di Chiara Cruciati – Il Manifesto
L’autunno mediorientale è
sempre più caldo. Alle controffensive anti-Isis si sovrappone l’ombra
del neo eletto presidente Usa, figura quasi criptica per chi vuole
immaginare il futuro della regione. Per districarsi conviene partire
dalla presunta periferia del Medio Oriente, lo Yemen e la sua guerra
silenziosa: ieri avrebbe dovuto iniziare una tregua tra ribelli
Houthi e coalizione a guida saudita dopo l’accordo raggiunto dal
segretario di Stato Kerry. Ma le armi non si sono zittite. Al
contrario, hanno risuonato uccidendo 54 persone in scontri tra Houthi e
pro-governativi e raid della coalizione a Marib, Sa’ana e Taiz.
A far collassare un accordo suggellato dagli Stati Uniti è il
governo yemenita che da due giorni insiste: il piano – tregua e
negoziato per un esecutivo di unità nazionale entro l’anno – è
unilaterale, ha detto di nuovo ieri il ministro degli Esteri
al-Mekhlafi, e mai sottoposto al presidente Hadi (che con l’eventuale
dialogo sponsorizzato dall’Onu verrebbe definitivamente messo da parte).
Quindi, è il succo del messaggio, il governo in auto-esilio non
aderisce.
Un colpo alla credibilità dell’amministrazione Obama che
sperava di chiudere il secondo mandato con un risultato positivo in un
teatro di guerra che ha direttamente incendiato. Non commenta l’Arabia
Saudita, primattore della guerra e burattinaio del presidente
Hadi. Improbabile che il governo yemenita, debole e lontano, decida da
sé. Forse il no a Kerry è un’abile mossa saudita per proseguire la
guerra ed inviare un messaggio a Washington, a cui Riyadh non nasconde
il fastidio per il riavvicinamento a Teheran e l’indebolimento del
proprio ruolo in Siria.
Un ruolo che verrebbe meno se il Trump presidente proseguisse sulla
via disegnata dal Trump candidato: dialogo con Mosca e Damasco in chiave
anti-Isis e revisione degli aiuti alle opposizioni. La fine dei
progetti sauditi per la Siria. Due giorni fa è stato il presidente Assad, in un’intervista alla tv portoghese Rtp,
a dare voce alle speranze sulla nuova Casa Bianca: Trump potrebbe
diventare «un alleato di fatto». Tanto che ieri il vice ministro degli
Esteri russo Bodganov ha parlato di contatti già attivi con il neo
presidente e Damasco di essere «pronta ad aprire canali di
comunicazione». Ma Assad si chiede anche se «potrà rispettare le
promesse fatte», un dubbio figlio delle alleanze regionali che la nuova
amministrazione non potrà spazzar via, a partire da Israele e Turchia
che sulla Siria hanno visioni molto diverse dalla Russia.
Intanto ad Aleppo, dopo un mese a “bassa intensità” –
comunque caratterizzato dall’offensiva delle opposizioni, la risposta
del governo e decine di vittime – gli scontri sono ripresi. Con
la Russia che colpisce Idlib (ieri i caccia hanno ucciso 30 miliziani
dell’ex al-Nusra, ma dicono fonti locali anche 19 civili), nella
capitale del nord è Damasco ad agire: sarebbero 80 i morti nei quartieri
est in due giorni, secondo attivisti che riportano anche del
bombardamento di tre cliniche.
Aleppo resta preda di tutti: opposizioni e governo premono riducendo
alla fame la popolazione e usandola come scudo umano utile a sostenere
la propria propaganda. Le narrative belliche sono le sole ad accomunare
gli attori in campo in Siria come in Iraq dove prosegue la battaglia per
Mosul, tra atrocità e divisioni. Ieri le milizie sciite hanno
riconquistato l’aeroporto di Tal Afar, a ovest della città, sede di una
base militare e luogo strategico per chiudere il cerchio sull’Isis. E per mostrarsi forze legittime, hanno consegnato alle truppe governative 16 villaggi intorno a Tal Afar liberati dall’Isis.
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