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06/11/2016

Petrolio: merce di scambio e arma di pressione

di Francesca La Bella

Il prezzo del petrolio ha ricominciato a scendere. Dopo la ventata di ottimismo data dall’accordo di Algeri di fine settembre, il mancato raggiungimento di una mediazione a Vienna ha indotto un significativo ribasso del valore del greggio sul mercato mondiale. Durante la riunione Opec della scorsa settimana, infatti, non è stato possibile confermare la limitazione della produzione di petrolio decisa ad Algeri e la discussione è stata rimandata ad una nuova riunione da tenersi nuovamente a Vienna il 30 novembre. Le problematiche che avrebbero portato a questo “nulla di fatto” sarebbero numerose: le resistenze all’accordo di Iran e Iraq, i primi restii a bloccare la produzione proprio ora che per Teheran sarebbe possibile tornare ai livelli pre-sanzioni ed i secondi che, negli introiti del greggio, trovano fonte di finanziamento primaria per le spese di guerra interna; le richieste di esenzione dal blocco di Libia e Nigeria che, in ripresa dopo un lungo periodo di stallo, vorrebbero mantenere uno status privilegiato per tornare a standard di produzione e di esportazione pre-crisi. Perché il quadro sia completo, bisogna, però, aggiungere alcune importanti variabili esterne al mondo Opec. Da un lato la crescente produzione petrolifera statunitense costituisce la principale concorrenza per la commercializzazione del petrolio Opec e incide in maniera significativa sul mercato del greggio, dall’altra la Russia, tra i principali promotori di un accordo di contenimento della produzione, avrebbe dichiarato che qualsiasi azione in questo senso non potrà avere seguito senza un preliminare accordo in seno all’Opec, facendo in questo modo mancare il proprio sostegno esterno al progetto.

Il mancato accordo riflette una realtà di difficili relazioni tra produttori petroliferi con una rilevanza che trascende dal semplice ambito economico. Per valutare le cause e le conseguenze di questa situazione, infatti, si guardi al più ampio ambito geopolitico in cui queste potenze si muovono. In un Medio Oriente e un Nord Africa segnati da un perdurante disequilibrio, dalla lotta contro lo Stato Islamico e da un’insanabile frattura che divide Iran e Arabia Saudita portando, di fatto, alla creazione di due blocchi contrapposti, il petrolio diventa allo stesso tempo moneta di scambio e arma di pressione. La vendita del petrolio finanzia gli eserciti, come quello saudita in Yemen o quello iracheno in lotta per la riconquista di Mosul. Gli oleodotti cementano relazioni internazionali, come per il Kirkuk-Ceyhan dal Governo Regionale curdo-iracheno (Krg) alla Turchia o il Green Stream dalla Libia all’Italia. La spartizione della commercializzazione del greggio riflette la potenza regionale degli Stati nazionali e, così, un Paese come l’Arabia Saudita, in forte crisi politica a livello interno e d’area, prova ad imporsi come attore di primo piano proprio attraverso il petrolio.

In questo senso è molto interessante leggere le valutazioni fatti da analisti internazionali in merito alla fluttuazione del prezzo del petrolio e di come questo sia influenzato positivamente (in rialzo) dall’instabilità geopolitica. Stratas Advisors ad esempio, sottolinea come la politica saudita anti-Iran nell’area abbia avuto un ruolo chiave nel disequilibrio della regione. Secondo quanto riportato nel report settimanale sull’andamento del greggio della società statunitense di consulenza nel settore energetico, attualmente il rischio più grande per il Medio Oriente sarebbe il potenziale per un grande conflitto settario. Come sottolineato dal team macroeconomico di Stratas, le tensioni sarebbero, infatti, in aumento. Nel mese di luglio, Turki al Faisal, ex ministro dell’intelligence saudita e ambasciatore negli Stati Uniti e nel Regno Unito, avrebbe espresso il suo appoggio alle rivendicazioni del gruppo dissidente iraniano MEK mentre numerose fonti avrebbero confermato il sostegno logistico dell’Arabia Saudita alle minoranze interne all’Iran in una logica di destabilizzazione del colosso persiano dall’interno.

Il ruolo di Ryad in questo contesto di disequilibrio è, quindi, da considerarsi centrale. In parallelo all’azione politico-diplomatica, l’azione sul mercato del petrolio sembra essere parte di una strategia complessiva di riconquista del proprio ruolo regionale ed internazionale. Nei mesi passati, infatti, la continua discesa del prezzo del petrolio poteva essere principalmente imputata alla volontà dell’Arabia Saudita di saturare il mercato in modo da mettere fuori gioco lo shale oil statunitense. Allo stesso tempo il crollo del prezzo del greggio ha avuto un forte impatto sulle casse saudite e, dato l’ingente investimento di fondi in Yemen, in Bahrain e in tutti i contesti d’area considerati prioritari nell’opera di contenimento del potenziale iraniano, la scelta di aderire ad un tavolo negoziale in seno all’Opec è stata considerata da Ryad l’unica strada percorribile. A fronte della mancata adesione al progetto di Iraq e Iran e delle potenzialità di produzione di Libia e Nigeria, l’Arabia Saudita potrebbe, però, fare un passo indietro per mantenere il proprio ruolo di leader del settore e non dover sostenere il peso dei tagli senza la possibilità di beneficiare di un prezzo di vendita maggiore.

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