La conciliazione tra tempi di vita e di lavoro per le donne è stato uno dei discorsi che hanno più esaltato il lato positivo della flessibilità come strumento indispensabile per garantire una realizzazione personale che non implichi semplicemente l’imitazione del modello maschile. Nei fatti, però, questo ha significato sempre per le donne essere messe al lavoro in una posizione subordinata. Che siano grate se qualcuno si preoccupa della «conciliazione» del doppio carico di lavoro che il patriarcato, in queste forme aggiornate e politicamente corrette, continua ad attribuire loro! In un contesto di precarietà generalizzata, in cui è sempre più difficile progettare autonomamente un futuro, le misure che pretendono di favorire la conciliazione rivelano la loro vera natura, cioè la precarizzazione del lavoro, dentro e fuori dal welfare, per le donne come per gli uomini.
Job sharing
Il lavoro ripartito, detto anche «job sharing», è uno degli strumenti che viene proposto per conciliare tempo di vita e tempo di lavoro, un
perfetto esempio di precarietà in cui la giornata lavorativa invece di
una guerra civile secolare diventa un’estenuante contrattazione
quotidiana. In termini psicanalitici si potrebbe classificare
come disturbo della personalità multipla con particolare riferimento a
«Gollum», noto a molti quale emblema della personalità schizzoide.
Introdotto in America negli anni ’60 e in Italia nel ’98 con il
«Pacchetto Treu» e utilizzato in quasi tutto il mondo anche se con
discipline diverse all’interno di ogni paese, il «lavoro ripartito»
rende possibile una situazione in cui due lavoratori sono conteggiati
come un’unica unità lavorativa nella forza lavoro dell’azienda alla
ricerca del proprio «tessoro» quotidiano: un salario.
Visto che pare offrire la possibilità di
gestire un orario flessibile concordato con il proprio collega,
quest’ambigua forma contrattuale si presenta apparentemente come
favorevole anche per quelle lavoratrici che si trovano costrette a
conciliare tempi di vita e tempi di lavoro. Non stiamo parlando però del
classico cambio turno. Qui più lavoratori, solitamente due, partecipano
di un unico contratto di lavoro: si dividono, cioè, un contratto
full-time svolgendolo ciascuno un part-time. Peccato che gli «sgravi
temporali» a favore dei lavoratori in questa forma sperimentale di
conciliazione si traducano soprattutto in sgravi fiscali a favore dei
padroni. Il vantaggio economico è, infatti, tutto dalla parte
del datore di lavoro, come accade per tutti i contratti di lavoro in
generale e in particolare per i contratti atipici. I padroni trovano, infatti, nel job sharing
una soluzione vantaggiosa sia dal punto di vista del risparmio sui
costi contrattuali, visto che così hanno a disposizione due lavoratori
al prezzo di uno, sia dal punto di vista dell’intensità del lavoro e
della produttività, incrementata dalla garanzia della copertura totale
della giornata lavorativa e dalla riduzione dell’assenteismo per
malattia: il dipendente malato deve essere sempre sostituito dal
collega.
Ma cosa succede se uno dei due
si dimette o viene licenziato? Il contratto si risolve anche per l’altro
dipendente, se questi non si rende disponibile a trasformare il proprio
in un rapporto a tempo pieno. La lavoratrice o il lavoratore
ha comunque la facoltà di indicare, previo consenso del datore, un’altra
persona con la quale condividere il contratto assumendosi così anche
l’improbabile ruolo di addetto al personale. E che cosa ne sarà del
contratto se poi il datore di lavoro non gradisce il sostituto? I
vantaggi per lavoratori e lavoratrici si riducono insomma in una
flessibilità solo parziale nella gestione dei tempi di lavoro che, in
ogni caso, sono prestabiliti dal contratto il quale deve riportare la
percentuale ripartita della prestazione da svolgere e la collocazione
temporale dell’attività. Anche se è data ai lavoratori la possibilità di
modificare in qualsiasi momento quella percentuale, gli stessi devono
informare con cadenza settimanale il datore di lavoro sulla
distribuzione dell’orario. Lavoratori e lavoratrici ripartiti si trovano
così ad aver a che fare con un doppio vincolo: il padrone da un lato e
il collega dall’altro in un gioco di quotidiani accordi tra le parti. L’apparente
armonizzazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro per lavoratori e
in particolare lavoratrici è in realtà una nuova forma di governo della
forza lavoro in cui il datore di lavoro, completamente
deresponsabilizzato, può stare a braccia conserte mentre i lavoratori
non solo lavorano per lui ma fanno il suo lavoro, sono gli addetti al
personale di se stessi e hanno persino le responsabilità del padrone ma
solo nei termini, sia chiaro, della gestione del proprio sfruttamento.
Voucher per baby-sitting
Un’altra modalità di gestione della
conciliazione dei tempi di vita e di lavoro viene direttamente dall’Inps e
riguarda il congedo parentale post-maternità. Si tratta della
sperimentazione relativa ai voucher per servizio di baby-sitting. L’Inps
offre, per ogni mese in cui una donna rinunci al congedo parentale, 300
euro in voucher per pagare le spese di baby-sitting. In questo modo la
lavoratrice può presto tornare al lavoro e il padrone è sgravato di quel
30% della quota di congedo parentale che dovrebbe pagare. Questo a spese di chi lavorerà come baby-sitter in maniera del tutto precaria e con un misero salario. Il sistema dei voucher
o «lavoro occasionale accessorio», un fenomeno in grandissima crescita
negli ultimi anni, implica infatti un lavoro ormai compiutamente mobile e
intermittente. Si tratta di un puro scambio denaro-lavoro senza nessun
diritto da contrattare e in cui la misura del salario è lasciata
interamente alla decisione di chi offre i voucher a fronte della
«necessità» di chi li riceve. La precarizzazione del lavoro si
conferma, così, la strada che il pubblico batte per tappare, in maniera
intermittente e parziale, i buchi del welfare. In tutto questo, salvo è il risparmio da parte dei padroni, che rimane la costante tanto nel job sharing quanto nei voucher.
Entrambe le forme di lavoro mostrano che
sempre più il lavoro, in modo particolare quello in cui finiscono per
essere subordinate le donne, assume forme frammentate. L’attuale regime
del salario impone una ricerca di molti piccoli lavori per comporre il
salario necessario a vivere. Il regime dell’occupabilità, a cui il governo Renzi ha spalancato le porte, sembra modularsi
su una grottesca rilettura del principio del «lavorare meno, lavorare
tutti», con l’aggiunta però che dove si lavora meno lo si fa al prezzo di un più feroce sfruttamento e di un salario tutto da collezionare. Un vero e proprio «tessoro».
Se è vero che queste presunte forme
volte a favorire la conciliazione tra vita e lavoro si inseriscono nella
nuova configurazione del regime del salario, esse dimostrano
contemporaneamente che in questo processo di ristrutturazione del
welfare e scomposizione del lavoro sono sempre e comunque donne quelle
che, per definizione, sono destinate a svolgere le funzioni
riproduttive. Come dimostrano le donne migranti che lavorano
come «badanti» nelle case: donne che lavorano per rendere possibile
l’autonomia di altre donne. Così nella pagina Inps la sperimentazione
voucher è tutta declinata al femminile: sono le madri le beneficiarie
così come è scontato che le «prestatrici» dei servizi di baby-sitting
siano a loro volta donne. Si dirà che questo significa favorire la
conciliazione, mentre dà per assodato che le donne siano in una
posizione di svantaggio che deve essere colmata, ovvero che il lavoro
riproduttivo sia una loro competenza pressoché esclusiva.
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