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19/04/2014

Così il food ha ucciso il cibo, basta coi radical chic

L’ossessione del mangiar bene è l’ancella dei nuovi radical-chic. Un’estenuante masturbazione cultural-democratica. Il Food ha ucciso il cibo e dire "io so cucinare" è diventato l'equivalente di quello che negli anni '80 era il sapere andare a vela.

“Pensavo fosse il secolo del sesso e invece è solo il secolo del cibo, che tristezza”. Così rifletteva il mio impagabile alleato Paolo Poli. Quand’è che siamo diventati così? Quand’è che il cibo ha smesso di essere il tradizionale coadiuvante delle nostre conversazioni, la base materiale dei nostri simposi e convivi per diventare esso stesso “la” conversazione?

Io sono probabilmente il relitto di un’epoca passata. Io quando qualcuno mi confessa di avere l’hobby della cucina con la stessa compiaciuta certezza di essere un fico di chi vent’anni fa diceva di andare in barca a vela, devo fare appello a tutto il mio autocontrollo per non dire “E io per hobby tolgo il calcare dal piatto doccia”. Per me ha ragione Paolo Poli, mangiare è bello, la sua bellezza, però, è inversamente proporzionale al dispendio energetico che l’atto richiede. Se per mangiare devo spignattare per ore o sorbirmi le tante complesse spiegazioni di chi ha spignattato, allora “meglio un uovo al tegamino”. Amen, sublime Poli, mio maestro di insofferenza.

Il foodie italico, naturalmente, non concorda con me. Il foodie italico, questa sfuggente e però onnipresente figura. Per poterlo criticare sarebbe bello poterne individuare con sicurezza certi tratti salienti, fare un sommario identikit – ceto, censo, genere, allineamento politico. Ma il problema, che poi è quello che lo rende a mio avviso così irritante, è proprio il suo nulla identitario, il suo voler giocare contemporaneamente su tutti i tavoli: vuole lodare con le lacrime agli occhi le ricotte confezionate sotto alla tangenziale da un vecchio pecoraio avvinazzato e poi senza nemmeno riprendere fiato raccontarci della sua ultima visita da Bottura. Vuole la cucina molecolare e lo chef stellinato di Tokyo ma anche stare dalla parte degli ultimi della terra. Tiene insieme tutto. Il foie gras che è, sì, poco animalista ma pur sempre il prodotto di una sapienzale tradizione – Tradizione, il foodie si accende a sentir pronunciare la parola tradizione, quella nostrana e di tutti i terzi mondi immaginabili. Vuole il kilometro zero a casa sua e la via campesina a casa degli altri. Vuole la tutela del consumatore e la filiera trasparente ma poi si commuove di fronte all’hocus-pocus botulineggiante confezionato da mani mai sfiorate dai lacciuoli dei perversi burocrati dell’HACCP (e, forse, nemmeno dal sapone). È ecologista e fanatico del bio il nostro foodie, ma se qualcuno gli fa notare (come fa il buon Antonio Pascale da anni riscrivendo instancabile lo stesso libro) che forse il bio non esiste e che, magari, con gli OGM si possono sfamare a prezzi accessibili molte più persone ecco che il suo viso si dipinge dei colori della tristezza.

Sul cibo siamo tutti d’accordo, e certo l’argomento è all’apparenza dei più inclusivi – chi non ha qualcosa da dire? Siccome siamo sempre tutti d’accordo non c’è dibattito, le nostre cene sono diventate l’equivalente intellettuale di quel sonnellino che eravamo abituati a farci dopo mangiato – non durante. Siamo tutti d’accordo, dicevamo, un po’ perché non ha senso essere in disaccordo su qualcosa che è pari ai discorsi sul meteo degli inglesi e un po’ perché esaltare la nostra gloriosa tradizione eno-gastronomica è quello che facciamo oggi invece di dare l’oro alla patria.

L’unico settore che ancora mostra segni di vitalità, il motore di un gigantesco indotto che raccoglie produttori, ristoratori, rivenditori, ma anche critica gastronomici, editoria, televisione, e infine creativi, organizzatori di eventi, operatori turistici... e noi con che coraggio ce la prendiamo con quei pochi che ancora lavorano, fanno girare l’economia?

Il foodie ama cavalcare il divario che separa le istanze di giustizia sociale dal più squisito conspicuous consumption capitalista, un piede di qua e uno di là. Ma davvero queste componenti hanno lo stesso peso o è una cosa che ci raccontiamo per dare una patente engagé alla nostra ricerca di gratificazione istantanea? Perché da una parte abbiamo i picchi di comicità involontaria delle elegie di Carlin Petrini su cose come la “Favela Organica”, formule che danno l’idea di essersi involate nel più arcano e incomunicabile radical-chiccismo e di declinare tutte le sfumature possibili del nostro senso di colpa occidentale; dall’altra abbiamo il Food come incentivo allo spendere, che tutti i colori dello spettro ideologico prende e fonde nel bianco dell’Affluenza. Perché questo hanno in comune il caffè equo-solidale comprato da Starbucks e le Domestic Goddess della televisione, dalla divina Nigella alla nostra più sciuretta Parodi: un non-pensiero che vuole, appunto, per slogan, tenere insieme tutto, e la promessa emancipatoria del consumo laddove l’ideologia ha fallito.

Ormai sarà chiaro, se il fanatismo fosse appannaggio esclusivo degli addetti ai lavori o di chi ha risorse tali da poter cenare ogni sera da uno chef diverso (insomma, se le cose fossero come una volta) io vivrei lieta e ignara. Ma non è così. Slow-food, Gamberorosso Channel, Eataly, le cuoche televisive, il food-porn.

Quello che non ci vogliamo dire, impegnati come siamo a far lievitare l’impasto di questo arioso discorso collettivo è che il Food ha ucciso il cibo. L’atto del mangiare, lo spensierato connubio di necessità fisiologica, incombenza quotidiana e convivialità è morto. È morto quando abbiamo preso a fotografare le pietanze che abbiamo ordinato al ristorante; quando abbiamo sventrato le nostre case per creare cucine grandi come sale da concerto.

I have a dream... E il suo nome è Soylent, una sorta di bibitone giallino che un giovane ingegnere americano ha messo a punto. Soylent contiene, secondo il suo inventore Rob Rhinehart, tutti i nutrienti che servono, in proporzioni variabili a seconda delle esigenze individuali. Sostenibile, facile e poco costoso da produrre, ecologico, sano. Penseresti che i primi ad entusiasmarsi siano quelli che hanno a cuore i paesi in via di sviluppo, l’ambiente, la salute. Ma manco per niente. Rob, io ti capisco. Rob, io voglio farti un bonifico, posso avere il tuo IBAN? Aspetto Soylent da quando ero piccola e sognavo le pasticche degli astronauti, lo aspetto come il secondo avvento del Messia, voglio un mondo senza obesi e senza sensi di colpa, un mondo in cui la spesa la faccio solo se mi va, dove non ci sono piatti da lavare e dove, soprattutto, possiamo finalmente ricominciare tutti a parlar d’altro.

Fonte

Mi è venuta voglia di recuperare questo articolo ieri, quando il mestiere m'ha portato in mezzo a un gruppo di ragazze che in pausa pranzo erano intente a discutere con tono masturbatorio di frittate, nel frattempo gli olezzi che uscivano dal microonde in cui una scaldava la propria pietanza erano imbarazzanti...
Mi piace, anche a livello di simpatia, come l'autrice declina un po' tutto il discorso, ho giusto qualche riserva su determinati passaggi qua e la e sulla conclusione. Madonna svizzera! Se in sta vita mi levano pure il piacere di mettere in bocca una forchettata di maccheroni al dente mentre in mano tengo un gotto di dolcetto ammazzo qualcuno!!! Fermo restando che il discettare di cucina anche in tempi non sospetti era sinonimo di cultura piuttosto ristretta...

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