di Francesca La Bella
Il prezzo del petrolio ha ricominciato a scendere. Dopo la ventata di
ottimismo data dall’accordo di Algeri di fine settembre, il mancato
raggiungimento di una mediazione a Vienna ha indotto un significativo
ribasso del valore del greggio sul mercato mondiale. Durante la riunione
Opec della scorsa settimana, infatti, non è stato possibile confermare
la limitazione della produzione di petrolio decisa ad Algeri e la
discussione è stata rimandata ad una nuova riunione da tenersi
nuovamente a Vienna il 30 novembre. Le problematiche che avrebbero
portato a questo “nulla di fatto” sarebbero numerose: le
resistenze all’accordo di Iran e Iraq, i primi restii a bloccare la
produzione proprio ora che per Teheran sarebbe possibile tornare ai
livelli pre-sanzioni ed i secondi che, negli introiti del greggio,
trovano fonte di finanziamento primaria per le spese di guerra interna;
le richieste di esenzione dal blocco di Libia e Nigeria che, in ripresa
dopo un lungo periodo di stallo, vorrebbero mantenere uno status
privilegiato per tornare a standard di produzione e di esportazione
pre-crisi. Perché il quadro sia completo, bisogna, però,
aggiungere alcune importanti variabili esterne al mondo Opec. Da un lato
la crescente produzione petrolifera statunitense costituisce la
principale concorrenza per la commercializzazione del petrolio Opec e
incide in maniera significativa sul mercato del greggio, dall’altra la
Russia, tra i principali promotori di un accordo di contenimento della
produzione, avrebbe dichiarato che qualsiasi azione in questo senso non
potrà avere seguito senza un preliminare accordo in seno all’Opec,
facendo in questo modo mancare il proprio sostegno esterno al progetto.
Il mancato accordo riflette una realtà
di difficili relazioni tra produttori petroliferi con una rilevanza che
trascende dal semplice ambito economico. Per valutare le cause e le
conseguenze di questa situazione, infatti, si guardi al più ampio ambito
geopolitico in cui queste potenze si muovono. In un Medio
Oriente e un Nord Africa segnati da un perdurante disequilibrio, dalla
lotta contro lo Stato Islamico e da un’insanabile frattura che divide
Iran e Arabia Saudita portando, di fatto, alla creazione di due blocchi
contrapposti, il petrolio diventa allo stesso tempo moneta di scambio e
arma di pressione. La vendita del petrolio finanzia gli
eserciti, come quello saudita in Yemen o quello iracheno in lotta per la
riconquista di Mosul. Gli oleodotti cementano relazioni internazionali,
come per il Kirkuk-Ceyhan dal Governo Regionale curdo-iracheno (Krg)
alla Turchia o il Green Stream dalla Libia all’Italia. La spartizione
della commercializzazione del greggio riflette la potenza regionale
degli Stati nazionali e, così, un Paese come l’Arabia Saudita, in forte
crisi politica a livello interno e d’area, prova ad imporsi come attore
di primo piano proprio attraverso il petrolio.
In questo senso è molto interessante
leggere le valutazioni fatti da analisti internazionali in merito alla
fluttuazione del prezzo del petrolio e di come questo sia influenzato
positivamente (in rialzo) dall’instabilità geopolitica. Stratas Advisors
ad esempio, sottolinea come la politica saudita anti-Iran nell’area
abbia avuto un ruolo chiave nel disequilibrio della regione. Secondo
quanto riportato nel report settimanale sull’andamento del greggio
della società statunitense di consulenza nel settore energetico,
attualmente il rischio più grande per il Medio Oriente sarebbe il
potenziale per un grande conflitto settario. Come sottolineato
dal team macroeconomico di Stratas, le tensioni sarebbero, infatti, in
aumento. Nel mese di luglio, Turki al Faisal, ex ministro
dell’intelligence saudita e ambasciatore negli Stati Uniti e nel Regno
Unito, avrebbe espresso il suo appoggio alle rivendicazioni del gruppo
dissidente iraniano MEK mentre numerose fonti avrebbero confermato il
sostegno logistico dell’Arabia Saudita alle minoranze interne all’Iran
in una logica di destabilizzazione del colosso persiano dall’interno.
Il ruolo di Ryad in questo
contesto di disequilibrio è, quindi, da considerarsi centrale. In
parallelo all’azione politico-diplomatica, l’azione sul mercato del
petrolio sembra essere parte di una strategia complessiva di riconquista
del proprio ruolo regionale ed internazionale. Nei mesi
passati, infatti, la continua discesa del prezzo del petrolio poteva
essere principalmente imputata alla volontà dell’Arabia Saudita di
saturare il mercato in modo da mettere fuori gioco lo shale oil
statunitense. Allo stesso tempo il crollo del prezzo del greggio ha
avuto un forte impatto sulle casse saudite e, dato l’ingente
investimento di fondi in Yemen, in Bahrain e in tutti i contesti d’area
considerati prioritari nell’opera di contenimento del potenziale
iraniano, la scelta di aderire ad un tavolo negoziale in seno all’Opec è
stata considerata da Ryad l’unica strada percorribile. A fronte della
mancata adesione al progetto di Iraq e Iran e delle potenzialità di
produzione di Libia e Nigeria, l’Arabia Saudita potrebbe, però,
fare un passo indietro per mantenere il proprio ruolo di leader del
settore e non dover sostenere il peso dei tagli senza la possibilità di
beneficiare di un prezzo di vendita maggiore.
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