di Michele Giorgio
Lo sciopero della fame
dei detenuti politici di Fatah, che si appresta a lanciare Marwan
Barghouti, è una protesta contro Israele e per migliorare le condizioni
di vita nelle carceri. Ma ha anche un evidente obiettivo politico
interno: mettere sotto pressione i vertici del partito e dell’Anp.
Barghouti, noto come il “Mandela palestinese” e il dirigente di Fatah
più popolare nei Territori palestinesi occupati, è stato messo in
disparte nonostante sia risultato il più votato tra i membri del
Comitato centrale al recente congresso del partito. E dal
carcere, forte del sostegno di circa 3000 detenuti di Fatah, ora sfida
coloro che si sono candidati a sostituire l’82enne presidente Abu Mazen. Da giorni la moglie Fadwa, esponente anche lei di primo piano di Fatah, sui social, lancia accuse ai piani alti del partito.
L’inizio del digiuno è previsto il 17 aprile. Barghouti ha presentato diverse richieste alle autorità israeliane
tra le quali l’aumento dei giorni di visita per i familiari dei
prigionieri, soluzione all’affollamento delle celle e installazione di
telefoni pubblici a disposizione dei detenuti.
Intende intavolare una trattativa che il ministro israeliano per la sicurezza interna Gilad Erdan invece respinge
e ha già disposto l’allestimento di un ospedale da campo vicino al
carcere di Katziot, il più interessato dalla protesta, per curare i
prigionieri che potrebbero avere problemi di salute a causa del digiuno
prolungato, senza doverli mandare negli ospedali.
Barghouti punta molto sul successo di questo sciopero della fame che
coinvolge circa metà dei detenuti politici palestinesi. Se riuscirà a
costringere Israele ad accogliere le sue richieste, allora dimostrerà
in modo inequivocabile la sua leadership forte dell’appoggio di
migliaia di prigionieri, dei loro familiari e di tanti altri palestinesi
che saranno chiamati a scendere in strada in appoggio alla protesta.
Barghouti è anche alla ricerca di una rivincita. Nonostante l’enorme
popolarità di cui gode, non è stato nominato vice presidente del partito
come si aspettava lo scorso dicembre. La carica è stata assegnata a
Mahmud al Aloul, personalità politica stimata ma non carismatica e
popolare come lui. Al Aloul ora è nelle condizioni per ambire alla
poltrona di presidente dell’Anp.
Barghouti e i suoi sostenitori non ci stanno. Il Mandela
palestinese peraltro non condivide la linea morbida di Abu Mazen e
contesta apertamente il proseguimento della cooperazione di sicurezza
tra l’Anp e Israele. E non è un caso che la protesta dei detenuti di
Fatah avrà inizio mentre il presidente dell’Anp si prepara a partire per
Washington dove sarà ricevuto da Donald Trump alla Casa Bianca.
«Di fronte ad un successo dello sciopero della fame i vertici del
partito e dell’Anp non potranno continuare a tenere Barghouti nel
congelatore. Allo stesso tempo (Barghouti) avrà bisogno che il digiuno
dei detenuti vada avanti senza defezioni per alcune settimane, in caso
contrario perderà la sua battaglia», spiega al manifesto N.A. un anziano militante di Fatah che ha chiesto l’anonimato.
Non è chiaro se al digiuno aderiranno anche i detenuti di
Hamas. Il movimento islamico è tentato dal partecipare a una iniziativa
che mette in difficoltà i leader del partito rivale. Ora però è
impegnato nelle indagini sull’assassinio di Mazen Faqha, un suo
importante comandante militare, che ha attribuito ad agenti di Israele.
A metà settimana sono stati giustiziati in pubblico tre presunte spie
tra le proteste dei centri per la tutela dei diritti umani. Allo stesso
tempo Hamas ha dato il via libera alla riapertura di Gaza, sigillata
dopo l’assassinio di Faqha.
Le tensioni nella Striscia sono molto forti in conseguenza anche del
peggioramento delle condizioni di vita. Ieri decine di migliaia di
palestinesi sono scesi in strada contro il taglio del 30% del salario
degli ex dipendenti pubblici dell’Anp, decisi dal governo del premier di
Ramallah, Rami Hamdallah. Dopo la presa del potere a Gaza da parte di
Hamas nel 2007, l’Anp intimò ai suoi dipendenti, circa 70mila persone,
di non lavorare per le autorità che definiva “golpiste” (Hamas impiega
suoi dipendenti, oltre 40mila) e ha continuato a retribuirli in questi
dieci anni.
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