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27/03/2014

Thailandia, governo in bilico

di Mario Lombardo

Una recente sentenza della Corte Costituzionale thailandese, assieme all’aggravamento dei guai giudiziari del primo ministro Yingluck Shinawatra e ad un imminente appuntamento elettorale, ha contribuito in questi giorni a rianimare le proteste di piazza contro il governo di Bangkok, riesplose ormai dallo scorso novembre dopo due anni di relativa pace nel paese dell’Asia sud-orientale.

A riportare i sostenitori dell’opposizione, della monarchia e dell’esercito nelle strade della capitale è stata innanzitutto la decisione del più alto tribunale della Thailandia di annullare le elezioni per la camera bassa del Parlamento, tenute il 2 febbraio scorso e vinte nettamente dal partito di governo (Pheu Thai). L’annullamento non è stato dovuto a brogli o irregolarità, bensì al fatto che le operazioni non sono avvenute in un unico giorno, rendendo il procedimento incostituzionale.

In effetti, 28 distretti del paese non avevano potuto votare, a causa però del blocco degli uffici elettorali proprio da parte dei manifestanti anti-governativi organizzati nel cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica (PDRC), i quali avevano impedito la registrazione dei candidati. In altri 5 distretti elettorali, poi, le urne sono rimaste chiuse in seguito ai disordini causati sempre dall’opposizione il giorno del voto.

Di fronte a questi ostacoli, la Commissione Elettorale si era rifiutata di registrare i candidati in sedi alternative, giudicando più opportuno rimandare la consultazione nei distretti in questione pur sapendo di mettere a rischio la costituzionalità dell’intera operazione di voto.

Sia la Corte Costituzionale che la Commissione Elettorale, d’altra parte, sono considerate vicine all’opposizione. La prima, in particolare, dopo essere stata trasformata dai militari in seguito al colpo di stato del 2006 che depose l’allora premier, Thaksin Shinawatra, ha vari precedenti nei quali ha favorito politicamente i rivali di quest’ultimo.

Nel 2007, ad esempio, il tribunale sciolse il partito di Thaksin – Thai Rak Thai – e l’anno successivo avrebbe fatto lo stesso con il suo successore – Partito del Potere Popolare – basando la propria sentenza su accuse di frode elettorale.

L’annullamento delle elezioni, perciò, è l’ennesimo tentativo del potere giudiziario thailandese di estromettere dal governo i sostenitori di Thaksin, spianando di fatto la strada ad un regime non eletto per salvaguardare gli interessi delle élite minacciate dall’evoluzione del quadro politico dell’ultimo decennio.

Intanto, i manifestanti guidati dall’ex vice-primo ministro e già deputato del Partito Democratico di opposizione, Suthep Thaugsuban, nella giornata di mercoledì hanno marciato a Bangkok per il terzo giorno consecutivo. Queste manifestazioni, secondo gli organizzatori, dovrebbero servire a raccogliere partecipanti ad una protesta ancora più massiccia in programma sabato prossimo per promuovere nuovamente la “riforma” del sistema thailandese prima di procedere con nuove elezioni.

La protesta anticiperà di un solo giorno il voto per il rinnovo di poco più della metà del Senato e che l’opposizione non ha alcuna intenzione di boicottare. Anzi, in questo caso i militanti anti-governativi intendono utilizzare l’appuntamento elettorale a loro favore per esercitare ancora maggiori pressioni sul governo.

Secondo l’ordinamento thailandese, solo 77 membri del Senato su 150 vengono scelti dagli elettori, mentre i rimanenti seggi sono assegnati da una speciale commissione formata da alcuni dei più importanti esponenti del potere giudiziario, tra cui i presidenti della Corte Costituzionale e della Commissione Elettorale.

Potendo contare dunque sulla nomina di senatori ben disposti verso la causa dell’opposizione, a quest’ultima basterà conquistare una manciata di seggi nel voto popolare di domenica per avere la maggioranza dei tre quinti nella Camera alta, necessari per rimuovere dal proprio incarico la premier Yingluck.

Inoltre, il presidente del Senato Nikom Wairatpanich, considerato vicino al governo, è stato sospeso dal suo incarico in attesa di una decisione dell’organo legislativo thailandese sulla possibilità di sottoporlo ad impeachment per avere abusato delle proprie funzioni. Al suo posto è stato nominato il vice, Surachai Liengboonlertchai, decisamente meglio disposto verso l’opposizione se dovesse essere chiamato, come prevede la costituzione, a scegliere un primo ministro ad interim nelle prossime settimane.

Ciò potrebbe essere la conseguenza di un procedimento di impeachment che minaccia di essere aperto a breve anche nei confronti della sorella dell’ex primo ministro in esilio Thaksin. Yingluck è infatti indagata dalla Commissione Nazionale Anti-Corruzione – anch’essa schierata a fianco dell’establishment thailandese – per avere gestito in maniera sconsiderata un piano di acquisto di riso dai coltivatori indigeni a prezzi superiori a quelli di mercato. Questo progetto, che contribuì al successo elettorale del partito di governo, ha causato gravi perdite per le casse pubbliche, con tonnellate di riso invenduto e decine di migliaia di contadini tuttora senza compenso.

Yingluck avrà tempo fino al 31 marzo per presentare la propria difesa e, nel caso dovesse essere ritenuta colpevole, verrebbe con ogni probabilità rimossa dalla carica di primo ministro e bandita almeno per alcuni anni dall’attività politica.

In questo scenario sempre più teso potrebbe inserirsi anche l’intervento dei sostenitori del governo, le cosiddette “Camicie Rosse”, i cui leader negli ultimi giorni hanno rilasciato dichiarazioni minacciose. Questi gruppi filo-governativi formati in gran parte da contadini e membri delle classi più disagiate del nord del paese, che hanno beneficato maggiormente delle limitate politiche di riforma sociale dei fratelli Shinawatra, hanno già manifestato qualche giorno fa contro la sentenza della Corte Costituzionale e hanno annunciato una nuova manifestazione per il 5 aprile, possibilmente a Bangkok, facendo aumentare il rischio di scontri violenti con l’opposizione del PDRC.

Secondo alcuni osservatori, al contrario, la sentenza di annullamento delle elezioni del 2 febbraio potrebbe essere l’occasione per superare lo stallo nel paese. Se il Partito Democratico, che aveva boicottato il voto, dovesse decidere di partecipare alle prossime consultazione, si potrebbe aprire infatti un percorso condiviso verso la risoluzione della crisi all’interno del quadro costituzionale.

I segnali provenienti dall’opposizione politica e di piazza, tuttavia, sembrano andare nella direzione opposta, con il leader del PDRC che ha ad esempio già minacciato nuovi disordini se venisse indetta un’altra elezione a breve.
Per Suthep e i suoi seguaci, l’obiettivo rimane quello di creare un “consiglio del popolo” non elettivo che nomini un nuovo esecutivo per “riformare” il sistema politico.

Il numero uno del Partito Democratico, l’ex primo ministro Abhisit Vejjajiva, ha anch’egli lasciato poche speranze, dichiarando martedì che la sua formazione non parteciperà al voto finché “le regole continueranno a risultare inaccettabili per la popolazione”. Il riferimento di Abhisit alla popolazione thailandese appare però assurda, visto che il suo partito e i gruppi di protesta anti-governativi rappresentano in larga misura le tradizionali strutture di potere del paese del sud-est asiatico.

In ogni caso, i vertici del Partito Democratico si riuniranno nel fine settimana per stabilire la propria posizione ufficiale in relazione alla questione elettorale, così come i membri della Commissione Elettorale si incontreranno nei prossimi giorni con i rappresentanti dei vari partiti per discutere del voto.

Il clima generale appare però sempre più cupo per il governo, già privato dei pieni poteri fin dallo scioglimento della precedente legislatura, costretto a fare i conti con un’economia in rapido deterioramento e assediato dai tradizionali poteri forti thailandesi, ben intenzionati a mettere fine una volta per tutte alla lunga parentesi di potere del clan Shinawatra.

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