La bocciatura del Jobs Act è sonora. Emiliano Brancaccio, docente all’Università del Sannio e promotore del “monito degli economisti”
contro le politiche europee di austerity, è netto: “Negli ultimi
vent’anni abbiamo assistito a un progressivo smantellamento delle tutele
del lavoro. Il provvedimento del governo Renzi è il sequel di un film
già mandato in onda tante volte. Non intravedo svolte di politica
economica”.
Eppure i centristi capeggiati
dal ministro Angelino Alfano promettono battaglia al Senato contro le
modifiche apportate dal Pd, tanto che il governo porrà il voto di
fiducia. Siamo al braccio di ferro all’interno della maggioranza. Per
lei il testo, in Commissione Lavoro alla Camera, è stato veramente
stravolto?
La sinistra del Pd è riuscita ad
apportare alcuni miglioramenti al testo. Nonostante queste modifiche,
però, il segno complessivo del Jobs Act non cambia: assisteremo a una
ulteriore precarizzazione dei contratti di lavoro. Ci sono novità
peggiorative anche rispetto alla riforma Fornero, come l’eliminazione
della causale sui contratti a tempo determinato, la possibilità di
prorogare questi contratti e l’annacquamento dell’obbligo di
stabilizzazione degli apprendisti.
Il ministro Padoan sostiene che
questi provvedimenti faranno aumentare l’occupazione. Nel criticare
questa previsione Lei ha coniato il termine “precarietà espansiva” e
l’ha definita un’altra illusione. Come fa a dire che Padoan si sbaglia?
Padoan è tra coloro che hanno insistito a
lungo con la fantasiosa dottrina della “austerità espansiva”, quella
secondo cui l’austerity avrebbe dovuto risanare i bilanci, ripristinare
la fiducia dei mercati e rilanciare la crescita e l’occupazione. In
realtà l’austerity ha depresso l’economia e non ha risanato i conti. Su
indicazione della Bce e della Commissione, allora, il ministro oggi
propone una nuova ricetta: la “precarietà espansiva”, per l’appunto,
ossia l’idea che una maggiore flessibilità dei contratti aiuterà a
creare nuovi posti di lavoro e a ridurre la disoccupazione. Ma le
evidenze empiriche ci fanno ritenere che si sbaglino di nuovo. In una
rassegna pubblicata qualche anno fa, gli economisti Tito Boeri e Jan van
Ours hanno rilevato che su 13 studi empirici esaminati ben nove di essi
davano risultati indeterminati e tre di essi indicavano che una
maggiore precarietà dei contratti può addirittura determinare più
disoccupazione. Alla luce di queste evidenze persino Olivier Blanchard,
capo economista del Fondo Monetario Internazionale, è arrivato a
riconoscere che non vi è una precisa correlazione tra le due variabili.
Una spiegazione sta nel fatto che i contratti precari da un lato possono
indurre le imprese a creare posti di lavoro in una fase di espansione
economica, ma dall’altro consentono alle aziende di distruggere
facilmente quegli stessi posti di lavoro nelle fasi di crisi. Alla fine
tra creazione e distruzione dei posti di lavoro l’effetto complessivo
risulta essere nullo, con buona pace di Padoan. E di Draghi.
Il M5S si è scagliato contro il Jobs Act parlando di “ritorno alla schiavitù”. Frasi che fanno parte del teatrino politico?
Credo vi sia un’espressione più adatta
al nostro tempo: intensificazione dello sfruttamento capitalistico del
lavoro. E’ un fenomeno che si è verificato in misura particolarmente
accentuata negli ultimi vent’anni, durante i quali abbiamo assistito ad
uno smantellamento progressivo del diritto del lavoro. Questa tendenza
si è manifestata nella maggior parte dei paesi industrializzati, anche
se in Italia vantiamo un record: dal 1998 l’indice generale di
protezione dei lavoratori calcolato dall’OCSE è crollato più che in ogni
altro paese europeo.
Tutto iniziò dal pacchetto Treu voluto dal centrosinistra?
I primissimi provvedimenti risalgono
persino a Ciampi. E’ vero tuttavia che il pacchetto Treu determinò una
caduta molto accentuata dell’indice di protezione dei lavoratori, alla
quale seguì un calo ulteriore con la legge Biagi del governo Berlusconi.
Il Jobs Act di Renzi non è altro che il sequel del medesimo film che i
governi che si sono succeduti in questi anni hanno quasi
ininterrottamente mandato in onda. Con risultati irrilevanti sul terreno
dell’occupazione. Del resto, la creazione di lavoro dipende soprattutto
da altri fattori, tra cui l’orientamento espansivo o restrittivo delle
politiche economiche.
A proposito di politiche
economiche, in Europa il premier appare in difficoltà. Dopo l’incontro
con Angela Merkel ha deciso di puntare a un deficit pubblico in rapporto
al Pil ben al di sotto del vincolo europeo del 3%. In un’intervista
rilasciata all’Espresso Lei si è dichiarato scettico sugli obiettivi di
bilancio del governo. Perché?
Renzi ha scelto di porsi in sostanziale
continuità con le politiche di austerity che fino ad oggi sono state
adottate in Europa. Proprio per questo, tuttavia, egli rischia di non
raggiungere gli obiettivi di contenimento del deficit che si è dato. Nel
2014 la crescita del Pil potrebbe rivelarsi inferiore al già risicato
0,8 percento annunciato dal governo. La conseguenza è che il rapporto
tra deficit e Pil potrebbe rivelarsi maggiore del previsto. Sarebbe
l’ennesima smentita per la dottrina della “austerità espansiva”.
Renzi però rivendica i
famigerati 80 euro al mese per i dipendenti che ne guadagnano meno di
25mila euro lordi. C’è chi la definisce una mossa finalmente “di
sinistra” che sarà anche in grado di contrastare la crisi. Per lei?
Prima di definirla una mossa “di
sinistra” vorrei capire più in dettaglio dove nei prossimi anni la
spending review andrà a tagliare. Se ad esempio colpisse i servizi
pubblici, i lavoratori subordinati potrebbero trarre più svantaggi che
benefici. Riguardo agli effetti sulla crescita, vorrei ricordare che in
Italia negli ultimi 5 anni abbiamo perso un milione di posti di lavoro e
abbiamo registrato un incremento del 90 per cento delle insolvenze
delle imprese. Sono perdite colossali, di proporzioni storiche, che
dovremmo affrontare con una concezione completamente nuova della
politica economica pubblica. Chi sostiene che invertiremo la rotta con
80 euro in più al mese in busta paga non sa quel che dice.
Intervista di Giacomo Russo Spena. La riproduzione è consentita citando la fonte.
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