Sono passati tre anni dall’inizio della guerra civile siriana,
cominciata nelle strade di Damasco, Homs e Aleppo con manifestazioni
popolari contro il regime della famiglia Assad e trasformatasi in pochi
mesi in un sanguinoso conflitto interno. Il bilancio è quello di un
Paese distrutto: almeno 146mila morti, nove milioni di rifugiati (di cui 2,5 milioni fuori dal territorio siriano), città devastate da bombardamenti e attacchi, un’economia a pezzi.
Oggi, 15 marzo, si entra nel quarto anno di guerra senza vedere luci
in fondo al tunnel. I tentativi diplomatici di Mosca e Washington si
fondano su basi fragili, sulle spaccature interne alle frange delle
opposizioni e sull’avanzata pericolosa delle forze islamiste estere. E la conferenza di Ginevra si è di nuovo arenata sulle precondizioni al dialogo poste dalla Coalizione Nazionale Siriana,
unico rappresentante legittimo del popolo siriano agli occhi della
comunità internazionale, che non intende discutere di una transizione
politica che preveda la partecipazione di Assad.
Sul fronte diplomatico, dopo il fallimento di Ginevra 2, il
segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon è tornato a fare
pressioni su Russia e Iran (che la stessa Onu non invitò in Svizzera a
febbraio) perché facciano da mediatori con il regime, accusato
di “ritardare” il dialogo. Ieri Mikhail Ulyanov, capo del dipartimento
per il disarmo del Ministero degli Esteri russo, ha fatto sapere che
entro la fine di marzo Damasco presenterà all’Organizzazione per la
Proibizione delle Armi Chimiche un nuovo piano per la distruzione
dell’arsenale in suo possesso: “Se non ci saranno difficoltà, entro un mese, il 13 aprile, la rimozione sarà praticamente completata”,
ha detto Ulyanov. Un mese di ritardo rispetto ai programmi
dell’Organizzazione che aveva dato a Damasco tempo fino ad oggi, 15
marzo, per eliminare 1.300 tonnellate cubiche di agenti tossici e dodici
strutture di produzione.
Sul campo la situazione resta frammentata: il regime di
Bashar al-Assad ha mantenuto il controllo di Damasco e delle città lungo
la costa, mentre le diverse formazioni ribelli si spartiscono il Nord e
il Sud della Siria. Nelle province settentrionali di Aleppo e
Idlib, l’Esercito Libero Siriano (formazione laica specchio della
Coalizione Nazionale) è impegnato in una faida interna con la formazione
jihadista dell’ISIL, riuscito in brevissimo tempo a garantirsi il
controllo di parte del Nord Ovest siriano e di città chiave come Raqqah e
comunità nelle province di Aleppo e Idlib, fino a Latakia. Come
riportato ieri dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, però, i
miliziani qaedisti hanno perso il controllo dell’area e sono stati
costretti alla ritirata da Idlib e Latakia.
Da parte sua Il Fronte al-Nusra, presente in tutto il Paese,
controlla per lo più il territorio ad Est ed in particolare Shahadeh e
Al-Omar, aree ricche di petrolio. A Nord Est un ruolo consistente è
giocato anche dai miliziani curdi, attivi nella provincia di Hasakah e
impegnati in scontri contro i gruppi islamisti.
A Sud il regime sta di nuovo avanzando, forte del sostegno
militare dei miliziani di Hezbollah. Ieri le forze governative sono
entrate nella città di Yabroud, roccaforte dei ribelli, al
confine con il Libano. Immagini televisive mostrano i soldati di Assad
muoversi nei campi vicino all’ingresso della città con un cartello con
su scritto “Benvenuti a Yabroud”. Secondo quanto riportato da fonti
dell’esercito, i miliziani del Fronte al-Nusra sarebbero fuggiti verso
il villaggio di Rankus a Sud, mentre uomini di Hezbollah e soldati
siriani rafforzavano le proprie posizioni anche ad Aqaba, a cinque
chilometri da Yabroud. Nena News
La riconquista della città di frontiera garantirebbe a
Damasco il controllo delle vie di ingresso di armi e miliziani a favore
delle opposizioni. Una città svuotatasi nell’ultimo mese, dopo i
primi bombardamenti governativi: sarebbero migliaia i residenti fuggiti
da Yarmoud per il timore di un attacco via terra.
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