Domenica elettorale, ieri, in due ex repubbliche sovietiche: consultazione parlamentare in Georgia e voto presidenziale in Moldavia. Se nel primo caso il risultato è stato definitivo, nel secondo si dovrà andare al ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di consensi.
Nel paese ex feudo dell'attuale governatore della regione ucraina di Odessa – quel Mikhail Saakašvili già presidente della Georgia dal 2004 al 2007 e dal 2008 al 2013 e qui ricercato per falsificazione di prove nella morte dell'ex primo ministro Zurab Žvania, abuso di potere e appropriazione di 5 milioni di dollari di fondi statali – ha ottenuto la maggioranza parlamentare il partito “Sogno georgiano”, vincendo in 48 delle 50 circoscrizioni uninominali e assicurandosi 115 seggi, contro i 27 del partito dei sostenitori di Saakašvili, “Movimento nazionale unito”. Anche nel caso della Georgia, si è trattato comunque del secondo turno, che ha riguardato le circoscrizioni in cui nessun candidato era riuscito a ottenere la necessaria maggioranza al primo turno dello scorso 8 ottobre. In Georgia il parlamento viene eletto col sistema misto: 77 deputati col sistema proporzionale secondo liste di partito e 73 col sistema maggioritario in circoscrizioni uninominali. La soglia di sbarramento è al 5%. Secondo i risultati pressoché definitivi, in parlamento dovrebbe entrare, oltre a “Sogno georgiano-Georgia democratica” e “Movimento nazionale unito”, anche “Alleanza dei patrioti georgiani”. Due anni fa, Saakašvili aveva dichiarato di non voler tentare un colpo di stato in Georgia, essendo sicuro della vittoria elettorale. A Tbilisi però si erano detti non del tutto tranquilli, nonostante la comune propensione filo Nato proclamata (e attuata) sia da Saakašvili, che del partito al potere “Sogno georgiano”. Lo stesso Saakašvili infatti, allorché il suo rientro in patria si annunciava per il 2015, aveva dichiarato che “non è possibile un cambio dell'attuale governo con il metodo classico della democrazia elettorale” e a Tbilisi ritenevano che il “Movimento nazionale unito” stesse cercando proseliti tra i veterani di Majdan, con cui Saakašvili tesse buoni affari nella sua veste di governatore di Odessa.
In Moldavia, nessun candidato presidente è riuscito a ottenere più del 50% dei voti necessario a essere eletto al primo turno. Quelle di ieri sono le prime elezioni dirette del presidente della repubblica dal 1996. Dal 2000 infatti il presidente veniva eletto dal Parlamento coi tre quinti dei voti dei deputati. Secondo i primi risultati, al secondo turno si presenterà in testa il leader del Partito socialista, Igor Dodon, che si è espresso a più riprese, anche di recente, per un riavvicinamento alla Russia e che lo scorso 25 ottobre aveva dichiarato di riconoscere la Crimea come parte della Federazione Russa. A sfidarlo, l'altra candidata ad aver ottenuto ieri il più alto numero di voti, la beniamina delle ambasciate occidentali, quella Maja Sandu (Dodon ha raccolto ieri il 48,6% dei consensi, contro il 38,03% della Sandu), ex Ministro per l’istruzione, laureata alla Harvard Kennedy School of Government del Massachusetts, ex Consigliere alla direzione esecutiva della Banca mondiale, protégé della fondazione “Soros” e dell’ambasciata USA e leader di quel movimento euroatlantico DA-”Demnitate si adevar”(Dignità e verità) che, pur manifestando un anno fa contro la corruzione governativa, è stato sempre schierato per l’ingresso nella UE e l’adesione alla Nato. Lo scorso anno, infatti, DA aveva organizzato per proprio conto manifestazioni, separate da quelle del Partito Nostro e del Partito Socialista, formazioni che chiedevano le dimissioni del governo e del presidente della repubblica Nicolae Timofti, si pronunciavano contro “l’occupazione del paese da parte degli oligarchi”, per elezioni parlamentari anticipate ed elezione diretta del capo dello stato.
Dal 2009, è al governo in Moldavia la coalizione filo-UE “Alleanza per l’integrazione europea”, formata dai Partiti Democratico, Liberal-democratico e Liberale, ritenuta dai cittadini responsabile di scandali, corruzione, furti di ingenti somme pubbliche e che nel 2014 ha firmato l'accordo di associazione alla UE. Secondo i più recenti sondaggi pre elettorali, meno del 20% della popolazione si dice favorevole al governo e la percentuale di coloro che si pronunciano per l'integrazione europea è scesa dal 70% del 2010 al 37% attuale. Difficile pensare che questi dati preoccupino più di tanto l'ambasciata USA a Kišinëv, fermamente schierata con la coalizione al potere e col suo leader, il magnate del petrolio e vice presidente del Partito Democratico Vladimir Plakhotnjuk, di casa a Washington e protetto di Victoria-fuck-the-UE-Nuland. Anche il ritiro dalla corsa elettorale, a pochi giorni dal voto, dell'ex primo ministro Adrian Năstase e dell'attuale leader del PD, Marian Lupu, a favore della candidatura unica di Maja Sandu, a detta di Igor Dodon, sarebbe stata imposta da Washington. Dodon si è detto dispiaciuto che l'esempio del raggruppamento filo-occidentale non sia stato seguito anche dal candidato del Partito Nostro, che ha ottenuto il 6% dei voti, sottratti, secondo Dodon, al Partito Socialista.
Tutta da seguire, dunque, la prossima tattica pre e post elettorale in Moldavia da parte del Dipartimento di stato USA.
Per intanto, continuano a Kišinëv i processi contro i comunisti del movimento “La nostra casa-Moldavia. Blocco rosso”, detenuti per sei mesi dopo le proteste antigovernative di anno fa, passati poi per due mesi agli arresti domiciliari e quindi all'obbligo di soggiorno, e indagati con la formula del “Gruppo Petrenko”, il leader del Blocco Rosso ed ex deputato comunista Grigorij Petrenko, anch'egli arrestato un anno fa.
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