Il primo gennaio del 2002 entra in circolazione la nuova moneta unica dell’Unione europea: l’euro. Sono già passati quindici anni. Il bilancio sociale di questi tre lustri, in Italia come in altri Paesi dell’Eurozona (tranne in Germania, naturalmente, dove l’entrata dell’euro rafforza il ruolo imperialista tedesco) è drammatico, è già scritto sulla pelle dei lavoratori e delle sempre più vaste schiere dei miserabili e degli emarginati e non vi è bisogno di nessuna ricorrenza per metterlo a fuoco.
Il progetto di messa in circolazione dell’euro passa attraverso un’enfasi – mediatica, politica, “culturale” – che ha pochi precedente nella storia europea: attraverso quest’enfasi, questa grancassa mediatica davvero “sconfinata” (che supera, cioè, ogni confine europeo e ogni confine sociale e culturale, nel senso che straripa ovunque, dalle fabbriche alle scuole) tutto il 2001 diviene l’anno che precede e annuncia la “buona novella” dell’euro. E i tamburi della nuova moneta unica percuoteranno il senso comune di massa anche per tutto il 2002.
E’ per questo bagno forzato di massa che l’euro viene percepito, quasi improvvisamente, come inevitabile, storico, ineludibile. Parafrasando Hegel, razionale perché reale.
In pochi, infatti, continuano a farsi domande, al cospetto di una più vasta moltitudine che lo ritiene “naturale” (e quanta “sinistra”, anche in Italia, partecipa a questo processo di “naturalizzazione” dell’euro!). Le domande dei pochi sono: perché nasce l’euro? Come nasce? Chi lo vuole, più fortemente? Chi lo introduce, col ruolo di ostetrico politico, in Italia? Quali sono i prodotti sociali dell’euro nel nostro Paese? E l’euro è “natura”, come dice di sé il capitalismo, oppure vi è un’alternativa ad esso?
Quesiti per un tomo di Diderot. Che tenteremo di affrontare con una sintesi estrema.
Perché nasce, l’euro? Nel 1991 scompare l’Unione Sovietica. Agli occhi delle forze imperialiste l’intero pianeta si trasforma in un immenso mercato, che risveglia totalmente gli spiriti animali del capitalismo. Gli USA progettano, sostengono e accelerano – innanzitutto con l’urto delle armi – il processo di mondializzazione imperialista. Sul fronte progressista cresce la forza, anche economica, dei BRIC, poi BRICS. Come agisce, in questo contesto, il capitalismo europeo? Premuto da quello tedesco, decide di entrare a muso duro nella lotta concorrenziale, sia interimperialistica che contro i BRICS, per la conquista dei mercati mondiali.
Ma il punto è che i lacci e i lacciuoli residui, provenienti dalle vecchie socialdemocrazie europee, dai vecchi welfare, dalle forze sindacali di classe e di massa e dalle forze comuniste europee non permettono ancora al grande capitale europeo di abbattere i costi delle merci attraverso un abbattimento rapido e cruento dei salari, dei diritti e dello stato sociale. Per cogliere questi obiettivi occorre un ordine nuovo, liberista e sovranazionale. Un ordine europeo. Nasce così l’Unione europea, che non a caso si dota di un manifesto ultraliberista (il Trattato di Maastricht) nel febbraio del 1992, a poco più di due mesi dallo scioglimento dell’URSS e dalla conseguente “inaugurazione” della corsa storica e selvaggia alla conquista dei mercati mondiali.
Dal Trattato di Maastricht alla nascita dell’euro non passerà molto tempo; se infatti la circolazione dell’euro inizia nel gennaio del 2002, la nascita ufficiale della moneta unica avviene nel gennaio del 1999 e nello stesso anno vi sarà il suo debutto nei mercati finanziari.
E’ sin da subito evidente che la natura storica e politica dell’euro è la stessa del Trattato di Maastrich e, per risalire più indietro, a quella dell’Atto Unico Europeo: una natura iperliberista, funzionale ai nuovi processi di accumulazione capitalistica europei e funzionale all’egemonia, su questi processi, del capitalismo tedesco.
Come lo stesso progetto generale dell’Ue, anche quello della moneta unica nasce in vitro, figli entrambi dell’esigenza acuta del capitalismo transnazionale europeo di entrare immediatamente “armato” nella concorrenza economica internazionale e non figli di processi storici unitari, tra stati e popoli, su scala europea.
Sin dalla propria nascita l’euro è – economicamente e nella stessa storia economica mondiale – un obbrobrio: esso non viene, infatti, alla luce come figlio dell’unità politica e fiscale di uno Stato europeo sovranazionale già costituitosi. Al contrario, esso è la moneta, lo strumento economico centrale di uno Stato che non esiste; uno strumento, dunque, in balia e in mano del soggetto statuale più forte (la Germania) e del soggetto economico preponderante, la Banca Centrale Europea, a sua volta egemonizzata dalla Bundesbank tedesca.
E’ nella comparazione storica tra processi di unificazione statuali diretti ad un’unità sovranazionale che si può cogliere tutta l’artificiosità, la pretestuosità, la falsità e, conseguentemente, la crudeltà antipopolare dei marchingegni volti alla costruzione dell’Unione europea.
Quello che porta alla costituzione degli Stati Uniti d’America, ad esempio, è un processo lungo, concreto, storico, che vede le tredici colonie britanniche del Nord America ingaggiare – unite – una lunga lotta anticolonialista e (paradosso della storia, se parliamo degli USA) antimperialista che sfocia, nel luglio del 1776, nella Dichiarazione di Indipendenza e che si offre come base materiale della costituzione degli Stati Uniti d’America. Può, il processo di unificazione degli stati e dei popoli europei, basarsi sull’esigenza del capitale transnazionale europeo di abbattere diritti, salari e stato sociale per aumentare la propria potenza di fuoco economica nella lotta per la conquista dei mercati mondiali? Può, ma deve marchiare a fuoco, sul corpo dell’Ue, una lettera scarlatta: liberismo.
Ed è anche nella comparazione tra la natura del dollaro e la natura dell’euro che si può cogliere tutta la falsità astorica dell’Unione Europea e del suo carattere ipercapitalistico a trazione imperialista, quella tedesca.
La moneta unica degli USA, il dollaro, ha più di un secolo di vita, la sua natura intima e sovranazionale si è determinata anche nella lotta storica e profonda per l’indipendenza e contro l’imperialismo inglese e nella stessa guerra di secessione. Questa stessa lotta, questa storia, l’ha resa moneta vera, non una farraginosa invenzione finanziaria e bancaria com'è l’euro.
E vi è un punto, infatti, che determina in modo netto la differenza tra dollaro ed euro: il dollaro è anche la moneta del bilancio federale statunitense. L’euro non può essere moneta del bilancio europeo per la semplice ragione che è una moneta senza Stato.
Cosa significa, ciò, nella realtà? Significa che il dollaro è la moneta unica di una politica fiscale che, pur raccogliendo le imposte dagli Stati nord americani più ricchi, può distribuire la conseguente ricchezza nazionale a Stati più poveri o in quel momento più bisognosi degli USA. L’euro, pura invenzione monetarista priva di Stato e di una politica fiscale unitaria, non può essere strumento di nessuna redistribuzione della ricchezza europea, che tende ad accumularsi in pochi Paesi (innanzitutto in Germania) senza giungere mai ai Paesi più poveri e in crisi (Berlino distrugge la Grecia e Bruxelles assiste in silenzio subordinato e codardo).
Dobbiamo chiederci: la decisione di far nascere l’euro, una moneta unica sospesa nel vuoto, senza rete, in assenza di uno Stato e di una politica fiscale unica, è stato un errore folle, un inedito storico da dilettanti allo sbaraglio, una scelta socialmente e politicamente criminale ma, in quanto tale, non voluta, oppure una decisione razionale, una scelta consustanziale al progetto di dominio del settore capitalistico europeo più forte, quello tedesco?
Non ci sono dubbi: un euro senza Stato era la via strategica dei settori capitalistici nazionali più forti; era, innanzitutto, la via tedesca. Un euro che non fosse il tramite di una politica fiscale unitaria, che non fosse la leva per imposte da ridistribuire in modo equanime, da una regione europea più ricca ad una più povera, come si fa in uno Stato unitario, era l’obiettivo dei Paesi europei e dei loro gruppi capitalistici dominanti, che interpretavano l’Ue come l’occasione per un aumento iperbolico del profitto e per il dominio politico continentale. Da Berlino nulla ad Atene, ma tutto da Lisbona. Anche nell’enfasi dell’Unione europea!
E’ del tutto evidente, tuttavia, che senza trasferimenti di ricchezza (e cioè senza una politica fiscale solidale, da Stato unitario e unico) non vi è nessuna possibilità di costruire l’Unione europea come Stato sovranazionale, ma, al contrario, si acuiscono – attraverso un dolore sociale di massa continentale – le contraddizioni centrifughe e distruttive del tutto. Epilogo, peraltro, già contemplato da Berlino che, non certo incline a sacrificare il proprio ruolo e profitto imperialista sull’altare della costruzione dell’unità europea e su quello dei trasferimenti di ricchezza, assisterebbe, senza troppo dolore, allo stesso crollo dell’Ue. La cui esperienza altro non sarebbe stata, come lo è, che una necessaria leva per la propria, nuova, accumulazione capitalistica. Economisti di orientamento marxista hanno già rimarcato che non è escluso che la Troika venga da noi, in Italia, per prendersi tutto quello che può prendere per poi, dopo il saccheggio, favorire il nostro sganciamento e la nostra uscita dall’euro. Ma già spolpati.
C’è una tendenza, in settori della sinistra vaga italiana (ma persino in alcune aree comuniste) volta a considerare l’Ue e l’euro positivi “contraltari” degli USA. Per rafforzare quest’analisi le suddette tendenze ripetono, come un mantra che, “infatti”, gli USA sarebbero fortemente critici con l’Ue e ne auspicherebbero la fine.
Tutto depone a favore del contrario, nel senso che gli USA, considerando l’Ue una loro appendice, temono invece fortemente una sua implosione, con relativa libertà, indipendenza e autonomia di quegli Stati ex nazionali e ora svuotati di senso e imprigionati nella trappola di Maastricht.
Nel corso della crisi greca ciò è stato di un’evidenza solare: nella fase in cui Tsipras si accinge ad incontrare Putin i suoi contatti (palesi e segreti, soprattutto segreti) con gli USA si moltiplicano vertiginosamente. Oppure: nella fase successiva al tentato golpe in Turchia, Obama aumenta la pressione sulla Merkel, spingendola ad essere più clemente con la Grecia. La paura degli USA è chiara: un’esplosione dell’Ue rischierebbe di spingere Stati e popoli europei verso i BRICS e ciò cambierebbe ulteriormente il mondo, in senso antimperialista. Per gli USA l’Ue è “la NATO economica”. E non va destabilizzata. Tantomeno superata.
“ L’euro – ha scritto il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz – è stato difettoso sin dalla nascita. E ora la soluzione per i problemi dell’Europa può essere solo un divorzio amichevole, o la fine della moneta unica tout court ”. Stiglitz, in una recente intervista sul Financial Times, auspica l’abbandono, da parte degli Stati nazionali, della moneta unica. “ Doveva essere un mezzo per raggiungere degli obiettivi, come la prosperità e la solidarietà europea – afferma – ma ha fatto l’opposto, producendo, in alcuni Paesi, recessioni peggiori della Grande Depressione. E ora è diventato un fine in sé, che mina altri aspetti più importanti del progetto europeo, perché semina divisione invece che solidarietà. Alcuni ritengono che i governanti abbiano fatto una serie di errori, come l’eccessiva austerità e le riforme strutturali mal disegnate. In altre parole, non ci sarebbe nulla di sbagliato nell’euro a cui non si possa rimediare, mettendo qualcun altro al comando”, argomenta il docente della Columbia University. “Io non sono d’accordo. Ci sono problemi fondamentali nella struttura dell’Eurozona, le regole e le istituzioni che la guidano e la costituiscono. Problemi che possono rivelarsi insormontabili, aprendo la strada alla possibilità di un più complessivo ripensamento della moneta unica, fino al punto di disfarla”.
Stiglitz parla di Grecia e Germania: “L’alternativa ad aggiustare i tassi di cambio nominali è adattare quelli reali, facendo diminuire i prezzi greci rispetto a quelli tedeschi. Ma non ci sono regole che possano forzare un aumento dei prezzi tedeschi, e i costi sociali ed economici che deriverebbero dal far diminuire abbastanza quelli greci sono enormi”. Risultato: “In assenza di una grande strategia, la troika delle istituzioni internazionali si è agitata e ha creato regole per il latte fresco o la dimensione delle pagnotte”.
L’euro astorico e privo di Stato ha confermato la propria natura illusoria e mistificatrice nel momento stesso in cui, alla sua nascita, è stato dotato di un valore economico altissimo ma proveniente dal nulla. Né un mercato interno consolidato e storico, né un’interazione nei mercati internazionali sono stati alla base della tanto improvvisa, quanto fantastica, ipervalutazione dell’euro. Che ha sussunto tale ipervalutazione solamente da una decisione politica del grande capitale transnazionale europeo. Una moneta finta dal valore indotto. Una banconota stampata nel deserto.
Ma è a partire da tale ipervalutazione che, da un quindicennio a questa parte, si è allargata a dismisura la forbice sociale tra i popoli e le classi dell’Unione europea, così come tra Stati e Stati. La ricchezza si è raggrumata a Berlino e la miseria si è estesa in tanta parte del continente. E non poteva essere altrimenti, di fronte ad un valore di una nuova moneta che, come la livella di Totò – la morte –, ha improvvisamente equiparato un’economia europea ad un’altra, quella greca a quella inglese; quella francese a quella portoghese; quella italiana a quella tedesca. Con la Lira debole, di fronte al marco forte, l’economia italiana aveva una grande esportazione in Germania. E la Germania ne era terrorizzata. Con l’euro forte ed unica misura di interscambio, le merci tedesche (d’avanguardia o meno) che l’Italia deve importare costano come l’oro. Mentre l’euro – immensamente più forte dell’economia italiana – affonda in essa come una spada nel burro. L’insieme dell’interscambio e del commercio in euro tra Paesi che la retorica dell’Ue spaccia già per “Stato unico” divengono subito micidiali per le economie più deboli e fonte di grande profitto per quelle più forti. In testa, more solito, la Germania. Con in più, rispetto alla mancanza di una politica fiscale sovranazionale e politiche sociali di ammortizzazione, l’impossibilità della redistribuzione equa delle imposte.
Appena parte l’euro, gennaio 2002, si manifestano concretamente, in Italia e altrove, le due contraddizioni sociali più evidenti: i prezzi delle merci – per lo stesso meccanismo intrinseco alla nuova moneta unica – raddoppiano letteralmente e gli stipendi e i salari perdono almeno il 40% del loro valore d’acquisto. Prima dell’euro, con un salario di due milioni di lire si andava avanti. Con mille euro (il corrispettivo dei due milioni di lire) il disagio sociale è assicurato, la miseria sfiorata. Nel quadro generale costituito dall’euro (e dalle politiche liberiste imposte dall’Ue) il valore dei salari e degli stipendi retrocede, raggiungendo quello, sempre in Italia, di vent’anni fa. Mentre il prezzo delle merci, già raddoppiato da quando si pagavano in Lire, tende ad aumentare ancora. L’avvento dell’euro, in Italia e in altri Paesi dell’Ue, è il cavallo di Troia da cui esce la miseria di massa.
Ma quali sono gli scenari economici concreti che hanno preso forma dopo l’euro?
Per ciò che riguarda la produzione industriale il dato è davvero sconvolgente: in relazione a tutta l’area Ue abbiamo assistito ad un immenso trasferimento di produzione industriale da tutti i Paesi periferici verso la Germania, come conseguenza dell’invariabilità dei cambi, che consente al sistema meno inflattivo (che è il tedesco) e più efficiente di attirare a sé sempre più ampie quote di produzione. Scrive “Scenari Economici”: “ Per capirsi, dal 2005 ad oggi l’Italia ha fatto -18% e la Germania +10%; è come se in sette anni tutte le fabbriche presenti nel Centro Italia avessero chiuso e si fossero trasferite in Germania”.
Per ciò che riguarda la bilancia commerciale e la bilancia dei pagamenti: “L’euro ha consentito alla Germania – ancora da “Scenari Economici” – di ampliare a dismisura i propri attivi commerciali in una misura pari esattamente alla somma della crescita dei passivi in Spagna, Italia, Francia e altri Paesi periferici”.
L’occupazione: “ L’euro ha consentito alla Germania – sempre da “Scenari Economici – di riprendere la sua corsa del PIL e dell’occupazione, e ciò è stato fatto ai danni di diversi Paesi periferici, in primis l’Italia, che è il secondo Paese manifatturiero europeo... Ricordate che sino al 2000-2005 si diceva che la Germania era il grande malato d’Europa? Era vero, visto che aveva un andamento del PIL asfittico, peggiore di ogni nazione europea”. Grazie all’euro, ai suoi meccanismi che privilegiano le grandi strutture economiche abbattendo le più deboli – afferma “Scenari economici” – la Germania è divenuta la più grande forza economica europea e tra le più grandi del mondo. Un Paese non certo volto a dividere la propria ricchezza in un vero Stato sovranazionale che, oltre la moneta unica, giunga ad un unico Stato e ad un unico, democratico, trasferimento di ricchezze. Da questo punto di vista – e in modo certo non paradossale – un’Unione europea dei popoli e della democrazia è proprio ciò che la Germania non vuole. Preferendo di gran lunga ciò che sta nascendo: un’Unione europea neo imperialista a trazione tedesca.
Tra i segni che più rimarcano la natura ultraliberista dell’Ue e dell’euro, vi è sicuramente quello del debito pubblico, o meglio di come l’Ue consideri il debito pubblico. Esso, per la troika, è il male assoluto, ciò che ogni Stato deve cancellare totalmente da sé, anche a costo di privarsi di ogni leva per la ripresa dello sviluppo economico. E’ una considerazione facile se dettata, com’è dettata, da Berlino, da una Germania che, anche in virtù dell’euro e di Maastricht, ha rivisto la propria economia e il proprio sviluppo spiccare il volo. E’ una considerazione liberista, di destra, reazionaria che, contraddicendo anche l’intero “spirito” keynesiano, costringe i Paesi più deboli ad arretrare ulteriormente, i popoli più in difficoltà ad entrare nella povertà. Il fatto che Bruxelles, la BCE, Berlino abbiano imposto ai governi italiani di introdurre il fiscal compact nella Costituzione è un segno della ferocia oggettiva della linea e della natura dell’Ue. Ma è anche un segno – tra i più probanti – dell’irriformabilità oggettiva dell’Unione europea, che solo a costo di sviluppi economici diversificati e di spostamenti di ricchezza (saccheggi di ricchezza) da uno Stato all’altro può sussistere in quanto tale.
Ciampi e Prodi sono stati tra i più importanti artefici dell’adesione dell’Italia all’euro. Imponendo ai lavoratori e alle lavoratrici d’Italia politiche di lacrime e sangue e conquistando, paradossalmente, la stima e la benevolenza di tanta parte della sinistra italiana. Una sinistra che proprio sulla questione dell’Ue e dell’euro ha già rivelato e sta rivelando la propria natura codina e su tale questione può terminare la propria storia. Estinguendosi.
I danni sociali direttamente riferibili all’Ue e all’avvento dell’euro sono, in Italia, danni di guerra. Disoccupazione e inoccupazione di massa; disoccupazione giovanile vicina al 50%; welfare ampiamente distrutto o privatizzato; sotto salarizzazione di massa; privatizzazione massiccia dei comparti pubblici e processi imponenti e pressoché irreversibili (nel quadro Ue) di gran parte del settore industriale. Un dominio economico e ideologico della borghesia tedesca su quella italiana così totale da trasformare il capitalismo italiano in “struttura di riciclo” delle merci tedesche e di quelle importate, senza più velleità e progetti di produzione autonoma, specie d’avanguardia. Alla fine del ciclo, nel suo punto alto, un’economia, quella italiana formato Ue, da mondo pre-industriale, o meglio post-industriale. La storia dei brevetti ne è chiara testimonianza: l’Italia, una volta primo Paese in Europa per la notifica dei brevetti, ora è all’ultimo posto. Sul piano politico, la compromissione di tanta parte della sinistra italiana (comunisti compresi) nei cosiddetti esecutivi di centro-sinistra e la sua, conseguente, subordinazione ai dettami di Maastricht e alla legge dell’euro hanno costretto questa stessa sinistra a svolgere, per ora, un ruolo quasi testimoniale, spianando la strada alle crescita delle forze di destra e/o populiste. Su questo punto (il punto della rovinosa partecipazione della sinistra e dei comunisti ai governi di centro-sinistra, col compito dichiarato di contenere l’attacco liberista dell’Ue poiché “anche un millimetro di antiliberismo conquistato è antiliberismo conquistato”) occorre fermare l’attenzione, poiché il migliorismo che ha guidato tale azione generale è ancora vivo. E lotta assieme a Berlino.
I comunisti e le comuniste dovrebbero invece – debbono! – svolgere un ruolo rivoluzionario rispetto all’Ue e all’euro. Rivoluzionario vuol dire, innanzitutto, non concepire – come fanno tanti, troppi, a sinistra – l’Ue e l’euro come fenomeni di natura e, dunque, imprescindibili. Così il capitalismo pensa di se stesso. E i comunisti non credono al capitalismo come fenomeno naturale. L’Ue non è mai stata all’ordine del giorno della storia. Essa, così come ci si presenta, è una pura invenzione del grande capitale europeo che, con la forza, tenta di imporla storicamente, di trasformarla in dato storico. I compagni e le compagne che credono non vi sia altra via che “combattere l’Ue dall’interno”, interiorizzando tuttavia dell’Ue l’imprescindibilità storica, cadono nella mistificazione e nella trappola del capitale. I rivoluzionari guardano il mondo, lottano contro le forze imperialiste, si schierano con i fronti internazionali antimperialisti e progressisti. L’Ue è palesemente irriformabile; il liberismo è nel suo DNA. Senza questo essa crollerebbe su se stessa, poiché non più funzionale ai disegni imperialisti, specie tedeschi. Non accettare l’Ue è possibile; dall’Ue e dall’euro si può anche uscire, allargando gli orizzonti e legandosi con i Paesi e i mondi rivoluzionari e in via di trasformazione sociale. Anche se sembrano geograficamente lontani da noi. Ma è l’ideale che unisce, non la vicinanza dei confini. In fondo, il Sud Africa (la “esse”” finale dei BRICS) è molto più lontano dalla Cina, dalla Russia, dal Brasile, dall’India, di quanto lo siano l’Italia e la Grecia. Ma la collocazione su di un fronte rivoluzionario è una scelta filosofica. Non geografica. E potranno esserci altre Banche, democratiche, progressiste. Non la BCE, non il FMI. E altre relazioni commerciali, scambi di natura solidale e non imperialista su scala mondiale, non racchiusi, per la “legge di Maastricht”, nell’orto chiuso dell’Ue, sotto la legge liberista dell’euro. E altri Paesi del mondo. Altre politiche. Altri popoli. Il mondo è grande. Non finisce a Berlino.
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