Alla fine degli anni ’70 l’Inter si recò in tour in Cina mentre, a sua volta la nazionale cinese fece un’amichevole a Milano, di cui rimane questo riflesso filmato con racconto di Sandro Mazzola.
All’epoca si trattò della maturazione di contatti commerciali, con la Cina, che si sono sviluppati lungo il corso del tempo. Tanto che
oggi la comunità cinese è stata protagonista, anche se un po’
chiacchierata, delle primarie del PD a Milano mentre capitali e cordate
cinesi si sono comprati l’Inter, e più recentemente, il Milan.
Curiosamente, ma non troppo, la popolarità delle due squadre
milanesi in Cina è dovuta alle trasmissioni di CCTV Sports, l’emittente
sportiva di stato, durante gli anni ’90. Era il periodo delle
“sette sorelle” del calcio italiano, in cui le coppe europee, anche
tutte e tre nello stesso anno (come avvenne nel ’90), finivano
regolarmente in Italia. Una generazione di manager cinesi dello sport è
cresciuta, in quel modo con il mito del calcio italiano.
Ma l’acquisto cinese di Inter e
Milan porta due modelli di business diversi quanto differenti erano le
presidenze italiane dei due club. Il primo l’Inter, fino a che è stato a presidenza Moratti, è stato il club che incarnava lo spirito sportivo-filantropico della grande borghesia milanese.
Non inganni la parola: sportivo-filantropico significa la capacità di
tessere reti di affari, e di relazioni che contano, grazie allo sport e
alla filantropia sportiva (in Italia e in tutto il mondo). Certo, ad un
certo punto finanziare il mondo Inter per la famiglia Moratti era diventato insostenibile. Di qui il passaggio a Tohrir, un tycoon indonesiano, che ha consolidato i debiti dell’Inter per rivenderli, assieme alla squadra, al gruppo Suning. Un conglomerato cinese, di vendite al dettaglio e on line, di circa 25.000 dipendenti con un fatturato annuo pari ad una manovra finanziaria del nostro paese. Suning, recentemente, ha acquistato i diritti della Bundesliga
(circa 260 milioni) per la propria televisione. E’ evidente
l’intenzione, da parte del gruppo, di espandersi nel settore calcio. Non
solo come acquirente di diritti televisivi, per poi trasformarli in
audience pubblicitaria, ma anche rivenditore di diritti in quanto
proprietario dell’Inter e dello Jangsu di Nanchino squadra della nuova
gallina dalle uova d’oro chiamata Chinese Super League.
Differente è la questione del Milan. Sono passati i tempi in cui Berlusconi, pubblicamente, si vantava di dire ai suoi figli “non vendere mai il Milan”. Ma parlava di una
squadra che era diventata prima un moltiplicatore pubblicitario per le
aziende del gruppo, poi un’arma per il governo dei diritti televisivi e,
infine, uno strumento di consenso elettorale. Negli ultimi anni il Milan non era più nulla di tutto questo. Tanto che, dopo la vittoria in Champions League del 2007, il gruppo Berlusconi non aveva più l’interesse strategico, e le risorse, per mantenere il costoso giocattolo. Ecco che ora il
Milan è passato ad un gruppo cinese, o sino-americano a seconda delle
letture, che sembra mantenere tutte le caratteristiche del gruppo Tohrir
che ha acquistato l’Inter. Magari con maggiore difficoltà,
viste le restrizioni che il governo cinese ha imposto all’esportazione
di capitali (a causa anche della fuga di capitali sul calcio) ma la
logica sembra simile: acquistare per consolidare il debito, in questo caso del Milan, e poi rivendere.
Oppure attirare nuovi soci in grado di far guadagnare sull’operazione
originaria (che complessivamente è sui 750 milioni di euro).
Suning e la cordata cinese, o sino-americana, che ha acquistato il Milan sono quindi due soggetti diversi.
Il gruppo che ha preso l’Inter ha un business stabilizzato, e fiorente,
quello che ha acquistato il Milan cerca il colpo grosso, e quindi il
grandissimo business, proprio a partire dall’acquisto della squadra rossonera. Entrambi i club sono uniti pero’ da una cosa: sabato c’è il derby. Orario, 12,30 per permettere la visione in prime time cinese.
Curiosamente per anni il derby è letteralmente scomparso di pomeriggio,
per le pay tv europee, adesso riappare all’ora di pranzo. Per la
televisione cinese. A lungo il campionato di serie A è stato una
vetrina del capitalismo italiano e del potere politico. Visto l’impiego
di capitali e l’importanza della politica di relazione. Per cui, magari, a Milano l’imprenditore più importante (negli anni ’60 Rizzoli,
settore media poi Berlusconi stesso settore) si prendeva i rossoneri e
nella capitale le successioni di presidenza della Roma le decideva Andreotti (ultima volta, i Sensi come successori di Ciarrapico). Oggi il capitalismo italiano si allontana sempre di più dal calcio di vertice,
specchio del fortissimo indebolimento economico e politico, tanto che
quello di Milano è un derby cinese e la Roma è in mano ad un gruppo
americano. Per non dire che la stessa Juventus è governata da un
gruppo che oggi ha sede in Olanda, uno dei paradisi europei
dell’evasione fiscale legale, e quotato a Londra. Tutto questo
spostamento di proprietà, in quell’ambito centrale per il consenso
politico che è l’intrattenimento, naturalmente troverà il suo riflesso
in politica. Come è già accaduto per Berlusconi, direttamente, o indirettamente. È una legge di natura, possiamo dire.
Ma, cosa è oggi il calcio? Sicuramente non è più un divertimento legato alla ritualità collettiva (le partite non si giocano più lo stesso giorno alla stessa ora, frantumando quell’idea di coralità tipica dei riti) ma al suo inserimento nel palinsesto personale
(tra un impegno e l’altro nella variabilità degli orari, e in quella
delle reti amicali). Il calcio ha evidentemente perso in coralità, le
tifoserie si aggregavano attorno a questo fenomeno, per guadagnare come
strumento di intensificazione delle reti sociali via digitale. È, oggi, un fenomeno più legato alla intensità da social che a quella da stadio. Oltretutto oggi non è infrequente vedere persone che, nelle fasi
topiche della partita, la guardano attraverso il cellulare. Non che
tutto questo sia uno scandalo ma, sicuramente, comporta trasformazioni
nei ruoli sociali e del loro peso nel calcio e nella società. Basti
vedere chi sono i protagonisti dei primi piani, quelli che valorizzano
immagini, durante le partite. A parte i vip poi tifoserie oscurate e vai
primi piani di giovani coppie, bambini (pubblico fondamentale per una
fidelizzazione commerciale visto che orientano il consumo in famiglia),
donne in funzione, ahinoi, decorativa. La polpa del pubblico che produce
profitti per il calcio è questa. Un pubblico che, sentendosi così
rappresentato, cerca poi protagonismo. Ed è quel pubblico che oltre ai
cellulari cinesi oggi consuma anche le squadre italiane possedute dai
cinesi.
Senza fare i moralisti, cosa anche
ridicola, si tratta però di indicare che questi fenomeni, apparentemente
di colore, portano con sé serie trasformazioni non solo sociali ma
politiche. Ma è roba che la politica di oggi, occupata a litigare su
stupidaggini (“hai rubato tu... no tu”), neanche vede.
Redazione, 14 aprile 2017
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