Le due isole disabitate di Tiran e Sanafir non trovano pace. L’ultimo
capitolo della vicenda a dir poco burrascosa è andato in scena ieri
quando la “Corte delle questioni urgenti” ha rovesciato una
precedente sentenza giudiziaria pronunciata a gennaio dalla Corte
suprema che bloccava la loro cessione alla monarchia wahhabita di re
Salman. Un rifiuto, in realtà, che era stato più volte ribadito
in questi mesi: lo scorso 21 giugno un tribunale amministrativo aveva
infatti annullato il loro trasferimento ai sauditi e a novembre una
corte di appello aveva rigettato il ricorso del governo egiziano
ribadendo nei fatti la proprietà egiziana di Tiran e Sanafir.
Non la pensa così però la “Corte delle questioni urgenti” che ieri ha
rovesciato quanto finora sostenuto dalle autorità giudiziarie: la Corte
suprema, ha dichiarato, non ha alcuna giurisdizione a riguardo e
pertanto il suo parere è da considerarsi nullo. Una motivazione che è
stata subito respinta sulle pagine del quotidiano al-Ahram da Malek Adly, uno degli avvocati che ha sfidato l’accordo egiziano-saudita. Secondo Adly, l’organismo
giudiziario di ieri non può emettere sentenze su questo argomento né
può contraddire il parere della Corte amministrativa suprema che ha una
maggiore rilevanza giudiziaria. Che i due apparati giuridici abbiano
posizioni così diametralmente diverse non deve destare alcuna
sorpresa: la Corte delle questioni urgenti è spesso utilizzata dal
governo per passare risoluzioni veloci che favoriscono l’esecutivo o che
servono a silenziare il dissenso politico.
La proprietà di Tiran e Sanafir, per più di 30 anni sotto il
controllo egiziano, è stata a lungo dibattuta nel corso degli anni dal
Cairo e Riyadh che ne hanno rivendicato rispettivamente
l’appartenenza. Alla base dell’accesa disputa diplomatica vi è
l’importanza strategica che le due isole hanno poiché si trovano tra la
città giordana Aqaba e quella israeliana di Eilat. Una rilevanza
geopolitica, del resto, che non è sfuggita alla stessa Tel Aviv che le
aveva occupate nel 1967 durante la Guerra dei Sei Giorni salvo poi
restituirle nel 1982 agli egiziani in seguito agli accordi di pace di
Camp David.
La loro recente cessione ai “fratelli” sauditi – stabilita l’anno scorso durante una visita al Cairo di re Salman – aveva
generato accese proteste da parte di numerosi egiziani che avevano
accusato il governo di averle “vendute” in cambio di aiuti economici. Un
sostegno finanziario di cui il governo egiziano ha sempre più bisogno
per sopravvivere vista la situazione economica in cui versa, ma che ha
un prezzo esoso: Riyadh ha comprato la fedeltà egiziana in
politica interna (nella repressione dei Fratelli Musulmani) e in quella
estera con prestiti, finanziamenti, donazioni e accordi sull’export di greggio.
Tutto sembrava procedere bene tra sauditi ed egiziani quando ad
ottobre la luna di miele tra i due sembra essersi interrotta: l’Egitto
ha infatti votato a favore della risoluzione russa sulla Siria avversata
dai sauditi per poi riallacciare i rapporti con Mosca e discutere anche
con l’Iran. Infine non ha mandato in Yemen i soldati che l’Arabia
Saudita si aspettava.
Il verdetto giunge nelle stesse ore in cui al-Sisi è impegnato in un’importante visita ufficiale di cinque giorni negli Usa. Oggi incontrerà il presidente statunitense Donald Trump
a cui ripeterà di essere l’alleato più affidabile nel mondo arabo. Tra i
temi discussi, massima priorità l’avrà la lotta ai gruppi islamisti
(più o meno radicali). Trump, che starebbe pensando di proclamare i
Fratelli Musulmani un “gruppo terroristico”, non avrà molte difficoltà
ad accordarsi con il Cairo che, da quando è salito al potere il golpista
al-Sisi, si è fatto paladino della lotta senza quartiere ai gruppi
dell’Islam politico (tout court considerati “terroristi”). Altri temi
caldi saranno le crisi che vive l’area Mena (Medio Oriente e Nord
Africa): dalla mattanza siro-irachena, al caos libico passando per il
dimenticato Yemen. Dovrebbe trovare spazio anche la questione
palestinese: ancora una volta verrà proposta dagli egiziani l’iniziativa
araba del 2002 che offre a Israele il riconoscimento dei trattati di
pace con tutti i Paesi della regione in cambio del suo ritiro dai
territori palestinesi e arabi che ha occupato nel 1967.
L’incontro tra i due presidenti – la prima visita ufficiale di un
capo di stato egiziano alla Casa Bianca dal 2010 – sarà sicuramente
“disteso”: al-Sisi, del resto, è stato il primo capo di stato arabo a
felicitarsi a novembre con il suo pari americano per la vittoria alle
presidenziali. Congratulazioni non soltanto figlie di retorica e
diplomazia, ma manifestazioni sincere di vicinanza a Trump dopo alcune
divergenze con l’amministrazione Obama. Differenze che, tuttavia, non
hanno mai ostacolato l’arrivo degli ingenti aiuti militari ed economici
americani all’Egitto (oltre 2 miliardi di dollari all’anno) previsti
dagli accordi di Camp David del 1979.
In attesa del vertice di oggi con il nuovo inquilino della Casa Bianca, ieri, intanto,
al-Sisi ha incontrato il capo della Banca Mondiale Jim Yong Kim con cui
ha discusso delle riforme economiche implementate dal suo governo, di
cooperazione nello sviluppo di importanti progetti sul suo territorio,
di energia e trasporti. Il presidente ha poi detto a Kim che il
suo esecutivo continuerà a realizzare il piano di riforme economiche
previsto espandendo i programmi e le reti di protezione sociale e
compiendo ulteriori passi in campo amministrativo e legislativo.
L’incontro, tra sorrisi e strette di mano, è giunto più o meno a una
settimana di distanza dalla consegna all’Egitto della prima tranche di
aiuti (1 miliardo di dollari sui 3 complessivi) stanziati dalla Banca
Mondiale per sostenere le “riforme economiche” del Cairo, in particolar
modo in campo fiscale, in quello energetico e nel settore privato.
Ma soldi arrivano anche dal Fondo Monetario che a novembre ha
consegnato all’Egitto la prima parte degli aiuti economici (2,75
miliardi di dollari, sui 12 totali).
Rimpinguare le casse vuote egiziane è solo uno dei problemi che deve affrontare al-Sisi. Un altro tema chiave è quello legato alla sicurezza. Ieri l’esercito egiziano ha confermato l’uccisione (avvenuto lo scorso 18 marzo) di Abu Anas al-Ansari,
uno dei membri fondatori del gruppo jihadista Ansar Beit al-Maqdis. La
sua organizzazione aveva giurato alleanza all’autoproclamato califfato
nel novembre del 2014 cambiando il nome in “Stato Islamico – provincia
del Sinai”.
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