di Mario Lombardo
Una recente sentenza della
Corte Costituzionale thailandese, assieme all’aggravamento dei guai
giudiziari del primo ministro Yingluck Shinawatra e ad un imminente
appuntamento elettorale, ha contribuito in questi giorni a rianimare le
proteste di piazza contro il governo di Bangkok, riesplose ormai dallo
scorso novembre dopo due anni di relativa pace nel paese dell’Asia
sud-orientale.
A riportare i sostenitori dell’opposizione, della
monarchia e dell’esercito nelle strade della capitale è stata
innanzitutto la decisione del più alto tribunale della Thailandia di
annullare le elezioni per la camera bassa del Parlamento, tenute il 2
febbraio scorso e vinte nettamente dal partito di governo (Pheu Thai).
L’annullamento non è stato dovuto a brogli o irregolarità, bensì al
fatto che le operazioni non sono avvenute in un unico giorno, rendendo
il procedimento incostituzionale.
In effetti, 28 distretti del
paese non avevano potuto votare, a causa però del blocco degli uffici
elettorali proprio da parte dei manifestanti anti-governativi
organizzati nel cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica
(PDRC), i quali avevano impedito la registrazione dei candidati. In
altri 5 distretti elettorali, poi, le urne sono rimaste chiuse in
seguito ai disordini causati sempre dall’opposizione il giorno del voto.
Di
fronte a questi ostacoli, la Commissione Elettorale si era rifiutata di
registrare i candidati in sedi alternative, giudicando più opportuno
rimandare la consultazione nei distretti in questione pur sapendo di
mettere a rischio la costituzionalità dell’intera operazione di voto.
Sia
la Corte Costituzionale che la Commissione Elettorale, d’altra parte,
sono considerate vicine all’opposizione. La prima, in particolare, dopo
essere stata trasformata dai militari in seguito al colpo di stato del
2006 che depose l’allora premier, Thaksin Shinawatra, ha vari precedenti
nei quali ha favorito politicamente i rivali di quest’ultimo.
Nel
2007, ad esempio, il tribunale sciolse il partito di Thaksin – Thai Rak
Thai – e l’anno successivo avrebbe fatto lo stesso con il suo
successore – Partito del Potere Popolare – basando la propria sentenza
su accuse di frode elettorale.
L’annullamento delle elezioni,
perciò, è l’ennesimo tentativo del potere giudiziario thailandese di
estromettere dal governo i sostenitori di Thaksin, spianando di fatto la
strada ad un regime non eletto per salvaguardare gli interessi delle
élite minacciate dall’evoluzione del quadro politico dell’ultimo
decennio.
Intanto, i manifestanti guidati dall’ex vice-primo
ministro e già deputato del Partito Democratico di opposizione, Suthep
Thaugsuban, nella giornata di mercoledì hanno marciato a Bangkok per il
terzo giorno consecutivo. Queste manifestazioni, secondo gli
organizzatori, dovrebbero servire a raccogliere partecipanti ad una
protesta ancora più massiccia in programma sabato prossimo per
promuovere nuovamente la “riforma” del sistema thailandese prima di
procedere con nuove elezioni.
La
protesta anticiperà di un solo giorno il voto per il rinnovo di poco
più della metà del Senato e che l’opposizione non ha alcuna intenzione
di boicottare. Anzi, in questo caso i militanti anti-governativi
intendono utilizzare l’appuntamento elettorale a loro favore per
esercitare ancora maggiori pressioni sul governo.
Secondo
l’ordinamento thailandese, solo 77 membri del Senato su 150 vengono
scelti dagli elettori, mentre i rimanenti seggi sono assegnati da una
speciale commissione formata da alcuni dei più importanti esponenti del
potere giudiziario, tra cui i presidenti della Corte Costituzionale e
della Commissione Elettorale.
Potendo contare dunque sulla nomina
di senatori ben disposti verso la causa dell’opposizione, a
quest’ultima basterà conquistare una manciata di seggi nel voto popolare
di domenica per avere la maggioranza dei tre quinti nella Camera alta,
necessari per rimuovere dal proprio incarico la premier Yingluck.
Inoltre,
il presidente del Senato Nikom Wairatpanich, considerato vicino al
governo, è stato sospeso dal suo incarico in attesa di una decisione
dell’organo legislativo thailandese sulla possibilità di sottoporlo ad
impeachment per avere abusato delle proprie funzioni. Al suo posto è
stato nominato il vice, Surachai Liengboonlertchai, decisamente meglio
disposto verso l’opposizione se dovesse essere chiamato, come prevede la
costituzione, a scegliere un primo ministro ad interim nelle prossime
settimane.
Ciò potrebbe essere la conseguenza di un procedimento
di impeachment che minaccia di essere aperto a breve anche nei confronti
della sorella dell’ex primo ministro in esilio Thaksin. Yingluck è
infatti indagata dalla Commissione Nazionale Anti-Corruzione – anch’essa
schierata a fianco dell’establishment thailandese – per avere gestito
in maniera sconsiderata un piano di acquisto di riso dai coltivatori
indigeni a prezzi superiori a quelli di mercato. Questo progetto, che
contribuì al successo elettorale del partito di governo, ha causato
gravi perdite per le casse pubbliche, con tonnellate di riso invenduto e
decine di migliaia di contadini tuttora senza compenso.
Yingluck
avrà tempo fino al 31 marzo per presentare la propria difesa e, nel
caso dovesse essere ritenuta colpevole, verrebbe con ogni probabilità
rimossa dalla carica di primo ministro e bandita almeno per alcuni anni
dall’attività politica.
In questo scenario sempre più teso
potrebbe inserirsi anche l’intervento dei sostenitori del governo, le
cosiddette “Camicie Rosse”, i cui leader negli ultimi giorni hanno
rilasciato dichiarazioni minacciose. Questi gruppi filo-governativi
formati in gran parte da contadini e membri delle classi più disagiate
del nord del paese, che hanno beneficato maggiormente delle limitate
politiche di riforma sociale dei fratelli Shinawatra, hanno già
manifestato qualche giorno fa contro la sentenza della Corte
Costituzionale e hanno annunciato una nuova manifestazione per il 5
aprile, possibilmente a Bangkok, facendo aumentare il rischio di scontri
violenti con l’opposizione del PDRC.
Secondo alcuni osservatori,
al contrario, la sentenza di annullamento delle elezioni del 2 febbraio
potrebbe essere l’occasione per superare lo stallo nel paese. Se il
Partito Democratico, che aveva boicottato il voto, dovesse decidere di
partecipare alle prossime consultazione, si potrebbe aprire infatti un
percorso condiviso verso la risoluzione della crisi all’interno del
quadro costituzionale.
I
segnali provenienti dall’opposizione politica e di piazza, tuttavia,
sembrano andare nella direzione opposta, con il leader del PDRC che ha
ad esempio già minacciato nuovi disordini se venisse indetta un’altra
elezione a breve.
Per Suthep e i suoi seguaci, l’obiettivo rimane quello di creare un
“consiglio del popolo” non elettivo che nomini un nuovo esecutivo per
“riformare” il sistema politico.
Il numero uno del Partito
Democratico, l’ex primo ministro Abhisit Vejjajiva, ha anch’egli
lasciato poche speranze, dichiarando martedì che la sua formazione non
parteciperà al voto finché “le regole continueranno a risultare
inaccettabili per la popolazione”. Il riferimento di Abhisit alla
popolazione thailandese appare però assurda, visto che il suo partito e i
gruppi di protesta anti-governativi rappresentano in larga misura le
tradizionali strutture di potere del paese del sud-est asiatico.
In
ogni caso, i vertici del Partito Democratico si riuniranno nel fine
settimana per stabilire la propria posizione ufficiale in relazione alla
questione elettorale, così come i membri della Commissione Elettorale
si incontreranno nei prossimi giorni con i rappresentanti dei vari
partiti per discutere del voto.
Il clima generale appare però
sempre più cupo per il governo, già privato dei pieni poteri fin dallo
scioglimento della precedente legislatura, costretto a fare i conti con
un’economia in rapido deterioramento e assediato dai tradizionali poteri
forti thailandesi, ben intenzionati a mettere fine una volta per tutte
alla lunga parentesi di potere del clan Shinawatra.
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