L'ultimo sondaggio – poi scatta il divieto di pubblicazione, anche se ovviamente continueranno a essere realizzati su commissione di governo e partiti – delinea una vittoria del NO al referendum. Il problema, per Renzi e chi se lo è inventato, è che il distacco è improvvisamente diventato abissale: 10%.
Teniamo conto anche che l'istituto che ha generato questa cifra è quello diretto dal solitamente cautissimo Nando Pagnoncelli (quello vero, non la versione Crozza), e si vede che le dimensioni della sconfitta del “fronte delle banche” potrebbe assumere proporzioni per loro catastrofiche.
Seguono i distinguo e le incertezze tipiche di ogni sondaggio. Per esempio, solo il 12% degli elettori dichiara di avere ben presente il merito della riforma (in crescita, comunque, dal 10% di un mese e mezzo fa), mentre quasi un terzo confessa di non saperne nulla.
La platea dei potenziali votanti resta comunque in linea con le medie della partecipazione al voto (il 53,5% degli aventi diritto, in diminuzione rispetto alle ultime rilevazioni), segno che – nonostante i toni apocalittici urlati da Palazzo Chigi – la popolazione non vive questo appuntamento con particolare tensione. I problemi della vita sono sempre gli stessi, aggravati di mese in mese, e il tema costituzionale, in un paese di bassissima cultura democratica, non sembra dirimente. Come invece è.
Non è il caso comunque di assaporare la vittoria prima di aver finito di giocare, e con decisione, la partita. Il distacco di 10 punti percentuali emerge infatti da una serie di passaggi statistici piuttosto complessi: il 26,1% degli aventi diritto afferma che voterà certamente NO, contro il 21% dei sì, mentre i potenziali astensionisti sono al 46,5%; gli incerti sono il 13%. Alla fine della fiera, ammettendo anche discrete percentuali di possibili “cambiamenti di fronte”, quelli che dichiarano con certezza il proprio orientamento finiscono per dare il 55% al NO e il 45% al sì.
L'altro elemento rilevante, illustrato ieri da La Stampa, è che tutte le mosse elettoralistiche di Renzi – promesse, bonus, quattordicesima ai pensionati poveri, cambio di nome a Equitalia, ecc. – non hanno spostato di un millimetro le percentuali nei sondaggi. Di qui il disperato cambio di strategia delle ultime settimane, con la recita di un euroscetticismo che sembra destinato a irritare Francia, Germania e Bruxelles, senza peraltro strappare voti alla concorrenza (Movimento 5 Stelle e Lega, oltre ovviamente all'area che ha dato vita alle giornate del 21 e 22 ottobre).
L'errore iniziale di Renzi – la cosiddetta “personalizzazione”, avendo lui stesso ripetuto milioni di volte “se perdo cambio mestiere” – appare secondo questi dati pressoché irrecuperabile. Ma naturalmente non c'è da fidarsi dei sondaggi, dunque è più che mai necessario moltiplicare gli sforzi e le iniziative per portare più gente possibile alle urne il 4 dicembre, per sparare un NO di proporzioni tali da sconsigliare qualsiasi tentativo di ammuina o traccheggiamento.
L'ultimo elemento da tenere in considerazione è l'appannamento pressoché totale della banda Renzi come “rottamatori”. Dopo mille giorni esatti di governo – anche per le molte misure criminogene decise da palazzo Chigi in materia di lavoro, contratti, diritti, scuola, sanità, pensioni, ecc. – è praticamente impossibile farsi passare come altra cosa rispetto alla “kasta”.
Un deficit che quindi sposa necessariamente su altre figure l'ondata di quanti chiedono un “cambiamento” senza alcun progetto identificabile di società e istituzionale.
Ci sarà da lavorare, con intelligenza e determinazione, anche dopo la possibile vittoria del NO...
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