di Chiara Cruciati – Il Manifesto
America again, il cane da
guardia globale non molla la presa. In realtà, non l’ha mollata mai. La
narrativa trumpiana del non-interventismo, agitata come una bandiera in
campagna elettorale (e già nel settembre 2013, a colpi di tweet, quando
Obama arrivò ad un passo dall’attacco militare contro Damasco) altro non
è che la maschera di un presidente che non si discosta affatto dalle
orme dei predecessori.
I 59 missili Tomahawk che la notte di venerdì 7 aprile hanno colpito
la base aerea siriana di Shayrat (a sentire Trump, ordinati mentre era
a cena con il presidente cinese Xi Jinping, alleato siriano, di fronte «al
più bel pezzo di torta al cioccolato che abbia mai visto») non fanno
altro che far cadere la foglia di fico di un’amministrazione
composta da uomini di guerra, ‘cani pazzi’, petrolieri, ex generali,
islamofobi: da quando Donald Trump siede nello Studio Ovale gli
interventi militari nel Vicino e Medio Oriente si sono moltiplicati.
Oltre agli stivali sul terreno, i 500 marines mandati nel nord della
Siria a sostegno delle Forze Democratiche Siriane in chiave anti-Isis, la
politica militare di un presidente che ha messo a bilancio 54 miliardi
di dollari (+10%) per l’esercito da qualche parte doveva sfogare.
I numeri li ha raccolti Airwars, organizzazione no-profit che –
incrociando le informazioni ufficiali della coalizione a guida Usa con
quelle che giungono dal monitoraggio locale – dal 2014 tiene il conto
dei bombardamenti aerei tra Siria e Iraq e delle vittime civili,
nell’asettico linguaggio bellico «effetti collaterali».
Prendiamo solo l’ultimo anno: da gennaio a dicembre 2016 l’amministrazione Obama ha effettuato in Siria una media di 262 raid al mese, con il minimo toccato a marzo (132 azioni) e il massimo a luglio (352). Nei
primi mesi del 2017, a guida Trump, i raid Usa sono raddoppiati: 535 a
gennaio, 547 a febbraio, 434 a marzo e 129 fino al 10 aprile.
Non troppo diversa la situazione in Iraq: Obama intensificò gli
interventi fino a maggio 2016, con 500 raid al mese di media, per poi
farli calare a partire dall’estate, chiudendo il suo ultimo mese di
presidenza con 185 bombardamenti aerei in territorio iracheno. Con
l’arrivo di Trump sono tornati a salire: 234 raid a gennaio, 272 a
febbraio, 268 a marzo e 87 fino al 10 aprile.
Se i bombardamenti raddoppiano, il numero di civili uccisi si
moltiplica: secondo Airwars – che somma i morti tra Siria e Iraq dovuti
ad azioni della coalizione a guida Usa – nei primi tre mesi e mezzo del
2017 l’aviazione di Trump ha ucciso più di quanto non abbia fatto la
precedente amministrazione nell’intero 2016: furono 2.683 i civili uccisi in Siria e Iraq lo scorso anno, sono 3.122 da gennaio 2017 al 10 aprile.
Marzo è il mese più atroce: 1.754 morti, di cui non si è saputo praticamente nulla,
eccezion fatta per i 300 iracheni massacrati a Mosul in un raid contro
alcune abitazioni; i 42 siriani sepolti sotto le macerie di una moschea
nel villaggio di al-Jinah, ad Aleppo; e i 33 morti a Raqqa, scovati dai
droni in una scuola dove si erano rifugiati da sfollati.
Il non-interventismo non è stato mai un’opzione per l’amministrazione
del tycoon. L’ultimo attacco alla base siriana di Shayrat non è che la
punta visibile di un iceberg nascosto. La “linea rossa” delle
armi chimiche serve ad allargare il raggio d’azione al governo di
Damasco, facendone la seconda priorità dopo la guerra al terrorismo
jihadista dell’Isis.
Identica la situazione in Yemen: l’esercito statunitense, sotto il
comando di Trump, ha compiuto nel solo mese di marzo il doppio dei raid
aerei del 2016. Settanta volte sono piovute bombe dai jet Usa, contro
postazioni di al Qaeda vere e presunte.
Dopo soli tre giorni dall’ingresso alla Casa Bianca, il tycoon stava
già bombardando il paese del Golfo, uccidendo almeno 30 civili, per lo
più donne e minori, tra cui una bambina di otto anni cittadina yemenita e
statunitense.
Morti che fanno meno scalpore di quelli uccisi con il gas, chiunque ne sia il responsabile.
Chissà se pensava a loro il segretario di Stato Tillerson quando lunedì
a Sant’Anna di Stazzema, al sacrario delle 560 vittime della strage
compiuta dai nazisti nel 1944, ha detto: «Vogliamo essere coloro che
sanno rispondere a quanti creano danni agli innocenti in qualunque parte
del mondo».
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