In Iraq gli islamisti sono sulle barricate, ad un passo dal crollo
della città-Stato Mosul; ad Aleppo avanzano verso la zona governativa,
nei quartieri ovest. In territorio iracheno la battaglia è comune –
seppur con obiettivi diversi – contro l’Isis, in Siria ad attaccare indisturbato è l’ex al-Nusra, oggi Fatah al-Sham.
Ideologie molto simili, ma nella capitale del nord siriana gli ex
qaedisti non sono nel mirino del fronte anti-jihadista. Al contrario,
sono strumento di indebolimento dell’asse Mosca-Damasco.
Venerdì
Fatah al-Sham ha lanciato un’ampia controffensiva contro i quartieri
occidentali con autobomba, camion carichi di esplosivo, kamikaze e una
pioggia di missili. Almeno 15 le vittime civili e 100 i feriti
in quella che per le opposizioni è un’operazione diretta a rompere
l’assedio di Damasco. Non ci sono solo gli islamisti: sotto la guida
dell’ex al-Nusra ci sono unità dell’Esercito Libero Siriano, i salafiti
di Ahrar al-Sham e le altre fazioni presenti ad Aleppo, una realtà
composita che mette in crisi l’asse anti-Assad, con le opposizioni
amiche al fianco di un gruppo etichettato come terrorista.
Due giorni fa le opposizioni hanno occupato parte del quartiere Dahiyat al-Assad e attaccato Bustan az-Zakhra, in città vecchia:
secondo fonti delle opposizioni potrebbero portarsi sulla Castello
Road. Si combatte in strada, tra le case, stessa guerriglia urbana e
aerea che da mesi vivono anche i siriani dei quartieri orientali.
L’esercito russo ha chiesto di riprendere gli attacchi aerei, interrotti
10 giorni fa dalla tregua unilaterale dichiarata da Mosca e Damasco.
Terminato il cessate il fuoco di 11 ore al giorno, i caccia russi non si
sono più alzati in volo. Ma il presidente Putin ha negato il via libera
definendo la ripresa dei raid «inappropriata» e preferendo «continuare
la pausa umanitaria».
Al contrario in Iraq è il fronte sciita a contrattaccare e lo fa con una mossa che avrà riflessi anche nella vicina Siria.
L’attacco arriva da ovest: dopo averlo annunciato venerdì, ieri le
Unità di Mobilitazione Popolare – le milizie sciite legate all’Iran –
hanno aperto un nuovo fronte su Mosul. Stavolta a occidente. Con i
peshmerga che premono da nord e l’esercito regolare iracheno da sud e
est, i miliziani sciiti chiudono il cerchio sulla città, in cui però
dicono di non voler entrare per evitare divisioni settarie già esplose
in altre zone.
L’assalto
non ha importanza strategica solo sul piano militare, nella
controffensiva contro lo Stato Islamico. Ce l’ha anche su quello
politico regionale. In primo luogo i gruppi armati sciiti si ritagliano uno spazio nella battaglia per Mosul,
che da tempo la Turchia e gli Stati Uniti cercano di arginare per
salvaguardare la maggioranza sunnita della provincia di Ninawa (non per
tutelare la partecipazione politica della comunità locale, quanto per
poter esercitare l’influenza necessaria ad una divisione amministrativa
dell’Iraq, che da anni Washington propone).
In secondo luogo, le milizie sciite si portano in un luogo geograficamente strategico.
Attaccando l’Isis dal lato occidentale, si posizionano lungo il confine
siriano ponendosi come primo obiettivo la città di Tal Afar. E questo
avrebbe due effetti: da una parte impedirebbe l’ulteriore fuga di
islamisti verso il territorio siriano e verso Raqqa, dove sono già
fuggiti i leader del braccio iracheno e migliaia di combattenti, come
ripetutamente denunciato da Damasco e Mosca che considerano il transito
una palese tattica del fronte anti-Assad; dall’altra aprirebbe al
passaggio di quelle stesse milizie sciite in Siria, a combattere al
fianco del governo siriano.
Un’eventualità che ieri il loro portavoce, Ahmed al-Assadi, ha lasciato intendere in un’intervista all’Afp:
«Dopo aver ripulito la nostra terra, siamo pronti ad andare in
qualsiasi luogo rappresenti una minaccia alla sicurezza nazionale».
Tal Afar, da questo punto di vista,
è centrale anche per la Turchia. È a 50 km da Sinjar, l’area yazidi
liberata un anno fa dai peshmerga. Ma a Sinjar non c’erano solo i
combattenti del Kurdistan iracheno: c’erano anche le Ypg kurdo-siriane e
gli uomini del Pkk, i primi ad accorrere quando migliaia di
yazidi finirono nell’agosto del 2014 sotto assedio dell’Isis sul monte
Sinjar. E da lì Ypg e Pkk non se sono mai andati, giocando un ruolo
centrale – seppur poco raccontato – nell’operazione del novembre 2015.
Non
è dunque un caso che pochi giorni fa il presidente turco Erdogan abbia
tuonato contro il Partito Kurdo dei Lavoratori perché si tenga a
distanza da Sinjar: non diventerà una nuova Qandil, ha detto
Erdogan, il cui timore principale è vedere il confine siriano-iracheno
in mano a kurdi nemici (non gli alleati del Krg di Barzani) e milizie
sciite. Ovvero a soggetti che porrebbero fine al progetto di un
corridoio sotto il controllo di Ankara lungo la frontiera turca con
Siria e Iraq.
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