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21/06/2014

Un tempo furono le mutande agli indios. Ora è democrazia export

Iraq, Afghanistan, Nord Africa e Medio Oriente e prima ancora nei Balcani. Sono circa una ventina d’anni che l’Occidente, Stati Uniti in testa, tenta di applicare nel mondo un modello di democrazia che molto raramente attecchisce come sperato in casa altrui. Fu la teoria Clinton della «Interferenza umanitaria» ad aprire la strada. Poi fu l’11 settembre, la sfida portata in casa americana, a definire un nuovo modello di relazioni internazionali. Dopo la guerra ai despoti è «Guerra al terrorismo», ma con declinazioni diverse. Nuovi modi “esportare la democrazia” anche con l’uso più smaccato dello strumento militare. Un neocolonialismo ‘politicamente corretto’ che ci ha portato in Asia, in Medio Oriente e in Africa non solo per abbattere governi complici del terrorismo, ma anche per destabilizzare in modo spregiudicato regimi non graditi o comunque considerati non democratici secondo i nostri canoni. Ora il mondo sta iniziando a raccogliere i frutti avvelenati di quella semina.

Democrazia imposta e a regole alterne. In Afghanistan i talebani avevano il sostegno di gran parte della popolazione. In Iraq le regole del dopo Saddam Hussein non hanno garantito un equilibrio dei poteri tra la maggioranza sciita e la minoranza sunnita. La democrazia di chi vince? Tre anni fa l’inizio delle primavere arabe. Applausi corali sul “sorgere della democrazia”. Che la ‘democrazia’ contro alcuni indiscutibili despoti fosse portata aventi con le armi da personaggi e formazioni di ben dubbia radice democratica, poco è contato, allora. In tre anni gli esperimenti democratici nei Paesi delle primavere sono in gran parte falliti. ‘Primavera’ è tornata ed essere soltanto una stagione e non un titolo giornalistico decisamente forzato. L’occidente a guida Usa s’accontenta di aver rinnovato il despota al governo: volti più decenti, cultura più internazionale, una maggiore disponibilità a definire le reciproche convenienze. Al Sisi meglio di Mubarak ma la jihad non è meglio di Assad.

In quasi tutti i Paesi arabi delle ‘Primavere’ a non funzionare è stato il concetto steso di maggioranza del chi vince governa. Colpa di una realtà secolare di maggioranze tribali che impongono regole e pratiche religiose intolleranti. Il problema della cultura popolare quando resta ultraconservatrice e illiberale. Prendiamo l’esempio della Libia da cui giungono segnali che portano a un nuovo regime militare o comunque autoritario. Errori di analisi e di pratica su troppi fronti. Analisi invece alta e condivisibile quella su Look Out dove si definisce quanto accade come conseguenza del fallimento del neocolonialismo degli anni Duemila. ‘Liberando’ l’Iraq gli Usa hanno innescato una guerra tra le due anime contrapposte dell’Islam, quella sciita e quella sunnita. In Libia l’occidente ha eliminato un dittatore brutale lasciando via libera a conflitti tribali. Con la minaccia dell’intervento in Siria abbiamo messo in crisi una dinastia dispotica, ma favorito spinte jihadiste decisamente pericolose.

Paragone efficace e copiato da altri: «Esportare la democrazia non è come obbligare gli indios a indossare le mutande».

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