In una situazione in cui la precarietà è ormai la condizione generale di tutto il lavoro, è urgente vedere quali sono le nuove forme in cui essa si dà come regola e non più come eccezione. Il sistema dei voucher o «lavoro occasionale accessorio», un fenomeno in grandissima crescita negli ultimi anni, si caratterizza per un lavoro ormai compiutamente mobile e intermittente. Il voucher è un’espressione tutt’altro che accessoria del regime del salario che si sta imponendo su scala europea e globale. Il voucher è un metodo di pagamento delle ore lavorate attraverso un «assegno» di 10 euro lordi che può essere riscosso all’Inps e acquistato in varie sedi, tra cui tabacchini e poste. In qualsiasi momento il padrone abbia bisogno di lavoro, non importa se solo per una o due ore, lo può acquistare comprando uno, due o più voucher. La pagina informativa INPS dedicata al lavoro accessorio non lascia dubbi sui vantaggi per il datore di lavoro che ne fa uso: «il committente può beneficiare di prestazioni nella completa legalità, con copertura assicurativa INAIL per eventuali incidenti sul lavoro, senza rischiare vertenze sulla natura della prestazione e senza dover stipulare alcun tipo di contratto». Va da sé che i committenti, una volta assaporati i vantaggi che l’utilizzo dei buoni comporta, non ne possano più fare a meno! A che serve sottoscrivere contratti dispendiosi quando si può usufruire di forza lavoro a basso costo e intermittente? Perché rischiare di assumere dipendenti quando la crisi ha insegnato che il domani è un incognita? In sintesi, il «lavoratore-voucher» non deve sottoscrivere nessun contratto di lavoro perché il voucher svolge anche questa funzione, di conseguenza non c’è il problema di licenziarlo, perché di fatto non è mai stato assunto.
Inizialmente, i voucher sono stati introdotti come fenomeno marginale, limitato a certi tipi di attività di natura occasionale, spesso con committenza pubblica, riservata a particolari soggetti (ad esempio, i pensionati e gli studenti) ed erano pensati per favorire l’emersione del lavoro nero. Secondo uno schema ormai classico – si pensi al contratto di apprendistato e ai contratti a termine previsti dal pacchetto Treu – da questa iniziale marginalità, grazie a politiche che progressivamente hanno eliminato limiti e restrizioni, i voucher sono stati estesi a ogni tipo di attività, settore produttivo e soggetto. Rimangono i limiti di 5000 euro annuali, sia per i committenti, sia per i lavoratori, ma nel DDL del 3 aprile scorso presentato al Senato è contenuta la proposta di eliminare questa restrizione. La progressiva liberalizzazione del lavoro occasionale accessorio ha portato a una sua espansione esponenziale, poiché, oltre alla totale flessibilità, i costi per il padrone sono nettamente inferiori anche solo rispetto ai contratti a chiamata. Se, secondo la rilevazione INPS dell’aprile 2012, i voucher emessi sono poco più di 30 milioni, nel 2013 questo numero è salito fino a 92 milioni, di cui la metà venduti nello stesso 2013, anche grazie alla telematizzazione del servizio.
Si dice che i voucher siano vantaggiosi anche per i lavoratori perché consentirebbero di avere un salario esente da imposizione fiscale e con copertura contributiva e assicurativa. Dei 10 euro di cui è composto il voucher, infatti, 7,5 sono netti e 2,5 da dividere tra INAIL e Gestione separata INPS più un 5% che viene trattenuto dal concessionario di turno (Poste, Tabacchi, Banche, la stessa INPS) per il rimborso del servizio. La contribuzione previdenziale versata all’INPS è utile, però, solo per la pensione. In altre parole, viste le previsioni incerte circa le pensioni dei lavoratori precari e viste le difficoltà di accumulare una cifra decente attraverso una contribuzione così bassa, i benefici di questi contributi per i lavoratori sono nei fatti inesistenti. Non è così per le casse dell’INPS, che proprio grazie ai fondi della Gestione Separata copre altri buchi del proprio bilancio. Il «lavoratore-voucher» non ha diritto a ferie, malattie, maternità, tredicesima, quattordicesima e a indennità di disoccupazione e inoltre i costi di servizio ricadono in qualche modo sul lavoratore che si trova a dover pagare un 5% come compenso al concessionario per la gestione del servizio. Non solo, se l’accredito dei voucher viene effettuato tramite la postepay INPS-Card, l’attivazione costa 5 euro.
La corrispondenza tra voucher e ore di lavoro vale esclusivamente come parametro di accredito contributivo minimo e non viene in alcun modo specificato la corrispondenza tra salario e ore effettivamente lavorate. Dal momento in cui la possibilità di utilizzare il lavoro occasionale accessorio è stata estesa a tutti i settori produttivi e a tutti i tipi di mansione si è pensato di non poter stabilire per legge una corrispondenza univoca tra tempo e denaro. Una volta che il committente comunica telematicamente l’attivazione di una prestazione di lavoro accessoria prima dell’erogazione di questa prestazione, il numero di voucher poi dovuto viene deciso solo successivamente e non è in alcun modo tracciabile o sottoponibile a controlli, non essendoci nessun obbligo contrattuale. È evidente che questa incertezza si gioca tutta sul terreno del rapporto di forza tra il singolo lavoratore e il padrone. Al di là del massimale di reddito annuo, non esiste nessun contratto che determini un numero di ore minime mensili, l’accordo tra padrone e «lavoratore-voucher» è verbale e quindi l’abuso dei voucher non è nemmeno impugnabile in una causa di lavoro, perché, di fatto, esso è previsto dalla legge.
La legislazione in materia, infatti, non solo assegna con poca indecisione gli onori e gli oneri, ma lascia tutto lo spazio nella prassi per un utilizzo indiscriminato dei voucher. L’utilizzo dei voucher non riguarda solo alcune prestazioni, ma stabilisce un regime del salario e dell’occupabilità che va bene oltre la specifica retribuzione che esso garantisce. Ciò che succede abitualmente è che una parte della retribuzione avvenga in nero, al di fuori del voucher. In altri casi il lavoratore cosiddetto «extra», che dovrebbe essere chiamato saltuariamente, viene chiamato con regolarità e pagato con voucher alternati a ritenute d’acconto fino al tetto massimo, il tutto combinato a una parte di salario in nero. In questo modo, com’è evidente, si è lavoratori occasionali o accessori solo nominalmente. In pratica, si lavora quasi quotidianamente senza orari e senza garanzie. Inoltre, il pagamento con i voucher si sta sempre più affermando per pagare le ore di straordinario e, anche in questo caso, si combina chiaramente con forme di lavoro non occasionale. Il fatto che per legge esso sia cumulabile con qualsiasi altra forma di reddito facilita le possibilità di combinazione. Un’azienda può sfruttare un bacino di lavoratori occasionali usa e getta per determinate mansioni che in passato venivano per lo più svolte dalle ore straordinarie degli assunti: si lavora meno, ma si lavora tutti, attraverso la rotazione di un numero vastissimo di lavoratori-voucher. In questo modo vengono stabilite gerarchie informali e violente tra chi ha più voglia di lavorare e chi talvolta osa dire no. I «lavoratori voucher» non timbrano alcun cartellino, le ore da loro lavorate non vengono registrate, consegnando i lavoratori al potere decisionale del committente. Il carattere aleatorio degli accordi verbali mette anche a rischio la retribuzione: spesso non si viene pagati subito ma dopo uno o due mesi come se si trattasse di un salario mensile, ma con la variante che l’accordo verbale non dà nessuna garanzia per quanto riguarda il pagamento.
Il lavoro domestico e quello di cura sono i casi in cui più spesso vengono utilizzati i voucher, ma accompagnati da una diffusa condizione di irregolarità a causa dell’indisponibilità del datore di lavoro a regolarizzare le posizioni. Queste tipologie di lavoro trovano nei voucher un concreto supporto dal momento che acquistando un voucher al giorno si può coprire a livello assicurativo e contributivo un’intera giornata di lavoro. Molte lavoratrici domestiche migranti hanno così anche il problema che le retribuzioni dei voucher, pur essendo cumulabili con altri redditi per raggiungere il reddito necessario previsto dalla legge Bossi-Fini per il rinnovo del permesso di soggiorno, non sono di per sé sufficienti a ottenerlo.
I voucher sono dunque un elemento fondamentale nel regime del salario che si sta affermando. Sarebbe assolutamente sbagliato interpretarli come il prezzo che alcune fasce di lavoratori devono pagare, perché servono a ridefinire una modalità complessiva di sfruttamento. Da un certo punto di vista essi sono la forma cartacea del turco meccanico di Amazon e delle altre agenzie di crowdsourcing, raggiungendo lo stesso scopo di sfruttare capillarmente e senza diritti la disponibilità al lavoro. Il «lavoratore-voucher» condivide la medesima condizione politica dell’«operaio folla». Si tratta di una condizione fatta di individualizzazione, espropriazione e sfruttamento capillare e intensivo. Si tratta di un regime del salario che vuole fare del lavoro una coazione completamente dipendente dai tempi, dai metodi, dalle necessità del capitale in tutte le sue espressioni sociali. I voucher hanno perciò molto in comune con i mini-jobs che stanno dilagando in Germania negli ultimi anni. Entrambi erano prima ristretti a tipologie specifiche di lavoro e a soggetti particolari e sono stati poi interamente liberalizzati. Entrambi sono cumulabili con altre forme di sostegno al reddito. Ciò dovrebbe fare riflettere sulla combinazione perversa che si stabilisce inevitabilmente tra l’erogazione di un reddito, persino se incondizionato, e la necessità altrettanto incondizionata di forme di lavoro intermittente. L’effetto, infatti, rischia di essere l’istituzionalizzazione compiuta del lavoro nella sua forma più precaria. Tanto i voucher quanto i mini-jobs confermano un trend complessivo secondo cui il rapporto di lavoro viene ridotto al nudo salario, denaro contro tempo senza alcun diritto che sia possibile contrattare. Il rapporto di lavoro viene completamente individualizzato, impedendo che la forza lavoro si presenti in massa a far valere la sua forza.
Arrivati a questo punto è forse il caso di ragionare su alcune forme di autotutela che lavoratori e lavoratrici possono mettere in atto per non essere ridotti a dei voucher.
- Anzitutto, lavoratori e lavoratrici devono trovare modi per dialogare senza lasciarsi scoraggiare dal fatto che è molto difficile incontrarsi sul luogo di lavoro. Anche se non si ha un contratto non è preclusa l’opzione di avanzare delle richieste in modo collettivo verso il datore di lavoro.
- È bene tenere un’agenda dove riportare tutte le ore effettuate con data e ora di inizio e fine turno e soldi presi.
- Usare produttivamente i selfie è possibile. Fotografatevi mentre siete di turno, perché così potrete dimostrare l’effettiva presenza sul posto di lavoro.
- Non fidatevi del padrone, anche se ha problemi tanto simili ai vostri… Monitorate la vostra situazione previdenziale per controllare se i contributi sono stati effettivamente versati.
Questi suggerimenti saranno utili soprattutto nel caso in cui riusciate a iniziare una vertenza collettiva per la quale è prioritaria la costruzione di un rapporto tra colleghi per contrastare l’individualizzazione imposta sul luogo di lavoro. La prima regola è quella di non farsi ridurre a dei voucher.
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