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17/04/2014

Clash! La disfatta di Kiev accelera l’escalation

E’ una sonfitta davvero cocente per i tracotanti nazionalisti saliti al potere a Kiev grazie ad un golpe neanche troppo soft quella che i media di tutto il mondo sono costretti a raccontare in queste ore. I proclami altisonanti del presidente ad interim Turchinov e del ministro Arsen Avakov avevano venduto, poche ore prima, la versione del rapido e travolgente intervento dell’esercito in alcune località dell’est del paese strappato ai ribelli secessionisti e riconsegnato all’ordine e alla legalità.

Ma la travolgente avanzata tale non era e si è presto trasformata in una nuova disfatta. Carri armati che si impantanano o che vengono bloccati da folle di abitanti inferociti, altri che sul più bello cambiano bandiera e innalzano quella russa, centinaia di militari – molti dei quali giovanissimi cadetti appena usciti dall’Accademia – che passano con gli insorti. Il resto della truppa che non sembra per niente entusiasta di sparare ai propri fratelli o di sparare in generale. Doveva essere una dimostrazione di forza e si è rivelata una ennesima dimostrazione di debolezza quella di un regime che – ormai è evidente – non è in grado di mantenere le promesse fatte all’Ue e agli Stati Uniti in cambio del sostegno al regime change andato in scena a Kiev nei mesi scorsi. Che il nuovo esecutivo fosse poco credibile e incapace di gestire la situazione lo si era visto già con l’ammutinamento della Crimea, passata senza colpo sparare dall’Ucraina alla Russia nel giro di pochi giorni: migliaia di soldati avevano dismesso le insegne di Kiev ed avevano giurato fedeltà alla Repubblica ‘indipendente’ in attesa dell'annessione a Mosca. La “Crimea fa storia a sé”, in fondo non ha mai cessato di essere parte integrante della Russia pur se intrappolata in Ucraina per uno scherzo del destino – e qualche bicchiere di troppo bevuto da Nikita Kruscev.
Ma nei giorni scorsi, quando le popolose città dell’oriente e del meridione ucraino erano insorte e avevano proclamato l’indipendenza della rispettive ‘repubbliche popolari’ impossessandosi dei palazzi del potere e delle caserme della polizia, molti dei reparti speciali della polizia e del ministero degli interni inviati a sedare l’insurrezione erano passati dalla parte dei rivoltosi, unendosi a coloro che armi alla mano non hanno nessuna intenzione di essere coinvolti in una guerra civile senza senso e dagli esiti tragici. Ed ora anche parte della truppa, inviata come ultima risorsa dal governo ultranazionalista per cercare di riprendersi metà del paese, rivela quantomeno di non ritenere credibili e autorevoli i nuovi governanti. Ci sarà pure lo zampino di Mosca in ciò che sta accadendo a Kharkov, a Lugansk, a Donetsk e nel resto dell’oriente ucraino. L’ascesa di un potere nazionalista, sciovinista e xenofobo a Kiev si è manifestato immediatamente come un pericolo per i diritti culturali e politici di milioni di ucraini russi e russofoni. Il nuovo regime di Kiev, prima ancora di riuscire a mettere veramente le mani sulla macchina statale – per altro pignorata in tempi record dal Fondo Monetario e dall’Unione Europea – ha chiarito agli ucraini non nazionalisti che sono un corpo estraneo, un nemico interno; l’abolizione del bilinguismo e la creazione di un corpo di sicurezza infarcito di miliziani nazisti – la ‘Guardia Nazionale’ – hanno trasformato in un incubo immediatamente percepibile un cambiamento di classe politica che, se gestito in maniera più appropriata, avrebbe generato sicuramente meno reazioni nelle città che oggi si preparano a difendere, armi alla mano, i referendum dell’11 maggio sull’autodeterminazione. Se è vero che il nazionalismo pan russo di Putin vede i consensi aumentare sia in patria che all’estero, si assiste sia in Russia che nelle regioni insubordinate dell’Ucraina ad un inaspettato rinascere di manifestazioni “pro sovietiche” o comunque improntate ad un nazionalismo ‘progressista’ e antifascista. Anche se non è detto che allo sventolio di bandiere rosse e di cimeli sovietici non corrisponderà più in là un rafforzamento delle correnti scioviniste e militariste, alimentate da un’aggressività occidentale che non può che generare una reazione eguale e contraria.

La “macchina da guerra” di Kiev si è rivelata un’armata Brancaleone, e ai rissosi oligarchi che governano appena metà del paese non rimangono che le milizie di Settore Destro o, peggio, i mercenari stranieri della (fu) Blackwater. Un incontrovertibile manifestazione della sudditanza delle ‘istituzioni rivoluzionarie’ a potenze e poteri stranieri. Un disvelamento della reale natura del nuovo regime non solo ai ‘russi’, ma anche ad una popolazione che finora ha sostenuto o almeno tollerato, nelle regioni occidentali, l’avventura golpista ma che di fronte alla disfatta sul piano militare, e presto anche su quello economico, non necessariamente continuerà a spalleggiare gli oligarchi filoccidentali. Anche le stesse elezioni presidenziali indette per il 25 maggio, che nelle intenzioni dei nuovi padroni avrebbero dovuto legittimare il 'regime change' agli occhi della propria opinione pubblica e del mondo, sono un 'no sense' in un paese spaccato anche militarmente in due mentre alcuni dei candidati vengono picchiati per la strada dalle squadracce neonaziste.

Il fallimento del piano occidentale – utilizzare le marionette ucraine per il gioco sporco e limitare il proprio intervento alle sanzioni contro Mosca e all’accerchiamento militare della Nato – però sembra a questo punto foriero di una nuova pericolosa escalation. È pensabile che gli apprendisti stregoni dell’Alleanza Atlantica, di Washington e di Bruxelles prendano atto dell’inservibilità della propria creatura – l’Ucraina conquistata ai valori occidentali – e decidano di venire a patti con Mosca? Tutto è possibile. Sicuramente sarebbe nell’interesse di una Unione Europea che si è spinta troppo in là nello scontro con la Russia e che, a scapito dei propri obiettivi strategici, subisce ora gli invadenti condizionamenti da parte degli Stati Uniti sulla questione dell’indipendenza energetica e sul piano militare.
Ma allo stato attuale sembra di capire che le onde generate dal sasso lanciato nello stagno continueranno a correre, e veloci. La Nato – e gli Stati Uniti, anche autonomamente – ha di fatto ordinato una ‘mobilitazione’ delle sue truppe, per mare, per terra e per cielo, senza precedenti, inviando navi da guerra nel Mediterraneo Orientale e nel Baltico, aumentando lo schieramento militare ai confini con la Russia e potenziando squadriglie di caccia che si spingono sempre più lontano. Di fronte a questa crescente militarizzazione dell’Europea Orientale e Settentrionali le ingiunzioni a Mosca da parte della Casa Bianca e di Angela Merkel affinché allontani le proprie truppe dai confini appaiono da questo punto di vista davvero ridicole.

Qualcuno ha parlato, per descrivere lo scenario scaturito dall’intervento occidentale a Kiev, di una nuova ‘Guerra Fredda’. Ci sembra un paragone poco calzante. Il mondo non è diviso in due blocchi più o meno equivalenti dal punto di vista militare e tenuti in equilibrio dalla reciproca dissuasione nucleare. I blocchi in contrapposizione oggi sono molteplici, e tutti equamente affamati di mercati, di corridoi energetici, di risorse naturali, di ‘spazio vitale’. E l’equilibrio tra i vari soggetti della competizione globale appare assai precario e instabile, per niente incline quindi ad una stabilizzazione durevole. In questo quadro ognuno degli attori sarà in qualche modo obbligato a mostrare i muscoli se non vorrà perdere una partita i cui esiti disegneranno gli equilibri internazionali dei prossimi anni e, forse dei prossimi decenni. E la possibilità che l’incidente non voluto, il casus belli non cercato trascini tutti in una guerra inaspettata e devastante è sempre lì, ineliminabile.

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