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14/10/2016

La violenza negata e la rimozione sociale

Lei scrive:
Cara Eretica,

amo moltissimo mio marito. non immagino la mia vita senza di lui. è il mio migliore amico, il mio partner, il mio amante, la mia famiglia. lo amo tanto eppure l’ho picchiato. ho esercitato violenza su di lui per evidenti sciocchezze. adirata per la maniera in cui poneva un quadro su un chiodo, per il soffritto troppo fritto, per la sua maniera di abbracciarmi e volermi bene. l’ho reso insicuro, l’ho rimproverato di cose che neppure pensavo sbagliate. l’ho preso a pugni, ho sbattuto forte la mia mano sulla sua faccia, la sua schiena, e lui non ha fatto niente. o meglio, reagiva, un po’, urlava, e io urlavo, si allontanava, scagliava pugni al cielo, restava in disparte, crucciato, a volte mi chiedeva perfino scusa, e io mi odio per questo. come ho fatto, io, che credo di odiare la violenza sulle donne più che qualunque altra forma di violenza a infliggere altra violenza, la medesima, su di lui?

ho intimato il silenzio, l’omertà, gli ho riso in faccia quando ha detto che mi avrebbe denunciato, e tutte le volte che il nostro litigio attraversava le mura di casa per i condomini ero io la vittima. i rumori di schiaffi erano i suoi sulla mia faccia. credo di essermi sentita una vittima ogni volta che tiravo un pugno. mi sentivo vittima e mi comportavo da vittima. pensavo fosse legittima difesa ma era solo, inequivocabilmente, violenza. non ho lasciato evidenti tracce su di lui, tranne un graffio sul collo una volta, e si poteva scambiare per un succhiotto. lui è alto e dunque non mi era semplice raggiungerlo con tutta la forza di cui disponevo. so che sembra incredibile quello che dico ma è tutto vero e la mia frustrazione è tanta soprattutto perché quando ho provato a raccontarlo mi hanno guardata come fossi vittima, ancora, di una qualche manipolazione mentale. lui che mi lasciava pensare che io fossi colpevole. invece era tutto il contrario.

ho avuto i miei problemi, li ho scaricati su di lui, e non ne avevo il diritto, così un bel giorno ho deciso di fare qualcosa per capire perché mai il mio comportamento fosse tanto irrazionale. mi vergognavo di dirlo chiaramente, perché la vergogna per i maltrattamenti inflitti è tanta e temevo si sapesse in giro, che lo sapessero estranei, anch’io perciò speravo di passare inosservata o che mi perdonasse, dopo ogni urlo, ogni violenza psicologica, ogni schiaffo. mi sono detta che non potevo scaricare tutto su di lui e ho cominciato a sezionare la mia identità per capire di cosa fossi fatta, di quali paure, di quali spinte, di quali orrendi sentimenti. mettersi in discussione è solo un primo passo e tutto il resto deve arrivare da te. io lo sapevo, perché non sono mai stata del tutto idiota. la consapevolezza era presente seppure stazionasse in luoghi d’ombra della mia mente.

non pensavo di risolvere tutto rivendicando l’incapacità di intendere e volere ma non ero felice e non sapevo neppure il perché. avevo tanto e non mi godevo quasi nulla. la violenza non è una patologia e neppure una conseguenza. la violenza è violenza ma il carattere di ciascuno è influenzato dalla chimica, io credo. di certo il mio lo era. ho fatto esami di ogni tipo, per sapere cosa potessi migliorare, cosa potesse alimentare il mio malessere, l’irascibilità, la mia incapacità di fermarmi a pensare prima di agire sentendomi una vittima invece che avendo coscienza di essere una carnefice. chi fa violenza pensa sempre di avere ragione, di essere in qualche modo vittima della persona che subisce violenza. lo schema della vittima che nega di essere carnefice lo troviamo in tutto. è un imperativo sociale che ti spinge a non dirti mai “colpevole” perché la “colpa” può essere perdonata solo da chi vende indulgenze di seconda mano. la società però non indulge, non perdona, anzi tenta di demonizzare il mostro, quando l’ha individuato, perché è più semplice pensare che la violenza sia una forma di deviazione mentale invece che qualcosa che risiede tra noi, nella testa di ciascuno di noi.

i miei sintomi erano semplici. insonnia. metabolismo completamente stravolto. altalena d’umore. fasi depressive alternate a quelle di eccitazione. momenti di grande romanticismo, lucidità e altruismo alternati a momenti di negazione della realtà, di rimozione di qualunque cosa mi facesse male. chiunque mi trovassi accanto avrebbe subito quel che ha subito mio marito. chiunque avesse avuto chiaro di subire quella violenza mi avrebbe mandato a fare in culo. ma io non ero solo molto violenta. ero tanto manipolatrice e sapevo come farlo sentire in colpa mostrando la mia fragilità e poi la mia violenza come conseguenza ad essa. quella che sto offrendo qui non è una confessione per ottenere un perdono e neppure un modo per sentirmi dire che sono tanto brava ad aver ammesso i miei errori. non c’è alcuna bravura nel dirsi violente dopo aver commesso violenza. lo schema individuale prescinde da quello sociale che divide tutto in colpa, espiazione, perdono. non c’è nulla che io potrò mai fare per risarcire mio marito, eppure lui mi ama e mi ha perdonato e io so di non meritarlo e di dovergli moltissimo per quello che ha fatto per me.

ho scoperto di avere la chimica senza equilibrio, carenze vitaminiche, ormoni da integrare. i medici mi offrirono varie soluzioni. per alcuni la motivazione era il fatto di non aver avuto figli. un’altra disse che forse non avrei dovuto abortire, perché un figlio “ti cambia la vita”. io pensavo invece a come avrei potuto rovinare la vita di quel figlio, perché non ho mai visto una persona violenta smettere pur essendo davanti ai figli. uno disse che erano sintomi di menopausa precoce, ma io avevo 37 anni e la menopausa era troppo in là da venire. uno disse che la mia tiroide pareva offrirmi giusti valori ma secondo lui c’era qualcosa che non andava. si sa che i medici affrontano tutto in termini clinici e vorrebbero mettere o togliere cose dai corpi dei pazienti. un altro disse che ero senza dubbio depressa e che forse ero perfino bipolare. dissi che ero molto ansiosa ma non mi sembrava di essere così fuori di me da vedere il mio destino legato a Dio e poi all’inferno. smentirono il bipolarismo e la depressione si rivelò essere solo un insieme di sintomi legati ai miei orari scombinati. mi prescrissero un ansiolitico, non roba chimica ma qualcosa di diverso. cominciai a prendere integratori alimentari e a mangiare più correttamente. mi sforzavo di andare a dormire la sera e restare sveglia il giorno, nonostante il mio lavoro iniziasse solo alle due del pomeriggio per finire, in part time, alle 19.00. cominciai a fare attività fisica.

l’ansiolitico mi permetteva di farmi scivolare addosso le preoccupazioni, la frustrazione per la mia laurea mancata, la mia vita non vissuta, il mio disagio personale, la mia incapacità di costruire relazioni e di tenere in buono stato l’unica duratura con mio marito. cominciai anche a frequentare una psicologa che mi aiutò, un po’, a capire alcune cose, a dare voce ad alcuni miei pensieri, e non mi ha fatto cambiare idea sulle cose, né mi ha “guarita”, non era quello d’altronde il suo compito, ma mi ha aiutata a essere più consapevole, a non aver paura di dire a me stessa quello che sto scrivendo. riesco a vivere oggi, tra alti e bassi, con quella parte di me che è sempre presente e che solo perché oggi la conosco meglio posso smettere di trattare con presunzione, come fosse qualcosa di motivato e razionale. sono umana, imperfetta, a volte sbagliata, e sono viva. non ho più messo le mani addosso a mio marito. non gli urlo contro e quando arriva l’onda emotiva irrazionale lo avverto e dico che sto per vomitare stronzate. in quel caso ho bisogno di distanza ed esco o lui va fuori, per un po’, perché la dinamica violenta si nutre di ogni cosa, quindi anche della sua esigenza di riscatto. prima aveva bisogno che io gli dicessi che non aveva torto e che poteva stare tranquillo con se stesso. così tendeva a non andare via e se non si allontanava alimentava la tensione e tutto finiva male.

ho imparato a non sentirmi vittima e a non immaginarmi colpevole in via definitiva, come fosse una ragione per suicidarmi o, che so, per spingermi più in basso, in preda ad altre dipendenze. neanche lui si sente vittima e neppure colpevole. dice che rimprovera a se stesso di non aver capito, di non aver intuito il mio malessere. sarebbe potuto migliorare prima, tutto poteva andare meglio se solo lui avesse capito. gli dico che non è vero. non si può cercare responsabilità proprie mentre tua moglie ti dà pugni e schiaffi. lui mi guarda, mi accarezza, e dice che invece è proprio così. la responsabilità è anche sua. invece anche lui era poco lucido, gli piaceva essere vittima, eccetera eccetera, con mille parole fatte di autoanalisi che può anche servire a fargli fare pace con se stesso ma io penso alle tante donne che sono rimaste uccise mentre pensavano di salvare e guarire i propri partner violenti.

io non so ancora da cosa dipende la violenza, non posso giustificarla con i miei trascorsi, la mia infanzia, le mie relazioni passate. non voglio che nulla serva a giustificare niente ma voglio solo diventare più forte per fermarmi quando minaccio la salute psicofisica di mio marito, perché non sono così sicura di aver smesso, che lui sia al riparo dai miei sbalzi d’umore. non voglio neppure che la mia riflessione passi per una forma di demonizzazione delle donne “malate”, chimicamente, fisiologicamente, perché da secoli tanti misogini non fanno altro che dirci affette da milioni di patologie, senza rimettersi mai in discussione e senza voler osservare la violenza quando sono loro a praticarla.

da quando ho scoperto questa parte di me, da quando l’ho resa evidente e me la sono fatta, nonostante tutto, amica, come l’amica stronza che tieni accanto per evitare che combini guai, volendole anche un po’ bene, non sono più riuscita a guardare la questione della violenza sulle donne allo stesso modo. non partecipo alle manifestazioni. non frequento assemblee femministe. non voglio tradire la mia lucidità o che qualcuna mi riporti allo stato di assuefazione che mi lasciava pensare che anch’io fossi sempre una vittima, sociale, familiare, personale, in quanto donna. conosco il sessismo ma mio marito non è sessista. conosco la discriminazione e la molestia, la violenza sulle donne, ma mio marito non è molesto o violento. non mi piace la sensazione di autoassoluzione cui mi spingerebbe un’assemblea di donne che si fanno coraggio a vicenda, alcune galvanizzate da slogan che in qualche caso generalizzano, hanno poco senso e poca attinenza con la realtà. non mi piace ma non credo che sia tutto sbagliato. dico solo che io ho bisogno di guardarmi dentro, di restare vigile e non trascurarmi, e quella maniera di stare in gruppo urlando contro il maschio violento, non mi aiuta. mi fornisce solo una giustificazione che oggi non sono in grado di elaborare per farla diventare parte di un tutto culturale che mi permette di evolvere me stessa e il mio piccolo microcosmo relazionale.

si dice che il femminismo sia personale e politico. il mio “personale” come fa a diventare “politico” se non si trova una via di mezzo tra la necessità di imporre una analisi razionale contro il sessismo e la violenza di genere e l’altra necessità di non negare a noi stesse la possibilità di crescere, senza aver paura di guardarci dentro? come faccio a incontrare politicamente me stessa se quello che mi riguarda personalmente non trova riconoscimento in nessun gruppo “femminista”? è chiaro che quello che sono non dipende da questo. quello che sono prescinde da tutto, ma non trovo ascolto, se non, forse, su queste pagine. così almeno spero.

grazie

M.

Ps: scelgo di far pubblicare questa foto perché l’armonia del corpo femminile suggerisce che le donne siano piacevoli, belle, dunque vittime. Per essere violenta io non ho avuto bisogno di rivestire la corporeità di un camionista. Sono una donna, e forse somiglio un po’ a lei.
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