La notizia è di quelle che noi, vecchi cronisti, chiamiamo “da collezione”. Notizie per appassionati di interessi solitamente minoritari. Per me una delle parole magiche nella memoria è “Balcani” con tutti i suoi derivati geopolitici. Bosnia, ad esempio. Oppure Sarajevo. Oppure Pero Sudar. Prima vediamo cosa c’entra il vescovo ausiliare di Sarajevo nelle mie senescenze di guerra. «A quasi vent’anni dalla fine del conflitto, in Bosnia Erzegovina non è ancora arrivata una pace “giusta”. Il Paese soffre divisione ed emarginazione, mentre la sua popolazione continua ad andare all’estero, soprattutto i giovani». Sempre stato un po’ sanguigno il prelato. Nel frattempo il vescovo cattolico di Bosnia continua: «La guerra è terminata con una pace invivibile, perché imposta per soddisfare interessi che non hanno niente a che vedere con quelli degli abitanti della Bosnia Erzegovina».
Pero Sudar è un uomo che non ama le misure di mezzo. Molto prete, ed è la sua forza, e molto croato, ed è il suo punto debole. Poi vedrete il perché. Gioco volutamente alla suspence del giallo. Intanto continua: «L’accordo di Dayton, firmato alla fine del 1995 dopo oltre tre anni di conflitto, ha dato vita a uno Stato “artificiale”, nel quale alle vecchie ingiustizie e diffidenze se ne sono aggiunte di nuove, con la conseguenza che, vent’anni dopo la guerra, la Bosnia Erzegovina risulta essere una società moribonda, dalla quale chi può fugge». E l’Europa? Pone la domanda il sito www.ancoraonline.it/tag/pero-sudar/ che sto saccheggiando. «Per ora resta solo a guardare» conclude il vescovo intervenuto a Gorizia al convegno nazionale della Fisc, la Federazione italiana settimanali cattolici, dedicato proprio a “Europa e confini”. L’uomo giusto al posto giusto.
Monsignor Sudar ha oggi 53 anni ed era stato nominato vescovo ausiliare di Sarajevo nel 1993, in pieno assedio. Ci siamo conosciuti nel 1995 quando di anni lui ne aveva solo 44 ed io qualcuno in più. Tra i due forse il più saggio non era definito dalla tonaca, ma deciderete voi. Ora vedo che il vescovo condivide come allora certi nostri pessimismi. «Sarajevo avvelenata dalle ingiustizie inflitte e patite», «Il peso che ci schiaccia sono le profonde ferite della guerra, che a causa di una pace ingiusta non trovano modo di guarire». «Gli accordi di pace imposti dagli Usa a Dayton rendono il nostro Paese ingovernabile», «La situazione sociopolitica è oggi ancora peggiore che nell’immediato dopoguerra». Le avessi dette io quelle cose sarei passato per il solito ‘comunista’ antiUsa. Lei Monsignore… Bella l’immagine della Bosnia “cuore malconcio dei Balcani”. Reggerà?
Ho conosciuto Pero Sudar nel settembre 1995 a Sarajevo, tra bombe e cecchini. Abbiamo dovuto lavorare assieme per una delle solite sfide lanciate da papa Wojtyla: la diretta televisiva sul Tg1 con Sarajevo è il momento centrale del meeting degli oltre trecentomila pellegrini giunti a Loreto da ogni angolo d’ Europa per partecipare col pontefice al 7° centenario del santuario della Santa Casa. L’anticipo delle Giornate mondiali della gioventù. Cose da vaticanisti, ma a Sarajevo allora servivano esperienze diverse da quelle del contesto vaticano. Con Pero Sudar ci prendemmo le misure da subito: io lo chiamavo rispettosamente “Monsignore”, evitando l’Eccellenza che gli spettava, e lui evitava con me il catechismo. Dovevamo mettere in piedi una baracca da brividi. Portare in trasmissione ragazzi e ragazze a parlare e cantare per il Papa senza farsi ammazzare.
Facile, direte voi. Bastava andare alla Tv e alla sicurezza pensava il governo, oppure l’Onu. Col cavolo, avrei detto di fronte a Monsignore. Il governo Izetbeghovic aveva ben altro cui pensare (o voler pensare) e l’Onu garantiva soltanto il trasporto andata e ritorno sui blindati dei ragazzotti lungo il Viale dei Cecchini, sino alle cantine antibomba della Tv, da dove avremmo trasmesso e poi pernottato. Perché di notte a Sarajevo si muovevano soltanto i lupi. Va beh, voi direte, qualche disagio in guerra ci sta tutto. Chi lo dice non ha mai avuto a che fare col Vaticano. Neppure io, sino a quel momento. Resta il fatto che io avrei dovuto governare da Sarajevo dieci minuti di diretta con dall’altra parte il Pontefice in Mondovisione ad ascoltarci senza alcun filtro. Da brividi per me, per il Tg1, per non so chi in Vaticano e per Monsignore che doveva rendere conto al Papa e alla Bosnia.
Forse Pero Sudar l’avrà immaginato, ma quel suo breve intervento “rifilato” da Roma non è stato colpa mia: “problemi di tempi, Monsignore” disse Pinocchio. Pero Sudar, come avrete notato da quanto scritto sopra, è molto prete ma anche molto croato! Del resto il bastone del comando era mio: il telefono satellitare che mi collegava con Roma e il microfono in trasmissione. Due, tre testimoni oltre il Monsignore, tra cui un giovane ferito da un cecchino e il coro della cattedrale con ragazzi e ragazze con la loro bella camiciola bianca. Ecco il racconto fatto allora da Repubblica. “Non abbandonateci. Non lasciateci soli”. E’ notte fonda quando l’appello viene lanciato attraverso i sette grandi schermi sulla piana di Montorso, a Loreto, da un gruppo di giovani di Sarajevo ai quali il Papa, con il volto rigato di lacrime, risponde con un accorato “Vorrei essere in mezzo a voi!”».
Adesso la vera cronaca di quando facemmo piangere il Papa. Dieci minuti vaticani sono esatti come le parole di una preghiera. Andiamo in onda verso la mezzanotte dopo Belfast, Parigi, Santiago de Compostela, la Collina delle Croci in Lituania e Dresda. Sarajevo è il martirio in corso ed è il momento clou. Fifa blu da parte mia. Monsignore fa il prete e non il croato, i due testimoni sono concisi ed efficaci, la traduzione scorre, poi il coro: bravi, splendidi, e i 10 minuti di avvicinano. Io in mezzo come in una foto di gruppo per i saluti. Ma la regia da Roma non stacca. Cambio di inquadratura e compare il volto del Papa rigato di lacrime. E noi restiamo in onda. Due ragazze, due gemelle, una piange e l’altra sorride al Papa mentre cantano. La piazza di Loreto piange col Papa e applaude. Il più piccolo del coro mi si appoggia contro e nasconde il pianto nel mio maglione.
I 10 minuti di telecronaca più silenziosi della storia. Non è possibile parlare col groppo alla gola. Tanti saluti Monsignore, a Lei, al cardinale Pulic e alla tanto amata Sarajevo. Con una coincidenza di opinioni che Lei può smentire e sua convenienza pastorale: «La guerra è terminata con una pace invivibile, perché imposta per soddisfare interessi che non hanno niente a che vedere con quelli degli abitanti della Bosnia Erzegovina». «L’accordo di Dayton, firmato alla fine del 1995 dopo oltre tre anni di conflitto, ha dato vita a uno Stato “artificiale”, nel quale alle vecchie ingiustizie e diffidenze se ne sono aggiunte di nuove, con la conseguenza che, vent’anni dopo la guerra, la Bosnia Erzegovina risulta essere una società moribonda, dalla quale chi può fugge». Ultimo quesito: ha ancora qualche contatto con quei ragazzi con cui facemmo piangere il Papa? Me li saluti.
Monsignor Pero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo |
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