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28/04/2014

Piombino, Taranto. Il degrado politico, economico e morale del capitalismo italiano


Sparisce la siderurgia da Piombino,  si conclude una storia di 150 anni di lavoro operaio; a Taranto è esploso, invece, nello stesso settore produttivo il più grande conflitto tra la produzione e la salute che mai si sia verificato nella tormentatissima (sotto quest’aspetto) storia dell’industria italiana: da Seveso all’ACNA, da Cornigliano alla Farmoplant, tanto per fare esempi del passato; mentre nel presente a Taranto si può affiancare la vicenda della centrale Tirreno Power a Vado Ligure.

E’ stato proprio al riguardo della vicenda della siderurgia, però, che il capitalismo italiano ha dimostrato tutta la  sua grettezza, la sua incapacità d’innovazione, la sua pervicace volontà di sfruttamento intensivo e senza scrupoli non solo dei lavoratori della fabbrica ma anche dei cittadini e dello stesso territorio.

In un settore nevralgico per qualsiasi paese industriale (come del resto lo sono la chimica e l’energia) in un quadro di concorrenza globale, al riguardo della quale la stessa appartenenza all’Unione Europea non ha certo assunto una funzione positiva (pensiamo ad esempio alle delocalizzazioni attuate per ricercare ancor più intensivi meccanismi di sfruttamento), il disastro della siderurgia italiana deve essere attribuito a cause ben precise: la prima e la principale delle quali deve essere considerata quella relativa allo smantellamento delle Partecipazioni Statali e dell’IRI avvenuta a cavallo degli anni’80-’90 del secolo scorso, con conseguenti privatizzazioni selvagge.

Profittatori di lungo corso Riva, Lucchini, si gettarono sull’osso semplicemente per spolparlo (come De Benedetti nell’energia, del resto) e i risultati sono quelli che abbiamo, drammaticamente, sotto gli occhi: migliaia di disoccupati, l’accumulo di un ritardo tecnologico enorme, danni irreversibili all’ambiente.

Tutto questo senza suscitare un moto di coscienza in chi, governando la politica e l’economia, ha causato questi danni enormi.

Poche righe credo siano sufficienti per descrivere  efficacemente questa situazione: si tratta di un’enorme questione morale che investe assieme i governanti e gli speculatori.

A quando una ribellione vera per contrastare un’ulteriore deriva verso l’abisso? A quando un’espressione di riflessione e iniziativa politica adeguata alla qualità di questo stato di cose e non rivolta, esaustivamente, alla ricerca dell’interesse di bottega se non addirittura personale?

All’inizio degli anni’60 si aprì, nella sinistra italiana, un’intensa discussione sulla natura del capitalismo nostrano: un “capitalismo straccione” che era, tutto sommato, da sostenere abbassando il tiro delle rivendicazioni operaie, oppure un capitalismo capace di fortissima innovazione cui contrapporre un’alternativa di sistema anche attraverso proposte dirette di politica industriale?

L’esito di quel dibattito fu comunque quello di una crescita della forza operaia, della capacità di rivendicazione e di contrattazione, di passaggio dal sindacato delle commissioni interne e della scissione degli anni’50, al sindacato dei consigli e dell’idea –forza dell’unità sindacale, lanciata a cavallo della grande stagione del 68-69 con la saldatura delle lotte studentesche con quelle operaie.
Le cose intorno a noi sono profondamente cambiate e chi visse quel tempo appena ricordato, ormai non riconosce più nulla di ciò che si trova intorno.

Il sindacato, messo brutalmente in un canto e considerato soggetto da cancellare da parte dei principali protagonisti della politica, si è posto da tempo in una condizione di atonia e di afasia.
Stiamo vivendo nella bolla di una colossale mistificazione collettiva all’interno della quale si sta costruendo un vero e proprio regime: la sinistra, quella che fu la sinistra, sembra non accorgersene e non riesce proprio a dar voce alla legittima disperazione dei disoccupati, dei diseredati, delle tante e dei tanti che si trovano costretti a vivere subendo la miseria di una quotidianità degradata nei diritti e nelle condizioni di vita.

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