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18/11/2016

Yemen - Hadi boccia Kerry, la Russia chiama Trump

di Chiara Cruciati – Il Manifesto

L’autunno mediorientale è sempre più caldo. Alle controffensive anti-Isis si sovrappone l’ombra del neo eletto presidente Usa, figura quasi criptica per chi vuole immaginare il futuro della regione. Per districarsi conviene partire dalla presunta periferia del Medio Oriente, lo Yemen e la sua guerra silenziosa: ieri avrebbe dovuto iniziare una tregua tra ribelli Houthi e coalizione a guida saudita dopo l’accordo raggiunto dal segretario di Stato Kerry. Ma le armi non si sono zittite. Al contrario, hanno risuonato uccidendo 54 persone in scontri tra Houthi e pro-governativi e raid della coalizione a Marib, Sa’ana e Taiz.

A far collassare un accordo suggellato dagli Stati Uniti è il governo yemenita che da due giorni insiste: il piano – tregua e negoziato per un esecutivo di unità nazionale entro l’anno – è unilaterale, ha detto di nuovo ieri il ministro degli Esteri al-Mekhlafi, e mai sottoposto al presidente Hadi (che con l’eventuale dialogo sponsorizzato dall’Onu verrebbe definitivamente messo da parte). Quindi, è il succo del messaggio, il governo in auto-esilio non aderisce.

Un colpo alla credibilità dell’amministrazione Obama che sperava di chiudere il secondo mandato con un risultato positivo in un teatro di guerra che ha direttamente incendiato. Non commenta l’Arabia Saudita, primattore della guerra e burattinaio del presidente Hadi. Improbabile che il governo yemenita, debole e lontano, decida da sé. Forse il no a Kerry è un’abile mossa saudita per proseguire la guerra ed inviare un messaggio a Washington, a cui Riyadh non nasconde il fastidio per il riavvicinamento a Teheran e l’indebolimento del proprio ruolo in Siria.

Un ruolo che verrebbe meno se il Trump presidente proseguisse sulla via disegnata dal Trump candidato: dialogo con Mosca e Damasco in chiave anti-Isis e revisione degli aiuti alle opposizioni. La fine dei progetti sauditi per la Siria. Due giorni fa è stato il presidente Assad, in un’intervista alla tv portoghese Rtp, a dare voce alle speranze sulla nuova Casa Bianca: Trump potrebbe diventare «un alleato di fatto». Tanto che ieri il vice ministro degli Esteri russo Bodganov ha parlato di contatti già attivi con il neo presidente e Damasco di essere «pronta ad aprire canali di comunicazione». Ma Assad si chiede anche se «potrà rispettare le promesse fatte», un dubbio figlio delle alleanze regionali che la nuova amministrazione non potrà spazzar via, a partire da Israele e Turchia che sulla Siria hanno visioni molto diverse dalla Russia.

Intanto ad Aleppo, dopo un mese a “bassa intensità” – comunque caratterizzato dall’offensiva delle opposizioni, la risposta del governo e decine di vittime – gli scontri sono ripresi. Con la Russia che colpisce Idlib (ieri i caccia hanno ucciso 30 miliziani dell’ex al-Nusra, ma dicono fonti locali anche 19 civili), nella capitale del nord è Damasco ad agire: sarebbero 80 i morti nei quartieri est in due giorni, secondo attivisti che riportano anche del bombardamento di tre cliniche.

Aleppo resta preda di tutti: opposizioni e governo premono riducendo alla fame la popolazione e usandola come scudo umano utile a sostenere la propria propaganda. Le narrative belliche sono le sole ad accomunare gli attori in campo in Siria come in Iraq dove prosegue la battaglia per Mosul, tra atrocità e divisioni. Ieri le milizie sciite hanno riconquistato l’aeroporto di Tal Afar, a ovest della città, sede di una base militare e luogo strategico per chiudere il cerchio sull’Isis. E per mostrarsi forze legittime, hanno consegnato alle truppe governative 16 villaggi intorno a Tal Afar liberati dall’Isis.

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