La sede del Ministero degli Esteri a Bengasi colpita da un’esplosione (Foto: Abdullah Doma/AFP/GETTY IMAGES) |
La Libia diventerà un feudo qaedista. Questa la cupa profezia lanciata oggi dall’ex premier libico Ali Zeidan, fuggito in Europa dopo la sfiducia del proprio parlamento all’inizio di marzo. E annuncia il suo ritorno, “molto presto”, nel Paese al fine di fronteggiare le minacce estremiste dei gruppi islamisti.
“La Libia potrebbe diventare una base per le operazioni di Al Qaeda in Italia, in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna e in Marocco, ovunque – ha detto Zeidan in un’intervista al quotidiano inglese The Times – Le armi sono dappertutto, le munizioni sono dappertutto. Il mio piano è combattere per riformare lo Stato e stabilizzare la situazione. Queste persone [gruppi legati ad Al Qaeda e alla Fratellanza Musulmana, ndr] vogliono che la Libia non sia un Paese civile, uno Stato di legge, ma vogliono che diventi come l’Afghanistan”.
La mozione di sfiducia contro Zeidan era stata votata in massa da due partiti considerati nemici: il movimento radicale Wafa e il partito Costruzione e Giustizia, braccio politico dei Fratelli Musulmani in Libia. E oggi l’ex premier punta il dito contro il loro presunto ruolo destabilizzatore.
A quasi tre anni dalla deposizione e uccisione del colonnello Gheddafi, dittatore dal pugno di ferro ma capace per decenni di tenere insieme le diverse anime del Paese, dalle tribù beduine ai movimenti separatisti della Cirenaica, il Paese figlio dei bombardamenti della NATO della primavera del 2011 non riesce a trovare alcun tipo di stabilità, né politica né economica.
A monte gli interessi di non pochi attori internazionali che vedono nella Libia la preda perfetta per forme di “neocolonialismo energetico”. Tanto fondamentale è la questione greggio da essere utilizzata dalle stesse opposizioni al regime di Tripoli: nella ribelle Cirenaica, le milizie armate – che sostennero la caduta di Gheddafi e che ora puntano alla loro parte del bottino – agiscono indisturbate, occupando porti e tentando di vendere all’estero il prezioso petrolio libico, liberi dal controllo del potere centrale.
Se il colpo della Morning Glory, nave battente bandiera nordcoreana e carica di greggio libico, fosse andato a buon fine (si calcola che portasse con sé petrolio per un valore di 35 milioni di dollari), il governo ombra di Bengasi, autonominatosi lo scorso anno e guidato da Ibrahim Jadhran, avrebbe oggi in mano risorse tali da permettersi un conflitto interno con Tripoli. Un conflitto che avrebbe potuto tradursi in una guerra civile aperta.
La Libia è nel caos, incapace di ricostruirsi e di porre fine alle dispute politiche, economiche e tribali. Le elezioni previste per il prossimo luglio si svolgeranno in un clima di settarismi e violenze, prodotto della tradizionale spaccatura interna libica. Gli attentati firmati da gruppi vicini ad Al Qaeda stanno aumentando di numero, mentre le milizie armate non intendono abbandonare le armi. La Cirenaica, da sempre difficilmente allineata alla Tripolitania. Da due anni il braccio di ferro continua, tra occupazioni di porti e tentativi di vendere all’estero il petrolio libico senza passare per la capitale, provocando un crollo delle esportazioni di greggio (da 1.4 milioni di barili al giorno dello scorso luglio fino i 375mila di oggi).
Per ora la conseguenza più eclatante è la caduta di un governo messo in piedi dopo i bombardamenti della NATO e da subito incapace di tenere insieme le diverse anime politiche e tribali della Libia e troppo debole per controllare (e ritirare) le armi rimaste in mano alle milizie dopo la caduta di Gheddafi.
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