l’emergere di una risposta. È infatti fin troppo facile prevedere che per uscire dalla crisi politica e dalla sua gestione non servirà granché agitare la Costituzione o cercare di costruire un nuovo partito per le prossime elezioni che verranno. A meno che qualcuno non creda ancora nella necessità di una convergenza nel nome dell’interesse generale del paese. È invece dall’espressione di un punto di vista parziale, come le lotte della logistica per quanto territorialmente limitate sembrano indicarci, che forse è possibile ripartire. Mettendo in discussione ritmi, carichi di lavoro e bassi salari, i lavoratori migranti hanno contestato sul campo il mantra dell’assenza di alternativa. Forse anche i lavoratori di altri comparti potrebbero raccogliere tali indicazioni, magari non in vista di un autunno caldo, ma almeno per iniziare a invertire la rotta.

Fonte

Un articolo che smonta molte speranze e prospettive, anche del sottoscritto. Francamente, però, non trovo alcun argomento per controbattere.

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