La Turchia di Erdogan tra islamo-nazionalismo e colonialità del potere: il fascismo più preoccupante del XXI secolo
Nello scenario geopolitico del Medio Oriente è oggi in corso una guerra mondiale che coinvolge e concentra nella regione le maggiori potenze internazionali e i loro interessi strategici. Il preoccupante ruolo ricoperto dalle politiche della Turchia di Erdoğan, con la quale al contempo gli Stati Uniti, gli Stati dell’Unione Europea, l’Iran, il Qatar, l’Arabia Saudita, Israele, e la Russia tessono legami, sembra essere sottovalutato nel genocidio fisico e culturale che sta attualmente compiendo attraverso atroci mire politiche razziste e islamo-nazionaliste.
Pericolose visioni normalizzanti
Rispetto alla guerra mondiale in corso in Siria, il punto d’inizio delle analisi che vengono diffuse sul Medio Oriente è spesso mediaticamente rappresentato in ambito occidentale da una linea interpretativa che mette in risalto gli accordi sul campo presi tra le potenze mondiali. Si guarda alla situazione presente e ai suoi possibili sviluppi futuri in un ordine discorsivo situato già dall’ottica del potere di chi detiene sulla regione degli interessi specifici, il raggiungimento dei quali avviene per mezzo di alleanze strategiche sul campo diplomatico del visibile. Ma isolando i fenomeni politici e sociali dal loro contesto e tenendo in conto da una prospettiva eurocentrica solo gli interessi statali particolari si perde la possibilità di una visione d’insieme, organica, di uno sguardo storico critico più ampio e complesso. Così se nel tentativo di comprendere la guerra mondiale in corso oggi in Siria si svolge una mera analisi della politica governativa ufficiale, prendendo in considerazione solo gli accordi tra Stati-Nazione a seconda dei rapporti di forza noti e consolidati, non si scorge la possibilità di andare alle fondamenta dei problemi, dei conflitti e della loro posta in gioco, né si scorge possibilità di porre in atto una discussione critica dell’ordine esistente.
Spesso in stretti bilanci analitici, lo scacchiere che viene disegnato impone a chi lo osserva uno sguardo legato a schemi astratti, in una macroanalisi geopolitica che a volte equivale a una visione settoriale e presentificata: allora si ripropone, nella mera descrizione acritica, uno status quo. Avviene così una narrazione normalizzante del conflitto e dello scenario di guerra di fronte al quale ci troviamo.
I quotidiani e le riviste si riempiono ora di dati e compilazioni asettiche, poi di pietismo: procedono ad una deresponsabilizzazione collettiva, come se ci si potesse abituare alle invasioni illegittime, alle continue morti, al genocidio, alla distruzione di intere città, nella reiterata visione di immagini di devastazione, nella lettura ripetuta dei numeri dei bilanci, arrivando ad uccidere ogni coscienza e presa di posizione. Si tratta di un processo di normalizzazione, che porta a percepire la più pericolosa banalità del male: questo avviene se le analisi sviluppate non hanno lo scopo di restituire in profondità una comprensione critica degli sviluppi storici della guerra in corso, che ne evidenzino il suo legame con il potere, tenendo in conto elementi del passato per comprendere la fase storica presente.
Proprio la guerra mondiale scoppiata in Medio Oriente, guidata dagli interessi della Turchia nel suo tentativo di conquista coloniale, attraverso guerre d’aggressione con la violazione dei confini in Siria, in spregio ai diritti umani e al diritto internazionale, nella riproposizione di un progetto ottomanista, ha infatti tra i suoi tentativi esattamente quello di cancellare ogni memoria storica e ogni capacità critica che faccia agire un’opposizione democratica diffusa al suo operato. Dichiarando di voler invadere anche l’Iraq nell’operazione militare di Mosul, Erdoğan, dopo aver già invaso militarmente il nord della Siria con l’esplicita collaborazione delle bande jihadiste e con il beneplacito delle potenze mondiali, e dopo aver distrutto intere città nel sudest della Turchia, vuole costruire il suo progetto di espansionismo sunnita attraverso una politica razzista e settaria di pulizia etnica, guadagnando il controllo oltre che in Siria anche in Iraq, prendendo di mira in primo luogo quella parte curda dell’opposizione democratica che ha costruito in questi anni un sistema di autogoverno democratico per mezzo di una rivoluzione sociale conosciuta in tutto il mondo come un'alternativa reale della modernità democratica, in atto nel Kurdistan del nord e dopo le Rivoluzioni Arabe nel sistema cantonale e comunale del Rojava, basato sull’autogoverno, sull’ecologia, sull’economia sociale, sulla parità tra i generi e sull’autodifesa¹.
In questo momento in Turchia, avviene un controllo totale dell’informazione, con la soppressione della stampa, con l’oscuramento di internet e dei canali tv di opposizione: il progetto dittatoriale di Erdoğan mira a eliminare culturalmente e fisicamente ogni dissenso, impedendo così una comprensione diffusa dell’attuale e reale gravità del momento.
Sembra allora quanto mai urgente riuscire ad avere gli strumenti per comprendere il momento delicato che oggi viviamo. E’ un dovere intellettuale ma prima di tutto morale opporsi e non sottovalutare il regime dittatoriale che lo stato turco di Erdoğan sta oggi portando avanti, sino alle più estreme conseguenze per l’intero pianeta. Altrimenti, il rischio che si corre, è di non rendersi conto della portata degli avvenimenti in atto e di lasciare morire ogni giorno, insieme a migliaia di civili e a chi lotta per un’alternativa democratica, ogni memoria storica, ogni coscienza e pensiero critico. Appelli più recenti, come quello della studiosa Judith Butler nella rivista “The Cairo Review of Global Affairs”, dal significativo titolo “Global Trouble²” che esprimono la preoccupazione per la situazione della libertà accademica in Turchia, sono importanti e rappresentano uno stimolo di analisi, ma richiedono anche un approfondimento, condiviso in ogni ambito della società, con tutta la capacità di coinvolgimento, di dissenso e di riflessione di cui si è oggi capaci.
Ottomanismo, repressione kemalista e colpi di stato in Turchia
E’ stato il XIII secolo a vedere la nascita dell’Impero Ottomano. Una piccola tribù turca guidata dal condottiero Osman avviò allora la conquista dell’Asia Minore. Nel 1299 Osman si attribuì il ruolo di Sultano. Dopo di lui dagli Ottomani sarebbero venuti importanti califfi o sultani – l’ultimo dei quali è stato destituito dai kemalisti nel 1922 – che dando l’impressione di rinnovarsi secondo linee democratiche, condussero in realtà spedizioni punitive contro ogni minoranza, in particolare contro la popolazione curda, instaurando regimi di terrore. Al modello d’Impero Ottomano nell'unificazione islamica si rifà oggi il governo di Recep Tayyp Erdoğan. L’impero ottomano è noto per aver compiuto tra il 1915 e il 1916 il genocidio del popolo armeno, con deportazioni che causarono circa 1,5 milioni di morti. Di questo genocidio della storia portato avanti dal nazionalismo ottomanista dei “Giovani Turchi”, Erdoğan ha pubblicamente negato l’esistenza.
Dal 1923 quando, dopo i trattati di Losanna, fu proclamata la Repubblica Turca, si praticò sempre con maggior chiarezza la centralità del nazionalismo turco come asse portante del nuovo Stato. Fu sciolta l’Assemblea Nazionale, e molti dei 74 dei deputati curdi che prima ne erano parte, furono impiccati. Furono da allora dichiarati nulli tutti i trattati che tutelavano i diritti della popolazione curda, chiuse le scuole e vietate le pubblicazioni; anche la lingua curda fu bandita: in uno Stato fondato sull’ideologia dell’unità nazionale la presenza nel territorio di un’altra comunità nazionale si configurava di per sé come tradimento dello Stato. Si apriva così la strada a una politica in Turchia di sistematico annichilimento di chi non volesse riconoscersi come cittadino turco. Da quel momento in poi il Paese ha conosciuto una guerra sistematica che doveva essere occultata altrettanto sistematicamente. Si ebbero massacri e sollevazioni e rivolte sin dai tempi in cui, nel 1930, il ministro della Giustizia Mahmut Esat Bozhurt proclamò nel quotidiano Milliyet che tutti coloro che non potevano vantare “un’ascendenza puramente turca avevano un solo diritto: quello di servire e essere schiavi”.
Seguirono gli anni del massacro di Dersim (tuchizzata con il nome di Tunceli) nel 1932 e poi gli anni della sua ribellione e resistenza tra il 1937 e il 1938. Non è difficile scorgere una continuità ideologica, con le tendenze che hanno attraversato l’Europa durante le politiche del nazismo e del fascismo. E d’altronde i legami ideologici continuativi con la politica del nazismo non sono stati negati da Erdogan, ma anzi di recente confermati pubblicamente: quando è stato accusato dalle opposizioni di voler stabilire un sistema presidenziale forte nel paese, durante un discorso di fine anno, il 31 dicembre 2015, Erdogan ha difeso il suo proposito citando come un buon esempio di sistema presidenziale la Germania nazista di Adolf Hitler: “Ci sono esempi nel passato, se si pensa alla Germania di Hitler, è possibile vederlo”.
Nel periodo della Guerra Fredda, nel 1952 la Turchia fu annessa alla NATO in funzione antisovietica. Due anni più tardi gli USA hanno realizzato lì un avamposto che tuttora riserva loro strategicamente molte basi militari. I quasi cinque miliardi e mezzo di dollari americani ricevuti all’ora come aiuto economico dalla NATO non furono utilizzati dal governo turco per aggiustare la grave situazione economica in cui versava in quel momento il Paese, ma per incrementare l’apparato militare. Dal 1958 in poi il Primo Ministro Menderes, in seguito al malcontento generale e alla grande povertà, arresterà, anche con l’obiettivo di distogliere dalla grave situazione economica, diversi intellettuali dissidenti. La Turchia ha una storia consolidata di colpi di Stato: il 27 Maggio 1960 Menderes viene impiccato dopo un golpe e la nuova giunta di militari che si rifà al kemalismo nazionalista di Ataturk inizia allora ad avviare la sua spietata politica anticurda.
La giunta al potere procedette alla turchizzazione dei nomi delle città e dei villaggi curdi e il regime promulgò una legge che consentiva il trasferimento forzoso degli abitanti verso altre zone del territorio nazionale, applicandola, con il pretesto di “comportamenti pregiudizievoli per l’interesse nazionale”, solo alla popolazione curda. Durante gli anni ‘60 del governo di Kemal Gursel, la polizia turca disciolse con violenza le manifestazioni uccidendo un gran numero di partecipanti con un bilancio amaro che ha portato a più di mille uccisioni in pochi mesi compresi tra Mardin e Diyarbakir³.
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Note1. Per approfondire si rimanda allo studio inedito sulla rivoluzione sociale in Siria di Michael Knapp, Ercan Abyoga, Anja Flach, Laboratorio Rojava. Redstar Press, Roma, 2016
2. Per l’intervista completa a Judith Butler si rimanda al sito https://www.thecairoreview.com/q-a/global-trouble/
3. Namo Aziz, Kurdistan. Storia di un popolo e della sua lotta, Manifestolibri, Roma, 2000
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