Coprono e commentano, o almeno provano a farlo, le vicende d’un sempre turbolento Egitto ma anche loro diventano bersaglio della repressione. “Il sangue dei giornalisti non è a buon mercato” dicevano alcuni cartelli esposti sotto la sede del Sindacato professionale ieri al Cairo, per una protesta vociante, numerosa, simbolo anch’essa di quella libertà calpestata dalla democratizzazione introdotta da Al-Sisi e dai sostenitori della seconda “Rivoluzione”. Anche nello scorso fine settimana due cronisti che seguivano le manifestazioni degli studenti delle quattro dita nelle facoltà scientifiche del Cairo sono stati bersagliati con colpi d’arma da fuoco, finendo solo all’ospedale. Rispetto ai colleghi morti e incarcerati nei mesi scorsi gli è andata bene. Il caso più dibattuto riguarda il gruppo di giornalisti di Al Jazeera, non solo perché colpisce direttamente l’emittente qatarina con l’arresto di Baher Mohamed, Mohamed Fahmy, Peter Greste, ma perché può creare un contrasto internazionale col Canada il cui leader dell’opposizione (Mulcair) s’è mosso affinché il proprio governo intervenga a supporto d’un suo concittadino. I corrispondenti della potente tivù sono sotto processo con l’accusa di fiancheggiamento della Fratellanza Musulmana per averne intervistato alcuni leader poco prima che costoro venissero arrestati.
La vicenda ha assunto contorni di battaglia ideologica sull’uso e sul potere dell’informazione. Così il ministro egiziano delle Telecomunicazioni e alcune tivù (statali e private) vicine al nuovo governo hanno divulgato il sospetto che, ben oltre ciò che s’era sostenuto negli anni passati sul ruolo guida di Al Jazeera nell’appoggiare i moti delle Primavere arabe, ora Doha stesse tramando contro la sicurezza egiziana e usasse quegli agenti particolari che sono i giornalisti o presunti tali. Perciò l’accusa rivolta al trio sotto processo è di attentato alla sicurezza nazionale, la legge voluta da Al-Sisi e applicata contro leader, attivisti e sostenitori della Confraternita. E poi diffusa verso ogni contestatore dell’Alleanza per la Democrazia, del movimento di Rabaa contro la repressione, una norma che conduce diritti in galera e sulla forca. Questo indica la condanna di massa ai 529 attivisti della Brotherhood. Un altro giornalista di Al-Jazeera, Abdullah Al-Shami è detenuto addirittura da 247 giorni e pratica da tre mesi lo sciopero della fame, ormai con oggettivi rischi per la salute. In una recente lettera, fatta pervenire tramite gli avvocati alla testata, il cronista sostiene d’essere determinato a condurre il suo gesto alle estreme conseguenze. Al-Shami venne fermato il 14 agosto mentre documentava la strage compiuta dall’esercito davanti alla Moschea di Rabaa, successivamente arrestato e tenuto in isolamento. E’ proprio questo genere di testimonianze e di divulgazione dei fatti che il regime militare e i propri alleati puntano ad azzerare.
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