Liberazione dai nazi-fascisti a Genova |
E’ nella storia personale e di famiglia sentire molto vicina la giornata del 25 aprile. Resistenza, lotta di liberazione e antifascismo sono parole importanti, preziose. Sono stato iscritto all’Anpi sino a che il vecchio partigiano che teneva aperta la sezione nella Casa del Popolo non è morto. Comunque e ovunque io sia, il 25 aprile ottiene da parte mia un omaggio personale di cui difficilmente parlo. Momento di riflessione intima. Come la visita solitaria al tuo personale sacrario di cui hai ritrosia a parlare persino alle persone dell’amore. Anni fa a Roma, col cognato che veniva dal nord dove fischiava il vento ed ha infuriato la bufera, sono andato alla commemorazione sulla piazza del Campidoglio. Anni addietro, coi figli ancora obbedienti al seguito, furono le Fosse Ardeatine, poi porta San Paolo, e un’altra volta alla Sinagoga.
Prima, nella Genova della mia storia, c’erano altre occasioni: sovente il sacrario della Benedicta, tutto l’appennino e le prealpi liguri delle divisioni partigiane garibaldine. Oppure lungo l’antica via Postumia, il territorio della Brigata partigiana Pinan Cichero. Dopo la Liberazione, 1951, in quella vallata, il regista Carlo Lizzani girò il film “Achtung, banditi”. Neorealismo resistente con molti attori improvvisati. Il mio amico Bruno Berellini, comandante partigiano vero e poco credibile fidanzato cinematografico della giovanissima Gina Lollobrigida. Bruno fece altri due film accanto a personaggi come Marcello Mastroianni e Giulietta Masina, prima di tornare a fare il tecnico alla centrale del gas. Tra i ‘banditi’ cinematografici c’era anche Pietro Ferro, intellettuale tormentato nel film, mio capo cronista al Secolo XIX.
A Genova, lo avrete capito, siamo orgogliosi del nostro 25 aprile. Anzi, del 24, il giorno in cui i nostri padri si sono ribellati salvando da soli la città, le sue industrie e il suo porto. Il 23 l’ordine di insurrezione. Il 24 si combatte lungo tutta la Val Polcevera, la mia vallata, e il ponente operaio dei cantieri navali. Alle 19,30 il generale tedesco Gunther Meinhold, a Villa Migone, firma l’atto di resa. Le armate alleate, bloccate dai combattimenti a La Spezia, arriveranno nella Genova liberata due giorni dopo. Per la storia e per il mio orgoglio, vi propongo poche righe dell’atto di resa tedesco. “In Genova il giorno 25 aprile 1945 alle ore 19.30, tra il sig. Generale Meinhold […] e il Presidente del Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria, sig. Remo Scapini, assistito dall’avv. Errico Martino e dott. Giovanni Savoretti [...]”.
Citazione testuale per richiamare l’attenzione su quel “Sig. Remo Scapini”, che aveva, come “assistenti”, un “avv.” e un “dott.”. Remo Scapini, il comandante partigiano che accetta e firma l’atto di resa di un’intera divisione tedesca, non era un “Signore”, era un operaio ed era un operaio comunista, come mio padre. Che mio padre fosse operaio l’ho capito compiutamente quando, ai miei 9 anni, l’ho visto morire di silicosi, malattia dei polmoni che non si contrae respirando l’aria condizionata degli uffici. Che fosse comunista l’ho scoperto più avanti, quando ho ritrovato una tessera del partito che mia madre, di famiglia pretesca e cattolicamente prudente, aveva accuratamente nascosto. Pericoloso, in quegli anni ’60, dirsi comunisti. Oggi è memoria di battaglie e di speranze. E anche di qualche illusione ed errori.
Che mio papà abbia avuto a che fare con i partigiani l’ho scoperto a 21 anni, alla maggiore età, quando lo zio tutore mi consegnò una piccola “Mauser 6.35”, la pistola degli ufficiali tedeschi che era stata lasciata da mio padre. Non credo che il suo proprietario originario abbia goduto della pensione. C’è una bella e breve poesia del poeta genovese Edoardo Firpo a cui tengo molto. «Sant’Antonin / Sant’Antonin / suvia Staggen / sonna cianin / cianin … cianin / che nu s’addescian i Partigen / lascia che dorman / cumme sun morti / cu sacrifiziu da zuentù … ». Azzardo una traduzione: “Sant’Antonio (Antonino) / Sant’Antonino / sopra Staglieno (il cimitero monumentale di Genova) / suona pianino / pianino … pianino / che non si sveglino i Partigiani / Lascia che dormano / come sono morti / col sacrificio della gioventù”.
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A Roma sono arrivato da adulto. Ed è a Roma, sul percorso del giornalismo d’assalto che ho conosciuto un altro eccezionale resistente. L’ho incontrato e ne sono diventato amico. Un onore. Si chiamava Peter Tompkins. Peter era stato uno dei liberatori di Roma ed era stato un protagonista delle battaglie democratiche successive. Difficile scrivere qualche cosa su Peter che non lo faccia arrabbiare anche da morto. Difficile immaginarlo finalmente quieto. Aveva 88 anni e riusciva a far sentire te un vecchietto. Peter è l’americano più bello dentro che ho conosciuto, anche se lui non amava essere americano, soprattutto dopo la saga dei Bush. Lui era un eroe e non voleva esserlo. Lui era un ricco borghese che non voleva esserlo. Lui è stato una grande spia durante la seconda guerra mondiale e non amava le spie.
Peter Tompkins, che si è spento negli Stati Uniti, è stato un eroe della Resistenza italiana. Onorificenze ed attestati della nostra Repubblica, ma soprattutto, la stima di coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo. Scrivere di un amico (un maestro) confonde le idee, e la sua vita incredibile non aiuta certo. Peter è nato ad Atene di Georgia, ma ha trascorso gran parte della sua infanzia tra Roma e la Toscana. Sua mamma era una famosa cantante lirica e suo padre uno scultore. Scherzava sull’amicizia che aveva legato la vedette del bel canto a Bernard Shaw, di cui aveva l’arguzia. Allo scoppio della guerra mondiale, dall’università di Harvard torna in Italia come giornalista del New York Herald Tribune e poi della NBS. Nel 1941 entra nell’OSS, la struttura di spionaggio americano nel corso della guerra, da cui nasce la Cia.
Quando gli Alleati liberano la Sicilia, lui è sbarcato clandestinamente sul litorale di Roma per coordinare l’attività delle formazioni partigiane in vista dello sbarco d’Anzio per la liberazione della Capitale. Visse da clandestino nella Roma dell’occupazione nazista del generale Kesselring, avendo come interlocutori, tra le fila partigiane, Riccardo Bauer, Giuliano Vassalli, Giorgio Amendola, Franco Malfatti, e tanti altri combattenti che non videro la Liberazione. Grazie all’azione di quella cellula partigiana, ha recentemente scritto Tompkins citando documenti ufficiali americani, fu salvata la testa di ponte di Anzio. Molti del gruppo clandestino, compreso Maurizio Giglio (medaglia d’oro alla Resistenza), suo strettissimo collaboratore, finirono trucidati alle Fosse Ardeatine. Peter nel 1945 riprese a fare il giornalista.
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Alla vigilia di un 25 aprile morì don Bartolomeo Ferrari, don Berto, cappellano partigiano che se n’andò a 96 anni. Lui era davvero un resistente in tutto. Un amico genovese m’ha raccontato che al funerale di quel prete c’erano più di 15 gonfaloni comunali con i rispettivi sindaci, e tutte le ANPI del territorio della divisione Mingo. Don Berto era salito in montagna con i partigiani nel 1944, autorizzato e forse anche incoraggiato dall’allora cardinale Boetto. Così descriveva don Bartolomeo Ferrari il foglio di ricerca della questura repubblichina: “Oltre ad essere il cappellano della Divisione, il sacerdote funziona come avvocato difensore presso il tribunale comunista dei ribelli dell’Olba”. Don Berto fu anche l’anima del giornale della Divisione. “Il ribelle”, titolo bellissimo seguito dalla precisazione: “esce quando può e quando vuole”.
Un amico genovese mi ha regalato un brano significativo dal primo numero del Ribelle. Titolo, “La parola del vostro cappellano”. “Continuate a lottare con fede e con lo spirito di sacrificio, che è proprio della vita del partigiano, ricordate la nostra bella canzone, che tante volte di giorno e di notte è risuonata per valli e piani: Fischia il vento, infuria la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar. Non dimenticate però che noi combattiamo per la verità e la giustizia. Nessuna nostra azione sia in contrasto coi nostri ideali. Mai veniamo meno ai nostri doveri. Dobbiamo essere noi i primi nella vita privata ed in quella di partigiani a saper usare della libertà, ad agire con rettitudine e con giustizia. Con questi sani principi nel cuore e nella vita d’azione, anche se noi cadremo, rimarrà il contributo che avremo dato per l’Italia di domani”.
Sinceramente oggi avrei qualche problema a spiegare il 25 aprile e l’Italia e la sua politica e i valori della Resistenza che sono condivisi nell’anno 2014 a un don Berto che ora sarebbe ultracentenario; o all’altro prete, il mio amico Andrea Gallo della comunità di San Benedetto al Porto, di Genova ovviamente; o a Berellini e a Paolo Delussu partigiani che firmarono un secolo fa la mia domanda di iscrizione ad un allora Grande Partito; o a Pietro Ferro giornalista apparentemente cinico; o a Remo Scapini operaio e comandante partigiano che costrinse alla resa una intera divisione tedesca, e infine a Peter Tompkins, americano suo malgrado. Nessuno di loro c’è più eppure nessuno di loro è morto invano. Se noi non consentiremo che annacquino o rottamino anche la memoria del 25 aprile, festa della Liberazione. Ora e sempre Resistenza.
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